Il buco che ho nel cuore ha la tua forma: 9788868151034
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Anteprima del libro
Il buco che ho nel cuore ha la tua forma - Eleonora Molisani
Il buco che ho nel cuore ha la tua forma
Storie del terzo millennio
Eleonora Molisani
Meligrana Editore – Priamo
Copyright Meligrana Editore, 2014
Copyright Priamo, 2014
Copyright Eleonora Molisani, 2014
Tutti i diritti riservati – All rights reserved
ISBN: 9788868151034
Immagine di copertina:
Angelo Formica, Sirena di cuori, collage, 2014.
Meligrana Editore
Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)
Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041
www.meligranaeditore.com
info@meligranaeditore.com
Priamo
www.priamoedit.it
info@priamoedit.it
INDICE
Frontespizio
Colophon
Licenza d’uso
Eleonora Molisani
Copertina
Dedica
Il buco che ho nel cuore ha la tua forma
ARRIVA LA BUFERA
VACANZA PREMIO
LA RETE AMMAZZA I GIOVANI
FATTI NON FOSTE A VIVER COME BRUTI
BLOODY BRIGHTON
SE SON ROSE, SFIORIRANNO
CRUDELIA DE-MOM
HO VISTO COSE
E IL NAUFRAGAR M’È DOLCE
MASCHILE SINGOLARE
KILLING ME SOFTLY
ITALIAN DREAM
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DEAR DADDY
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COME TI SEI RIDOTTO IN QUESTO STATO?
IN ORROR VINCE CHI FUGGE
PATIRE È UN PO’ MORIRE
PAROLIBERE
Priamo
Meligrana
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Eleonora Molisani
Eleonora Molisani, giornalista professionista, è caposervizio attualità del settimanale Tu Style di Mondadori. Collabora con il portale di pop-publishing Scrivo.me di Mondadori e con il webmagazine Il Calibro. Online ha fondato la community Natural Born Readers&Writers e il newsmagazine News-tweet. Collabora, come docente di giornalismo multimediale, con la Scuola di comunicazione Mohole di Milano.
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A mamma e papà.
Alla morte, alla vita: Francesco.
Ho perso qualche dea per via dal Sud al Nord,
e anche molti dei per via dall’Est all’Ovest.
Mi si è spenta per sempre qualche stella, svanita.
Mi è sprofondata nel mare un’isola, e un’altra.
Non so neanche dove mai ho lasciato gli artigli,
chi gira nella mia pelliccia, chi abita il mio guscio.
Mi morirono i fratelli quando strisciai a riva
e solo un ossicino festeggia in me la ricorrenza.
Non stavo nella pelle, sprecavo vertebre e gambe,
me ne uscivo di senno più e più volte.
Da tempo ho chiuso su tutto ciò il mio terzo occhio,
ci ho messo una pinna sopra, ho scrollato le fronde.
Perduto, smarrito, ai quattro venti se n’è volato.
Mi stupisco io stessa del poco di me che è restato:
una persona singola per ora di genere umano,
che ha perso solo ieri l’ombrello sul treno.
Discorso all’Ufficio oggetti smarriti
Wislawa Szymborska
ARRIVA LA BUFERA
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale. E ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio. Non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole, vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.
Eugenio Montale
Ti spalmavo di crema le mani secche. Te le accarezzavo. Le vene di fuori, le vene blu. Le braccia martoriate dagli aghi. Ti massaggiavo le braccia, le ossa di fuori, i lividi viola. Ti massaggiavo i piedi, i piedi blu, i capillari scoppiati.
Ti sollevavo la testa. Ti sistemavo i cuscini. Gridavi: Che male! Voglio la puntura!
Morfina. Ti facevo venti, cinquanta, cento morfine al giorno, ma non bastava. Ti faceva male tutto. Giorno e notte. Mattina, sera, pomeriggio. Stavo in piedi accanto al tuo letto, in equilibrio sul mio scheletro: trentotto chili di corpo scarnificato dal dolore e schiavo dell’impotenza.
Ti portavo in bagno, non ce la facevi. Non ce la facevo nemmeno io: eri grande, sei sempre stata più grande di me. Eri stata mia madre, una volta. Da tanto, ormai, eri mia figlia. Più grande di me, più forte di me. Più buona di me, più bella di me, più brillante di me, più splendente di me.
Eri tutto, e diventavi niente.
La notte, lo stomaco mi faceva male: dovevo accartocciarmi come quei vermi immondi, per resistere al dolore. Urlavo in silenzio, per non farmi sentire. Sentivo i tuoi rantoli strascicati, tracce della tua dissolvenza. Ascoltavo i respiri, cercavo di percepire i battiti: se c’erano ancora. Sopravvivevo, con il terrore di perderti ogni istante. A tratti mi sembrava di non sentire più il tuo affanno. Allora morivo io. Aghi appuntiti nelle viscere: credevo che non mi sarei mai più rialzata.
Invece il nastro si riavvolgeva, e la mattina toccava andare al lavoro, e poi tornare da te, e imbottirti di morfina, e darti l’acqua con la cannuccia, e massaggiarti i piedi, le mani, le braccia, e ancora i piedi. E accarezzarti la testa. E venirti vicino, e raccontarti storie, e metterti il