Il Grimorio Nero
4.5/5
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Info su questo ebook
La leggenda vuole che sia apparso millenni fa nell'Antico Egitto, ma da allora nessuno lo ha mai più rivisto. I Maghi Neri lo cercano disperatamente, per iniziare ad armi pari la guerra finale contro le altre Confraternite. Prima di loro, però, sperano di trovarlo Tom, Eaden, Beryl e la loro piccola compagnia, per evitare di far scoccare la scintilla che la farà divampare.
Ma lo scontro finale è alle porte e i belligeranti stanno per scendere nel campo di battaglia...
Stefano Lanciotti
Stefano Lanciotti was one of the most sensational cases of self-publishing in Italy. Over 20,000 people read the Nocturnia Saga. He published three highly successful thrillers with the publisher Newton Compton and now wishes to introduce the dark world of Nocturnia to the Anglo-Saxon public.
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Il Grimorio Nero - Stefano Lanciotti
Stefano Lanciotti
Il Grimorio Nero
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Indice dei contenuti
Premessa
Parte Prima
Uno
Due
Tre
Quattro
Cinque
Sei
Sette
Parte Seconda
Otto
Nove
Parte Terza
Dieci
Undici
Dodici
Tredici
Quattordici
Parte Quarta
Quindici
Sedici
Diciassette
Diciotto
Diciannove
Venti
Ventuno
Ventidue
Ventitre
Ventiquattro
Venticinque
Ventisei
Ventisette
Ventotto
Ventinove
Epilogo
Nota Finale
Personaggi
Creature
Altro
Premessa
Il Grimorio Nero
è il mio dodicesimo romanzo. I miei tre thriller sono stati pubblicati dalla casa editrice Newton Compton, mentre per la mia produzione fantastica ho preferito l'autopubblicazione, con un grandissimo successo in termini di vendite (più 50.000 copie in formato elettronico).
Il romanzo è il terzo della Profezia del Ritorno
, una serie basata sulla mitologia creata nella Saga di Nocturnia. Le due storie sono indipendenti, per cui non è necessario aver letto Nocturnia, ma se ti venisse la curiosità di approfondire la storia, ti ricordo che il suo primo libro (Ex Tenebris
) è completamente gratuito in formato ebook.
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Buona Lettura!
Stefano Lanciotti
Parte Prima
Uno
Alto Egitto - 1323 a.C.
Il sole stava calando oltre l’alta duna, inondata dalla luce color arancio del tramonto. L’uomo accovacciato teneva la mano destra all’altezza della fronte per riparare gli occhi dal riflesso abbacinante. Il suo nome era Gahiji e stava osservando da circa un miglio di distanza sette persone avanzare lente sul crinale opposto. Sei di loro erano a piedi, armati di lancia e piccoli scudi, la settima in groppa a un mulo al centro del gruppo. Era il Padre Divino Ay, protettore e consigliere del Faraone d’Egitto Tutankhamon, scortato dalla sua guardia personale.
Il gruppo stava scomparendo oltre il crinale e le ombre della notte calavano veloci nel grande deserto che costituiva la maggior parte della sua terra natale. Gahiji attese che non fossero più in vista per rimettersi in cammino. Discese il fianco della duna affondando fino alle caviglie nella sabbia sottile come il talco, poi risalì fino alla cima di quella di fronte. Quando la raggiunse il cielo era punteggiato di una miriade di stelle e solo il suo sguardo acuto gli permise di scorgere le tracce impresse nella sabbia in quella notte di luna nuova.
Iniziò a seguirle con cautela, avendo cura di muoversi in completo silenzio e facendo attenzione a controllare persino il respiro. Il deserto era molto silenzioso e i suoni viaggiavano lontano, qualsiasi rumore avesse prodotto avrebbe potuto mettere all’erta gli esperti soldati della guardia personale di Ay. Continuò a camminare senza perdere di vista le orme del gruppo che, ignaro d’essere seguito, non faceva nulla per cancellarle. Andarono avanti per circa un’ora e lui dovette fermarsi più d’una volta per studiare la posizione delle stelle sopra la testa. Voleva avere la certezza di poter tornare indietro, qualsiasi cosa fosse successa quella notte. Se fosse dovuto fuggire o avesse perso contatto con i sette avrebbe dovuto comunque completare la sua missione.
Si fermò e s’accucciò, nascondendosi dietro la cima dell’ultima duna che aveva scalato. Luci di torce e voci che sussurravano: il gruppo s’era fermato e lui gli era quasi piombato addosso nonostante tutte le precauzioni. Rimase immobile, trattenendo il fiato e sperando che non l’avessero sentito. Attese qualche secondo, poi si rilassò. Sembrava che nessuno avesse notato il suono sordo che aveva prodotto gettandosi sulla sabbia.
Prese il coraggio a due mani e strisciò per un paio di metri, a sufficienza perché la sua testa sporgesse appena. Gettò un’occhiata per capire il motivo della sosta. Ay era chino a terra, come stesse raccogliendo qualcosa che Gahiji non riusciva a vedere, mentre gli uomini della scorta erano disposti a semicerchio alle sue spalle. Più che dedicarsi alla guardia erano anch’essi attratti, quasi ipnotizzati, da ciò che stava facendo il loro padrone. Questo contribuiva a spiegare come mai non si fossero accorti di lui.
Il Padre Divino mormorò delle parole, poi si alzò senza curarsi di togliere la sabbia dalle mani e dalle vesti. Era intento a guardare di fronte a sé, come si aspettasse di veder apparire qualcosa da un momento all’altro. Lo stesso fecero i soldati, che adesso erano inquieti e indietreggiarono di un passo o due forse senza neppure accorgersene. Le loro mani stringevano nervosamente le lance e le punte metalliche si agitavano sopra le loro teste, come sospinte da un vento invisibile.
Fu a quel punto che accadde l’incredibile. Il ripido fianco della duna di fronte ad Ay si gonfiò, quasi ne stesse emergendo un enorme essere vivente. La sabbia cominciò a scivolare sempre in maggiore quantità ai lati di ciò che sembrava emergere dalla profondità del deserto, creando un vuoto dove la luce delle torce non riusciva a penetrare. Pochi istanti dopo il movimento sotterraneo terminò. Di fronte ai sette si apriva ora una specie di ingresso alto meno della testa del dignitario - che pure era il più piccolo di statura - e largo forse due palmi.
Ma di cosa si trattava, lì nel bel mezzo del deserto? Quello era l’interrogativo cui Gahiji voleva dare una risposta sin da quando aveva iniziato a seguirli fin lì da Tebe, dove il loro sovrano giaceva malato e, a quanto si mormorava tra i sudditi, era ormai in punto di morte. Gliel’aveva posto una donna misteriosa, giunta da lui in piena notte tenendo accuratamente celato il proprio viso dentro un profondo cappuccio. I preziosi anelli che indossava con noncuranza sulle mani segnate dal tempo e la voce di chi è abituato a comandare non avevano lasciato adito a dubbi che si trattasse di una persona di nobili natali.
Gli aveva mostrato il sigillo della regina Ankhesenamon, moglie del Faraone, come prova che la missione gli veniva affidata direttamente dalla sua sovrana e lui non intendeva tornare indietro senza una risposta. Il nome Gahiji significava Cacciatore e, quando i suoi genitori lo avevano scelto, era stato direttamente il dio Ra a ispirarli. Cacciare era stato ciò che aveva sempre fatto meglio. Si trattasse di animali o di uomini, non era mai tornato senza la preda.
Questa volta le cose erano però molto più delicate e la posta in palio altissima. Già in altre occasioni - sin da quando era stato segnalato dal suo comandante come il migliore soldato del battaglione - aveva ricevuto dalla regina incarichi molto importanti, da svolgere con discrezione e in grande segreto. Invece di convocarlo a corte, la misteriosa messaggera l’aveva raggiunto in caserma perché la sua signora si sentiva spiata, minacciata e temeva per la vita del regale consorte. Il Faraone stava molto male e le sue condizioni continuavano a peggiorare, tanto che il popolino si stava cominciando a domandare chi gli sarebbe succeduto sul trono d’Egitto.
La coppia reale non aveva figli, né era pensabile fosse la stessa Ankhesenamon a succedergli, anche se non si sarebbe trattato della prima donna a ottenere il titolo di Faraone. Poco più di un secolo prima c’era stata Hatshepsut - figlia di Thutmosi - e almeno un paio l’avevano preceduta nella millenaria storia d’Egitto. Ma lei era sicura che Ay non l’avrebbe permesso. Si trattava di un uomo potente e ambizioso, che era stato uno dei massimi dignitari durante il regno di Akhenaton - il padre di Tutankhamon - e il cui potere e influenza si erano ancora accresciuti nella corte attuale. Da molti anni ormai tesseva la sua trama che la regina temeva l’avrebbe portato a tentare di spodestare il marito. Ay ardeva dal desiderio di indossare lo Pschent, la corona d’Egitto.
La donna incappucciata gli aveva spiegato che le paure di Ankhesenamon non finivano lì e s’intrecciavano con i gravissimi sospetti da sempre nutriti nei confronti dell’ambiguo Ay. A suo dire non era un caso che il loro matrimonio non avesse generato figli. O meglio ne aveva generati due, ma erano entrambi morti prima di raggiungere il nono mese nel ventre della madre. Tutti i saggi cui si era rivolta le avevano ricordato che la loro famiglia si portava dietro il pesantissimo fardello dell’eresia di Akhenaton. Il padre di Tutankhamon aveva instaurato in Egitto il culto monoteista di Aton, bandendo tutti gli altri e inimicandosi inevitabilmente i sacerdoti degli altri dei.
L’ombra dell’eresia rimaneva sulle loro teste nonostante il figlio, in seguito alla terribile crisi in cui versava il regno, avesse restaurato tutte le antiche divinità e si fosse sottomesso al clero di Tebe. Molti ritenevano che la sterilità della coppia fosse dovuta alle colpe del vecchio Faraone, ma lei era di tutt’altro avviso. Non erano gli dei a volere il loro male, ma qualcuno di molto più umano e vicino a loro che avrebbe tratto un enorme vantaggio dalla mancanza di eredi da parte del Faraone regnante. I due maggiori indiziati erano il Padre Divino Ay e il generale Horemheb, comandante in capo dell’esercito.
Nonostante temesse e ritenesse entrambi avversari insidiosi, la regina era certa che il responsabile fosse proprio l’uomo che Gahiji aveva seguito fin lì. Horemheb era un uomo d’armi e, semmai avesse cospirato, lo avrebbe fatto ordendo un colpo di stato militare. Ay era invece un viscido adulatore pronto a versare veleno mortale nella coppa che porgeva a un ospite per brindare alla sua salute. Oppure a pagare qualcuno perché maledicesse il suo ventre o il membro del suo consorte perché rimanessero sterili.
I sospetti si erano tramutati in certezze quando, ormai accettata l’impossibilità di avere figli, il Faraone si era ammalato e nessuno era riuscito a capire quale fosse il male di cui soffriva. Ankhesenamon era sicura che suo marito fosse vittima di una seconda maledizione che lo avrebbe probabilmente portato alla morte. Disperata, aveva cercato d’indagare per poterne trovare la cura, ma non era facile. Molte delle sue ancelle e dei suoi servitori erano al soldo del Padre Divino e gli riferivano ogni sua azione e parola, rendendo vano qualsiasi tentativo. Aveva inviato a Gahiji la sola persona di cui si fidasse a corte e lui era l'unica speranza.
Il soldato si riscosse dai suoi pensieri quando Ay chinò il capo e s’infilò nella fessura che si era spalancata di fronte a lui nel fianco della duna. I sei uomini della scorta si guardarono intorno a disagio, poi lo seguirono. Gahiji rimase immobile per qualche istante, combattuto tra l’istinto di corrergli dietro e il timore che precipitarsi giù lo facesse scoprire mandando a monte la missione.
Scese cauto e sollecito nello stesso tempo. S’avvicinò silenzioso, cercando di non perdere di vista l’ingresso ora che non c’erano più le torce a illuminare il suo cammino. Strinse a sé la bisaccia che portava a tracolla in modo che non facesse rumore. Gli era stata consegnata dalla nobildonna con la stessa cautela con cui avrebbe affidato il gioiello più prezioso dell’intero tesoro reale. Aveva detto che conteneva degli oggetti speciali da usare solo in caso di estrema necessità. Alla domanda su quale potesse essere tale necessità si era limitata a rispondere:
Lo comprenderai da solo nel momento in cui si dovesse presentare l’occasione.
Il soldato non aveva aperto la bisaccia, ma aveva troppa familiarità con le armi per non riconoscerle con il solo tatto, anche senza vederle. Strettamente avvolte in uno straccio c’erano due daghe. Non aveva idea del perché le avesse definite speciali, ma il loro tintinnio era talmente particolare - e diverso da qualsiasi altro avesse udito - che si era più volte chiesto con che metallo potessero essere state forgiate.
Quando raggiunse l’apertura allungò cautamente una mano per sincerarsi che si trattasse di un vero ingresso e non di un varco sovrannaturale, come inconsciamente temeva. Fu sorpreso nel constatare che sotto la sabbia che aveva ormai smesso di scivolare dai lati c’era solida pietra. Esplorando a tentoni il terreno nel punto dove si era chinato Ay, trovò la leva che governava il meccanismo d’apertura dell’ingresso.
Si chiese cosa fosse quell’edificio completamente ricoperto dalla duna, così lontano da qualsiasi centro abitato. Altre costruzioni edificate dal suo popolo erano state sommerse dalla sabbia del deserto spinta dalla forza inesauribile del vento, ma si trattava delle tombe che contenevano le mummie degli antichi Faraoni, costruite in luoghi sacri come la Valle dei Re. La sabbia non faceva altro che proseguire il lavoro di chi le aveva costruite, proteggendo per l’eternità i corpi e i tesori che vi erano stati sepolti. La situazione qui era diversa, perché non aveva mai sentito parlare di tombe reali costruite in quella zona di deserto. Soprattutto nessuna costruzione funebre aveva un ingresso che si apriva dall’esterno con una leva, per quanto nascosta potesse essere.
Esitò ancora qualche istante prima di seguire i sette all’interno. Non solo non voleva finirgli addosso in caso si fossero fermati all’improvviso com’era accaduto in precedenza, ma voleva anche cercare di saperne di più sulla costruzione. Una volta dentro non avrebbe avuto molto tempo per orientarsi e sapere di trovarsi in una tomba, un tempio o un edificio di natura diversa avrebbe potuto costituire un vantaggio sufficiente a salvargli la vita.
Alla luce delle stelle il granito con cui era stata edificata la costruzione non produceva alcun riflesso. Era di colore molto scuro, probabilmente nero. La lavorazione era d’ottima fattura e il fianco della duna, osservato da vicino, gli parve innaturalmente gonfio da lì fin su alla cima. Si trattava di un edificio piuttosto grande e portare fin lì le maestranze necessarie per un lavoro del genere non era opera che si potesse tenere segreta a lungo. Eppure era avvenuto.
La risposta ai suoi quesiti si presentò all’improvviso, riaffiorando dalla memoria. La Piramide Nera! Da anni si mormorava di una misteriosa costruzione in pieno deserto, dedicata al culto di un dio-demone. Poiché si trattava solo di voci e nessuno l’aveva mai vista con i propri occhi Gahiji le aveva ignorate e presto dimenticate, ma la Piramide Nera esisteva. Era lì in pieno deserto, lontano dalle rotte carovaniere e sommersa dalla sabbia!
Sospirò e serrò la mascella. Afferrò l’elsa della corta spada che portava al fianco, poi avanzò nell’oscurità.
Due
Lo stretto passaggio si inoltrava nelle tenebre per una dozzina di passi, poi svoltava bruscamente a destra. Gahiji avanzò cauto con le mani avanti per non urtare inavvertitamente il capo. S’allontanò dall’ingresso finché non sentì più il tenue soffio del vento che carezzava le dune, con la sensazione d’inoltrarsi in un bozzolo che assorbiva ogni suono e lo isolava dal mondo. Proseguì per un po’, seguendo i bruschi cambi di direzione del corridoio nell’oscurità. Dopo qualche minuto udì l’eco attutita di voci in lontananza e, subito dopo, il riflesso delle torce danzare lieve sulla parete. Si fermò.
Cercò di aguzzare le orecchie, ma l’enorme quantità di sabbia che la sormontava la pietra sembrava assorbire il suono esaltando l’effetto d’isolamento che aveva provato fino a quel punto. Gahiji strisciò lento lungo la parete con estrema cautela, avvicinandosi palmo dopo palmo finché le voci - due - finalmente non risultarono comprensibili. Una la riconobbe subito. Bassa, melliflua, ingannevolmente morbida: non poteva sbagliarsi, era Ay. Non riuscì invece a identificare l’altra, dura e aspra come gelido metallo arrugginito.
Così vuoi sia per stanotte?
chiese lo sconosciuto, con un tono che non mostrava il rispetto dovuto a un dignitario importante come il Padre Divino.
Sì, se possibile.
La voce di Ay era al contrario più sommessa del solito e, se Gahiji non s’ingannava, pareva colorata da una nota di paura. L’agonia del Faraone si è protratta abbastanza a lungo perché avessi il tempo necessario a muovere tutte le mie pedine. Se dovesse continuare c’è il rischio che il generale Horemheb torni dal confine settentrionale dove i suoi uomini stanno combattendo gli Ittiti e mi metta i bastoni tra le ruote.
Horemheb non ha il favore di Apopi
rispose la voce. Ha servito sotto l’eretico Faraone Akhenaton e non ha fatto nulla per il nostro culto, per cui non prevarrà.
Non ne dubito
fece Ay, la cui voce untuosa non riusciva a trattenere un tono di malcelata urgenza. Nondimeno, sarebbe tutto più facile se le sofferenze di Tutankhamon avessero fine il prima possibile.
" Tutankhaton, vuoi dire lo corresse l’altro, gelido.
Può aver cambiato il nome e abbandonato la città di Akhetaton, spostando di nuovo la capitale d’Egitto a Tebe. Nonostante ciò, la sua genia è responsabile dell’eresia e dev’essere cancellata. Sarà per questa notte, dunque. È deciso."
Gahiji non resistette e si sporse il minimo necessario per vedere con chi stesse discutendo Ay. L’uomo aveva parlato del dio serpente Apopi come se fosse un sacerdote, ma Apopi non aveva una classe sacerdotale. Essendo incarnazione della tenebra, del male e del Caos, nessuno sano di mente avrebbe seguito il suo culto. A pochi metri da lui, di fronte al Padre Divino Ay, che parlava a capo chino come l’aveva visto fare solo col Faraone, c’era un uomo altissimo e altrettanto magro. Aveva il volto pallido, scavato, dominato da un naso aquilino. Gli occhi scuri lampeggiavano di alterigia e odio. Era vestito di nero dalla testa ai piedi eccettuata una larga fascia dorata ai fianchi, un’altra attorno alle spalle e un copricapo a righe orizzontali nere e oro. Con la mano destra stringeva