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Questo amore sarà un disastro
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E-book336 pagine4 ore

Questo amore sarà un disastro

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Info su questo ebook

Numero 1 nelle classifiche italiane

Edoardo Gustani è un rampante golden boy della finanza milanese, esperto di fusioni e acquisizioni, interessato a rilevare la maggioranza della Health Green, in difficoltà in seguito a qualche colpo di testa dell’ultimo amministratore delegato. Per portare a casa l’accordo Gustani deve convincere i membri della famiglia Longo, proprietari da generazioni. C’è solo uno scoglio da superare: avere il parere favorevole di Elena, nipote delle quattro anziane azioniste. Elena non ha più nulla a che fare con la società, da quando il padre le ha preferito il figlio maschio come amministratore delegato. Ha voltato pagina e aperto un centro olistico nel quale le persone possono allontanarsi dal caos quotidiano. Edoardo non riesce a credere che Elena non voglia lasciarsi convincere dalle sue validissime ragioni. La sconfitta non fa parte del suo DNA. Decide quindi di trascorrere qualche giorno nel centro di Elena. È sicuro di riuscire a farla ragionare sfruttando il suo grande fascino. Ma ci sono imprevisti che nemmeno un cinico e calcolatore uomo d’affari può immaginare…

Un’autrice da 850.000 copie

Lui è un cinico uomo della finanza.
Lei l’erede di una famiglia di imprenditori.
Quale affare potrà mai unirli?

Vincitrice del Premio Bancarella

«La nuova eroina della chick-lit.»
Vanity Fair

«Anna Premoli è la numero 1 del romanzo rosa in Italia.»
Elle

«Anna Premoli è capace di tuffare il genere del rosa nazionale in suggestioni internazionali e ben piantate nello spirito del nostro tempo.»
La Repubblica

«È la nostra Bridget Jones nazionale.»
Grazia

Anna Premoli
è nata nel 1980 in Croazia, vive a Milano dove si è laureata alla Bocconi. Ha lavorato per un lungo periodo per una banca privata, prima di accettare una nuova sfida nel campo degli investimenti finanziari. La scrittura è arrivata come “metodo antistress” durante la gravidanza. Ti prego lasciati odiare è stato il libro fenomeno del 2013: per mesi ai primi posti nella classifica, ha vinto il Premio Bancarella e ne sono stati opzionati i diritti cinematografici. Con la Newton Compton ha pubblicato anche Come inciampare nel principe azzurro, Finché amore non ci separi, Tutti i difetti che amo di te, Un giorno perfetto per innamorarsi, L’amore non è mai una cosa semplice, L'importanza di chiamarti amore, È solo una storia d'amore, Un imprevisto chiamato amore, Non ho tempo per amarti e L'amore è sempre in ritardo. Sono tutti bestseller, tradotti in diversi Paesi.
LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2019
ISBN9788822736697
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    Anteprima del libro

    Questo amore sarà un disastro - Anna Premoli

    EN2447Questo.amore.sara.un.disastro.jpglogo-EN.jpg

    2447

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Prima edizione ebook: ottobre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3669-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Anna Premoli

    Questo amore

    sarà un disastro

    marchio%20front.tif

    Newton Compton editori

    A Milano, che mi rispecchia sia nei giorni di nebbia che in quelli di sole.

    Complicità, il sogno di sempre

    su questo pianeta solo noi due

    spirito e corpi disgiunti

    poi in un istante congiunti

    ma io non sento il sangue pulsare in te.

    Bluvertigo, Complicità

    Tu ragioni troppo. Perché mai l’amore va ragionato?

    Per amarti di più. Ogni cosa, a farla ragionando,

    aumenta il suo potere.

    Italo Calvino, Il barone rampante

    I try to invest in businesses that are so wonderful

    that an idiot can run them. Because sooner or later,

    one will.

    Cerco di investire in società così meravigliose

    da poter essere guidate anche da un idiota.

    Perché, prima o poi, uno lo farà.

    Warren Buffet

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Colonna sonora

    Piccolo glossario finanziario

    Capitolo 1

    Edoardo

    Per la maggior parte delle persone detestare il lunedì mattina è un banale must. Una sorta di obbligo sociale che risponde a precise regole, incise nella pietra secondo il sacro volere del pensiero di massa.

    E mai che se la prendano con questioni importanti… Figurarsi, molto meglio dichiarare guerra al lunedì.

    È un bene che io non sia assolutamente come la maggior parte degli uomini-pecore che popolano il mondo, perché altrimenti non potrei mai godermi questo fantastico lunedì mattina. Sì, ripeterò l’eresia: il lunedì mattina mi piace. Non si capisce perché dovrebbe essere detestato a differenza di quello che avviene per esempio, al venerdì, che gode dello status di reginetta del ballo. In fin dei conti facciamo le stesse identiche cose in entrambi i giorni, anche se non ci piace ammetterlo.

    In ogni caso, la giornata è promettente: temperatura perfetta, cielo discretamente azzurro per essere quello di un aprile milanese, radio spenta per potermi gustare appieno l’unica musica che mi interessi davvero a quest’ora della mattina, ovvero quella prodotta dalla mia Maserati Gran Turismo. Quattrocentosessanta cavalli che non dovrei spingere più di tanto in città, se non fosse che questa meraviglia arriva da zero a cento in quattro virgola otto secondi. Roba che ci metti più tempo a soffiarti il naso.

    Dico davvero, quali altre cose si possono fare in un simile lasso di tempo e provare la stessa eccitante sensazione? E no, non sono ammesse risposte banali del tipo cibo&sesso, perché, ripeto, i cinque secondi di questa beatitudine sono assolutamente imbattibili. Ne sono certo.

    Ecco perché, sfruttando la mancanza di traffico dovuta all’orario – sono solo le otto e dieci – una volta imboccato Corso Venezia, non riesco proprio a resistere alla tentazione di premere con decisione l’acceleratore. La musica prodotta dal maestoso motore V8 Ferrari da 4,7 litri invade con prepotenza l’abitacolo. Attorno a me qualcuno suona, qualcun altro impreca, ma so bene che segretamente sono solo gelosi: in fin dei conti sono un uomo ancora discretamente giovane (con pure tutti i capelli ancora attaccati al cuoio capelluto) alla guida di una macchina che non lascia indifferenti. Di solito esemplari simili si accompagnano a imprenditori panciuti e imbiancati. Be’, nella mia lista di cose da ottenere prima dei quarant’anni c’era appunto quella di possedere una Maserati.

    Per chi, come me, proviene dalla più profonda periferia, la questione era tutt’altro che facile, ma ci sono riuscito. E pure alla grande, dal momento che questa è la mia seconda.

    Sono grato alla svolta green dell’amministrazione comunale di qualche anno fa, che ha imposto il famoso ticket per varcare le porte dei Bastioni. Io, felice e soddisfatto residente dei quartieri centrali da quando, qualche annetto fa, mi sono trasferito in zona Moscova, mi trovo ora nell’invidiabile condizione di poter percorrere strade ben più libere.

    Non riesco a comprendere come si possa definire sensibilità ecologica una tassa che di fatto pretende il pagamento di un balzello da tutti quelli che non hanno un portafoglio sufficientemente gonfio da potersi permettere una casa in una delle zone migliori della città e prevede quindi che l’inquinamento debba rimanere a uso e consumo dei meno abbienti. In centro aria pulita, fuori lo smog… Che assurdità. Quasi m’indignerei, se solo fossi il tipo di persona adatta.

    Ma ovviamente non lo sono. Nemmeno per sbaglio. A differenza degli altri, non fingo interesse verso cause buoniste e politicamente corrette. Quindi, per carità, andate avanti a essere tutti finti ecologisti. Io, dal mio canto, continuerò a guidare indisturbato la mia Maserati per le strade libere della città.

    Arrivato fin troppo presto in piazza San Babila, rallento bruscamente e svolto in via Montenapoleone. I negozi sono ancora chiusi e le persone che camminano di gran carriera sono tutte dirette verso qualche ufficio. Per fortuna manca ancora qualche ora all’apertura dei negozi e all’arrivo della fauna turistica in cerca di foto d’effetto.

    La mia destinazione finale è il Four Season di via del Gesù. Una volta raggiunta la meta, inchiodo, facendo fare un po’ di lavoro extra ai miei efficientissimi freni Brembo. Meravigliosa società e meraviglioso prodotto finale. A dispetto di quello che uno possa pensare, capita piuttosto di rado che ci sia una coincidenza dei due elementi.

    Scendo senza degnarmi di spegnere il motore. Tempo due secondi, infatti, e il posteggiatore dell’albergo sta già correndo verso di me.

    «Dottor Gustani!», mi saluta aggiustandosi la divisa impercettibilmente storta. «Tutto bene il fine settimana?», mi chiede come da copione.

    «Meravigliosamente, grazie. Ho giocato a tennis e ho vinto. Cosa si può volere di più?», gli rispondo mentre recupero giacca e borsa. Mi rivesto e mi aggiusto la giacca blu petrolio, cento per cento fresco lana, modello classico di Zegna. Non come quelle cose orrende che si vedono in giro di questi tempi, ovvero uomini fasciati in completi dalle forme improbabili, nemmeno i vestiti fossero dei boa constrinctor e i poveretti mirassero alla peggior morte possibile. I pantaloni troppo corti e attillati sono roba da commerciali della peggior specie, come ho spesso ripetuto al mio amico Lorenzo, uno dei pochi uomini che conosco che in effetti riesce a portare simili modelli senza risultare del tutto ridicolo. Il fatto è che nel suo caso la gente, spesso e volentieri, si ferma alla sua faccia. Non scende nemmeno a controllare cosa abbia addosso. E di certo non lo fanno le donne: il loro unico obiettivo è escogitare nel minor tempo possibile il migliore espediente per tirarlo fuori dai vestiti. Di qualsiasi tipo essi siano. Orrendi o meno. Perché, sebbene sia assolutamente ingiusto, ai belli perdonavamo e continueremo a perdonare tutto… cattivo gusto incluso.

    «Lei vince troppo, dottore», mi fa notare il parcheggiatore con un sorriso bonario.

    Scoppio a ridere divertito di fronte alla sua sfrontatezza; in un mondo popolato ormai quasi esclusivamente da gente con tanto di master in lecchinaggio estremo, la sincerità è merce rara. «Lo dici perché sei ancora giovane. Non esiste il troppo, quando si tratta di avere successo. Ricordatelo». Poi sollevo la mano in segno di saluto e mi incammino lungo via del Gesù, accompagnato dal rumore del mio motore. Musica, vera musica per le mie orecchie.

    Le persone comuni non parcheggiano ogni giorno al Four Season, me ne rendo conto. Ma la mia non è esattamente una situazione normale. Sono uno di quei privilegiati che si fa in fretta a odiare in un momento storico in cui l’intelligenza e il duro lavoro non sempre bastano a giustificare un certo benessere.

    Perché odiare è facile.

    Anzi, è addirittura banale.

    Certo, nessuno mi invidia mai le ore lavorate, ma solo il frutto finale delle mie fatiche. Ma anche questo non sorprende granché, no?

    La prima cosa che faccio, salutata la Maserati, è cercare dentro la mia giacca il pacchetto di sigarette a cui non riesco proprio a rinunciare.

    Sono perfettamente cosciente che questa roba uccida. Non devono scrivermelo con proclami più o meno catastrofisti su ogni lato del pacchetto. Ho un quoziente d’intelligenza sorprendentemente alto, e sì, so benissimo che fumare di certo non mi allungherà la vita. Ma non lo farà nemmeno lo stress quotidiano a cui sono sottoposto, o l’aria insalubre che si respira in quasi ogni città degna di tale nome. Perciò, visto che sono già venuto a contatto con sufficienti cause di morte prematura, non vedo perché privarmi delle mie amate sigarette.

    Morirò, siamo d’accordo.

    Ma lo faranno anche tutti gli altri che insistono con il rompermi le scatole per via del fumo. Qualcuno, probabilmente, morirà persino prima di me. Perché è così che vanno le cose in genere. Storte e ingiuste.

    Mica sono stato io a scrivere le regole del gioco…

    Svolto in via della Spiga. Non il classico posto da ufficio finanziario, in effetti. Forse nemmeno la scelta più comoda, razionalmente parlando. Ma in una vita passata mia madre mi portava spesso a passeggiare da queste parti nei fine settimana. Immagino che la fascinazione infantile abbia resistito al tempo e ai drammi familiari quasi contro il mio stesso volere. Stranamente continuo a nutrire bei ricordi di quei pomeriggi mano nella mano con mia madre, quando ero abbastanza piccolo da non mettere mai in discussione le sue convinzioni. Inutile a dirsi, crescendo tutto è cambiato profondamente. A un certo punto credo di aver dubitato di ogni sua idea. A quanto pare tutte meno una, ovvero via della Spiga, che ho scelto per il mio ufficio.

    La vita moderna non lascia scampo ai sensibili e io ho sempre fatto il possibile per sradicarne anche la minima traccia dalla mia personalità. Ecco perché, se non altro, mi rasserena l’idea che gli spazi degli uffici siano comunque ottimali, luminosi e funzionali, con stanze poco rumorose e una sala riunioni che sfiora la perfezione.

    Il lato negativo è che questi edifici antichi, inseriti in una via semipedonale, non prevedono molti parcheggi. Non per tutti, almeno. Chi prima arriva, meglio alloggia, per la gioia dei neosocialisti di ogni dove, altra categoria molto in voga di questi tempi. Nemmeno Marx in persona avrebbe potuto prevedere una tale rinascita massiccia di certe idee, specie oltreoceano.

    Inutile a dirsi, io sono stato l’ultimo ad arrivare, tre anni fa. L’agente immobiliare che ci ha affittato l’ufficio ci ha rassicurato dicendo che uno dei condomini, l’attempata signora Fumagalli, che allora andava per l’ottantina e oggi ha superato senza problemi tale veneranda età, presto sarebbe stata costretta a dismettere la sua auto e avrebbe liberato il posto. Volente o nolente.

    Ah ah, come no…

    Ogni mattina la sua Cinquecento scassata è lì in bella vista, a ricordarmi che la vecchietta non ha alcuna intenzione né di morire né di smettere di guidare. Qualcuno ha messo in giro la voce che i vecchi si deprimano e si ammalino con la revoca della patente e quindi nessuno più osa farlo. Non sia mai…

    Il bel tempo deve aver convinto la signora Fumagalli a mettere il naso fuori di casa, perché la incrocio subito all’ingresso.

    «Buongiorno», la saluto tutto allegro.

    Lei mi lancia un’occhiataccia e mi scruta dubbiosa. «Buongiorno anche a lei, e no, non ho la minima intenzione di liberarmi della mia auto».

    Ho detto che è anziana, non stupida.

    «Sì, ma non ha sentito l’offerta di oggi: con quello che ricaverebbe dalla vendita del suo posto auto, potrebbe permettersi il taxi ogni giorno della sua vita», provo a tentarla.

    «No, grazie, sarebbe del tutto controproducente per la mia salute. Lo sa qual è il segreto per vivere a lungo?», mi interroga.

    «La gioia che deriva dal fregare il calcolo attuariale dell’inps, una volta superata la speranza di vita media?», ipotizzo serio. Mi pare una motivazione più che onorevole per raggiungere i cent’anni.

    «Lei certe volte dice autentiche sciocchezze», mi riprende come si farebbe con uno scolaro tonto. «No, dottor Gustani, il segreto è camminare. Tutti i giorni, senza eccezioni».

    «Appunto, lo dico per il suo bene: mi venda il posto macchina e vada pure avanti a camminare quanto desidera. Anche perché, senza offesa, non mi pare che la sua auto venga utilizzata così spesso…».

    «Una volta al mese», asserisce, confermando i miei sospetti. «Ma no, non venderò comunque». Mi pare piuttosto soddisfatta di potermi dare questo dispiacere.

    Altro che la camminata: è la cattiveria che tiene in vita certe persone. L’ho sempre saputo.

    «Be’, se dovesse cambiare idea…».

    «Ma non lo farò», afferma senza l’ombra di un’esitazione.

    «…sa dove trovarmi. Le auguro una splendida giornata signora Fumagalli». E magari di inciampare e smettere di guidare una volta per tutte…

    «Anche a lei».

    La scruto allontanarsi, piccola, magrissima e con la borsetta rossa sottobraccio. Non riesco a fare a meno di sospirare quando i miei occhi cadono ancora una volta sulla carrozzeria della vecchia auto, anche questa rossa, ma decido saggiamente di non farmi il sangue amaro e di proseguire oltre per il mio ufficio. A quest’ora del lunedì l’affluenza è ancora molto blanda e infatti ad attendermi trovo solo l’ultimo degli stagisti che abbiamo assunto. Per tenerci buoni quelli della Bocconi e coltivare un po’ di amicizie altolocate, tempo fa abbiamo aderito a un programma universitario con cui permettiamo a questi ragazzini ancora sbarbati e con i primi, improbabili tentativi di nodi alla cravatta di immergersi nel fantastico mondo del private equity. Ah, chiaramente si tratta anche di manovalanza ben istruita a basso costo, perciò perché non usufruirne? Se proprio dovessi esprimere un’opinione personale, definirei gli stagisti carne da macello, l’ultimo anello della catena sociale finanziaria, ma indignarsi per cose sensate non va più di moda da tanto di quel tempo che davvero non vedo perché tocchi a me far notare certe ovvietà.

    La mia coscienza registra ma rimane in silenzio. Le persone lo fanno per cose di gran lunga peggiori.

    «Buongiorno dottor Gustani», mi saluta scattando sull’attenti il ragazzo, nemmeno fosse reduce dall’accademia militare. «Le ho lasciato i giornali sulla scrivania, come sempre».

    Il lunedì mattina i giornali finanziari sono davvero poco interessanti, a meno che uno non sia un amante degli allegati sulla fiscalità (e raramente lo sono persino i fiscalisti, figurarsi tutti gli altri), ma non aggiungo qualcuno dei miei soliti commenti pepati perché questa mattina mi pare già abbastanza agitato. «Grazie Carlo», gli esprimo la mia gratitudine, marciando verso il mio ufficio.

    «Veramente… sarei Stefano», mi corregge con voce timorosa dopo che l’ho superato.

    Mi volto a scrutarlo confuso. «Cosa?»

    «Il mio nome… Ecco, non sarebbe Carlo. Ma Stefano». Segue risata di palese disagio.

    «Ah, ma pensa… E dire che hai una faccia da Carlo». E proseguo dritto verso la mia stanza e la sua pace. Ho già letto le email più importanti mentre facevo colazione e ora non mi rimane che concentrarmi sulle rimanenti.

    Con la coda dell’occhio seguo Carlo che passa e ripassa svariate volte lungo il corridoio. Strano fanciullo; chissà chi diavolo lo ha selezionato. Io no di certo. Non mi fanno mai interagire con gli stagisti prima che abbiano firmato con il sangue.

    Pare che li spaventi.

    Proprio non ne comprendo il motivo…

    Sto ancora bevendo il mio caffè lungo, quando Ludovico varca la soglia del mio ufficio. «Ciao Edo, tutto bene?», mi chiede il mio amico nonché socio, accomodandosi nella poltrona di fronte a me.

    «Benone. Hai visto la risposta che ci ha dato il commercialista del fondo Avant? È fuori discussione che entriamo nell’affare alle loro condizioni».

    Ludovico è un omone, e quando si muove su quella sedia le assi di legno del pavimento antico non possono fare a meno di scricchiolare, manifestando tutto il loro malcontento. «Ci sta provando. Chiamalo e mandalo a cagare come solo tu sai fare», mi suggerisce.

    «Sempre a me le telefonate scomode, eh…», commento semiserio.

    «Lo sai come funziona: mandiamo Lorenzo quando c’è bisogno di abbagliare qualcuno fisicamente, ricorriamo a te quando si tratta di usare le maniere forti e io mi butto nella mischia con interlocutori con cui sono necessari i guanti bianchi. E questi del fondo Avant non rientrano affatto in quest’ultima categoria, a giudicare dal tono della loro ultima email», constata serafico.

    «Ok, ok, li chiamerò più tardi. A proposito, ti ricordi chi di noi ha assunto Carlo?», gli domando a un tratto.

    «Carlo? Chi è Carlo?», chiede Lorenzo entrando nel mio ufficio.

    «Il mio stagista occhialuto».

    «Vuoi dire Stefano…», mi corregge Lorenzo scuotendo la testa e sorridendo.

    «Carlo. Stefano… poco cambia. Chi di voi due lo ha assunto?»

    «Sono stato io», mi risponde Ludovico.

    «Ah…», commento solo.

    «Detesto quando fai così», mi fa notare. «Ah, cosa?»

    «Ah, pensavo fosse stato Lorenzo. Interessante, comunque…». No, non ho la minima intenzione di rendergli la vita più facile. Non sarebbe divertente.

    I miei due amici scuotono entrambi la testa e tornano a concentrarsi sul lavoro. Io invece recupero il mio pacchetto di sigarette e mi avvicino alla finestra aperta per non dar loro fastidio.

    «Devi proprio fumare?», si lamenta Lorenzo. Lori è fastidiosamente sportivo e salutista. Questo perché preferisce ignorare le statistiche di mortalità sulla nostra professione. Può correre quanto vuole (nel suo caso tanto), ma rischia comunque di rimanerci secco prima della maggior parte della gente. Gli amanti del risk management direbbero che la nostra professione presenta code di rischio grasse. In inglese suona molto meglio, come quasi la totalità dei termini finanziari: fat tails. Per fat si intende una probabilità di frequenza maggiore di quanto non accada secondo una distribuzione gaussiana normale, errata base di calcolo di ogni forma di conteggio statistico moderno.

    Perciò, comprendendo meglio di molti la vera natura del mio intervallo di confidenza, ribatto solo: «Sì, devo». Scherzi a parte, sono sempre attentissimo a fumare alla finestra per non intossicare il prossimo.

    «A proposito, il dottor Beltrami mi ha chiamato per annunciare che passerà a trovarci oggi pomeriggio», ci informa Ludovico.

    Trattengo a stento una risata. «La moglie ha organizzato l’ennesimo torneo di bridge e lo vuole fuori di casa?». Gli imprenditori in pensione sono la categoria umana più triste con cui abbia mai avuto a che fare. E sì che ne ho incontrata di gente…

    «Probabile. O forse si sta solo rompendo le scatole. Mi ha anticipato che ha un’idea brillante e che vuole parlarcene».

    «Cristo santo…», commenta preoccupato persino Lorenzo, di solito piuttosto imperturbabile. «Quale altra porcheria di società di amici vorrà convincerci a comprare?».

    Apprezzo che lo abbia detto lui. Se fosse uscito dalla mia bocca, avrebbero commentato che sono il solito stronzo. E invece mi piace solo chiamare le cose con il loro giusto nome.

    «Dite che lo sa che questa è una sgr e che ci occupiamo di private equity e non di casi umani? No perché nell’ultimo periodo si è inventato questo antipatico ruolo di cacciatore di fregature – mmm, grandi affari – che mal si sposa con le somme che lui stesso ci ha conferito in gestione…», commento.

    «E proprio perché è uno dei nostri migliori investitori, noi non possiamo fare altro che riceverlo, sorridere e rispondere no grazie», ci avverte Ludovico.

    Come se non lo sapessimo. «Lo scintillante mondo delle relazioni pubbliche finirà per uccidermi. Dico davvero: uno potrebbe pensare che lo stress derivi dalla complessità dei nostri progetti, dalla leva utilizzata, dalle banche che non vogliono concederci finanziamenti a tassi sensati e invece no. È il banale mondo delle relazioni pubbliche a causarmi più gastriti possibili».

    «Mi spiace essere portatore di notizie nefaste, ma è perché fumi», mi punzecchia Lorenzo.

    «No, è perché lavoro quattordici ore al giorno. Tutti i giorni. Sabato e domenica inclusi, quando mi tocca giocare a tennis con figli di, nipoti di, amici di».

    «Colpa tua che ti ostini a non volerti convertire al golf», apre bocca Ludovico.

    «E meno male! Ci sono poche cose più deprimenti che giocare a golf con gente soporifera. Almeno nel tennis riesco a sfogare un po’ la mia voglia di vincere».

    «Guarda che il golf è competitivo tanto quanto il tennis», prova a convincermi.

    «Certo, come no… Li vedo i vostri amici altolocati trasudare tensione agonistica…», ribatto sarcastico. C’è poco da fare: noi tre saremo pure giovani moschettieri della finanza, ma quando si tratta di radicate abitudini familiari e personali, io non arriverò mai al loro livello. Volontariamente o meno, poco importa. Certi stili di vita, per quanto ne respiri l’aria da anni e anni, ti risultano naturali solo se sei nato e cresciuto tra queste persone. E io, modestamente, non potrei discendere più lontano di così dai campi da golf.

    Certo, non sono nemmeno nato giocando a tennis, ma la terra rossa mi piace, vincere pure, motivo per cui non ho avuto problemi a raggiungere prima e superare dopo il livello di quelli che sgambettano tra circoli tennistici sin dalle fasce. È solo questione di buona volontà. Sia chiaro: potrei benissimo comprarmi un set di mazze dal costo improponibile e imparare come si spediscono oltre lo stagno finto un po’ di palline. Ma non voglio. Ne vado anche discretamente fiero.

    «Nessuno qui sta definendo il golf uno sport ad alta tensione», mi fa notare Ludovico.

    «Per forza. Avrei problemi a catalogarlo come sport, a voler essere sinceri…».

    Mi lancia un’occhiataccia. «Rimane il fatto che tra una buca e l’altra si riesce a parlare molto meglio d’affari di quanto non si faccia correndo in lungo e in largo per un campo da tennis».

    Detesto il fatto che abbia almeno in parte ragione.

    Ci prendiamo ancora una mezz’oretta per analizzare i deal che abbiamo sul tavolo, quelli che abbiamo già chiuso ma vanno tenuti sotto stretto controllo e per ultimi quelli che ormai procedono ben oliati. Soddisfatti di quello che ci siamo detti, ognuno di noi si ritira nel proprio ufficio e si attacca al telefono. È così che funziona: conference call con il primo avvocato, poi con il secondo e spesso anche con il terzo. Che rimanda al primo commercialista, poi al secondo e spesso e volentieri al terzo. Ognuno ha le sue competenze specifiche e ognuno sopravvive fingendo di essere indispensabile. Servono tempo e pazienza, nonché l’abilità di intercettare quello che dall’altra parte non ti vogliono dire. Spesso quello che viene taciuto è molto più determinante di quello di cui si finisce per discutere. Non so se un simile paradosso si verifichi anche in altre professioni, ma nel private equity è un po’ una regola di vita. Siamo maghi, sensitivi o semplicemente figli di puttana, a seconda delle necessità.

    Facciamo appena in tempo a rientrare da un veloce pranzo in un ristorante poco distante dal lavoro che il dottor Beltrami è già in ufficio ad attenderci. Il nuovo stagista ha il volto paonazzo per la fatica che deve aver fatto a intrattenere il nostro ospite. Mi trovo a sorridere mio malgrado, perché anch’io ho faticato non poco a superare una naturale timidezza nell’interagire con persone di un certo tipo, quando ho mosso i primi passi in questo lavoro. Tempi arcaici, ormai.

    «Dottor Beltrami, quale piacere», saluto il nostro investitore, invitandolo nel mio ufficio. «Ci siamo visti solo la settimana scorsa ma è un piacere comunque», non resisto dallo stuzzicarlo.

    Non mi stupisce che non colga affatto la provocazione; serafico, si accomoda sulla poltrona davanti a me. «Avrei avuto un’idea geniale», esordisce senza nemmeno attendere un secondo. Con la coda dell’occhio catturo lo sguardo di Ludovico, che ci ha seguiti nella stanza. Sì, anche il mio socio pare allarmato.

    «Noi adoriamo le idee geniali, non è così?», commenta facendomi l’occhiolino.

    «Adoriamo», confermo.

    «Ecco, ci ho pensato a lungo e sono giunto alla conclusione che dovremmo creare una spac».

    Per cinque secondi buoni né Ludovico né io apriamo bocca. Lorenzo si è salvato in corner con quella conference call che aveva già in programma al rientro da pranzo.

    «Una spac», ripeto sbattendo le ciglia.

    «Sì. Ha presente che cos’è, vero?», mi chiede quasi timoroso.

    Sono a tanto così dal morire dalle risate. «Sì, credo di sapere cosa sia una Special Purpose Acquisition Company…», mormoro. Se del sarcasmo ha invaso il mio tono, è stato contro il mio volere.

    Come accade spesso nell’ambiente finanziario, la sigla inglese identifica un veicolo d’investimento, una sorta di scatola vuota, che viene costituita da un team di promotori con il fine di raccogliere capitali sul mercato attraverso la quotazione. Quanto raccolto viene poi impiegato per acquisire una società target che, dopo l’operazione di fusione o di conferimento, si troverà quotata indirettamente al posto della spac.

    «Io e voi dovremmo crearne una. Essere i soci fondatori», insiste come se fosse una cosa sensata.

    «E… perché?», non riesco proprio a fare a meno di domandargli.

    Il dottor Beltrami aggrotta confuso le sopracciglia e mi scruta. «Come perché? Tutti quelli che contano in questo mondo sono stati tra i propositori di una spac, negli ultimi tempi…».

    Tutti quelli che si illudono di contare qualcosa, vorrei rettificare. Ma il signor Beltrami ha in parte ragione. Negli ultimi due

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