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L'uccello padulo
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E-book232 pagine3 ore

L'uccello padulo

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Info su questo ebook

Affascinante, nobile e scandalosamente ricco. È Gianandrea Ludovisi, detto Billo, un ragazzo che trascorre il tempo tra shopping sfrenato, sesso occasionale, droga e notti brave in giro per la Capitale. Al termine di una di queste serate, ridotto in uno stato pietoso, Billo conosce Mamma Sophie, un'attempata trans che gestisce una piccola masnada di personaggi eccentrici. Tra i due nasce un'amicizia tanto insolita quanto profonda. Il rapporto di Billo con la nobile famiglia di appartenenza, composta da un padre arrogante e megalomane, una madre stralunata e depressa, e due fratelli completamente privi di carattere, inizierà a sfaldarsi sempre di più, in favore del fascino che il gruppo di Mamma Sophie esercita su di lui. "L'uccello padulo" è un romanzo provocatorio e irriverente, una processione di personaggi bizzarri e anomali che si sono inventati un proprio ruolo nel mondo. Ma è anche un affresco nostalgico e tenero di un'età di mezzo, una poesia visionaria sul concetto di appartenenza e di famiglia, un processo di trasformazione di un protagonista che ha, in sé, una buona fetta di tutte le contraddizioni umane.
LinguaItaliano
EditoreAlter Ego
Data di uscita28 feb 2019
ISBN9788893331418
L'uccello padulo

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    L'uccello padulo - Giovanni Lucchese

    © Alter Ego s.r.l., Viterbo, 2019

    Alter Ego Edizioni

    Collana: Specchi

    I edizione digitale: febbraio 2019

    ISBN: 978-88-9333-141-8

    Progetto grafico: Luca Verduchi

    www.alteregoedizioni.it

    A Francesco e Manolo, i miei fratellini.

    Per scelta, e per sempre.

    "I used to rule the world,

    seas would rise when I gave the word.

    Now in the morning I sleep alone,

    sweep the streets I used to own".

    "Una volta governavo il mondo,

    le maree si alzavano a una mia parola.

    Ora la mattina dormo da solo,

    spazzo le strade che prima mi appartenevano".

    (Coldplay)

    Hey scum, pull the trigger.

    Avanti feccia, premi il grilletto.

    (Depeche Mode)

    Prologo

    Frull-allegro

    Che poi, neanche avessi fatto chissà cosa.

    C’è di molto peggio, fidatevi.

    Ho visto gente nelle mie condizioni, o anche con la metà della roba che ho io in corpo, dare vita a veri e propri Armageddon in tempo reale. Un meteorite delle dimensioni dell’Umbria puntato contro la terra creerebbe meno scompiglio.

    Vomito a proiettile, deliri di onnipotenza, risse di massa, crisi di identità, teste infilate nei muri, coma etilico e via dicendo. Pisciarsi addosso è cosa da uomini navigati, animi carichi di autocontrollo, esperti di savoir-faire pienamente padroni di sé. Un paio di jeans da buttare e il gioco è fatto, che sarà mai.

    C’è il dettaglio del dove, e il fatto che i sedili di questa Golf stiano iniziando a puzzare di brutto, davvero una roba disgustosa. C’è il fatto, poi, che questa automobile è di proprietà di Skizzo, un maniaco depresso fulminato e attaccabrighe. Skizzo è anche il mio più caro, vecchio e fedele amico, ed è anche l’amico che non si farà alcun problema a infilarmi una pompa di benzina su per il culo fino a farmi il pieno, una volta che avrà scoperto il piccolo incidente di cui mi sono reso colpevole.

    C’è, inoltre, e qui la cosa si fa pesante, il fatto che Prospero, seduto al posto del passeggero, sia soltanto in apparenza uno zombie pallido e catatonico che non saprebbe distinguere una striscia di coca da un semaforo. Malgrado se ne stia con lo sguardo perso nel vuoto a muovere la testa, facendo ondeggiare quella massa informe di capelli da cui prende il soprannome, sta iniziando a tirare su col naso in maniera sempre più preoccupante.

    Osservo il suo profilo mentre me ne sto sdraiato sul sedile posteriore, lo vedo dilatare le narici mentre si volta verso il conducente offrendomi una panoramica completa dei suoi lineamenti spigolosi.

    «A’ Skizzé, ma ’sta puzza? La senti?».

    «Sarà il concime nei campi».

    «Quali campi? Siamo sulla Colombo, mica a Frosinone».

    «Allora sarà la merda che hai nel naso».

    «A me più che merda sembra piscio».

    Caro, innocente, innocuo piccolo Prospero.

    A quindici anni ti ho insegnato a rollarti una canna con una mano mentre con l’altra guidavi lo scooter, e adesso mi ripaghi così? Decretando la mia condanna a una morte rapida e parecchio violenta?

    Skizzo mette in moto i due neuroni rimasti attivi per sommare le parole puzza e piscio al fatto di trovarsi a guidare quel santuario immacolato e puro che è la sua adorata Golf, e subito la miccia del candelotto che ha al posto dell’anima si accende. Dallo specchietto retrovisore vedo i suoi occhi prima dilatarsi, poi stringersi fino a diventare due fessure dalle quali fuoriesce uno sguardo demoniaco.

    Eccoci qui, tre rampolli dell’altissima borghesia romana di rientro dall’ennesimo rave che ci ha trasformati in tre comparse uscite dal set di The Walking Dead.

    E a quanto pare sarò io lo zombie che verrà decapitato.

    Davanti a me ho due possibilità: accettare passivamente l’ondata di odio che sta per abbattersi su di me, sperando in una morte veloce e per quanto possibile dignitosa; oppure cercare di tirare fuori qualche briciola del mio leggendario savoir-faire per cercare di recuperare in qualche modo la situazione.

    Scelgo la seconda.

    Dopo tutto io sono Gianandrea Ludovisi, detto Billo più o meno da tutti. In poche parole, il più ricco, viziato, vizioso, nobile, affascinante e coraggioso di tutta la mia cerchia di amici altolocati. Come non tentare di giocarmi la carta del fascino, anche se ho le gambe intrise della mia stessa urina?

    Se riuscissi a sparare una sola cartuccia di charme, dovrei cavarmela con un assegno in bianco e due pacche sulla spalla. Ho ottenuto molto di più con i miei sguardi magnetici e il mio timbro di voce vellutato che con tutto il resto.

    Dai Skizzo, non è nulla di che. Mi dispiace, ma domani potrai comprarti una macchina nuova con i soldi che ti avrò dato. È quello che vorrei dire, ma quello che in effetti esce dalla mia bocca è una frase che suona un po’ così:

    «Ggrzpptzzmccnpt».

    Ok, riproviamo. Concentrati.

    «Prrtzzpprrttnpzz».

    Ma che fine hanno fatto le mie vocali?

    Accidenti alla ketamina e al modo prepotente e anarchico che ha di gestire i centri nervosi. I miei mugugni hanno attirato l’attenzione dei due che, ricordandosi improvvisamente della mia presenza sul sedile posteriore, si voltano all’unisono come due ballerine fatte di acidi.

    Skizzo perde di vista la strada senza rallentare di un minimo la velocità e io, non so per quale motivo, riesco a trovare la cosa talmente esilarante da non riuscire a trattenermi dallo scoppiare in una risata sonora, sguaiata e piena di saliva.

    Grosso sbaglio.

    La violenza si manifesta prima in forma verbale, con Skizzo che prende fiato fino quasi a farsi scoppiare i polmoni ed esplode contro di me: «Brutto testa di cazzo, figlio di puttana che non sei altro, avanzo di frocio, ti sei pisciato addosso nella mia macchina? Io ti spacco la testa!».

    Delicato, il mio amico d’infanzia.

    Gli avrò parato il culo non so più quante volte dai casini immani che combina fin dai tempi in cui ha acquistato l’uso della parola, eppure sarebbe comunque pronto a massacrarmi per un banale incidente come questo. Che a volerla dire tutta, potrebbe comprarsi un’automobile a settimana soltanto spendendo parte degli interessi del mostruoso fondo fiduciario intestato a suo nome.

    L’urlo fa appiattire Prospero contro lo sportello, lo sguardo terrorizzato di chi sa bene che a un metro da lui c’è una bomba a orologeria che è appena stata innescata.

    L’automobile sbanda pericolosamente a destra facendomi sbattere la testa contro il finestrino posteriore, poi Skizzo riprende il controllo della situazione e accosta. Quando inchioda, la testa di Prospero sbatte contro il vetro e fa il rumore di una lattina di birra vuota che viene gettata in un cassonetto.

    Vengo catapultato in avanti e rotolo a faccia in giù prima ancora di rendermi conto di cosa stia succedendo. Il pavimento della macchina inizia a roteare su se stesso in un caleidoscopio di forme geometriche dalle sfumature viola, azzurro e giallo acido che mi ipnotizzano facendo aumentare la mia risata isterica. Potrei morire soffocato mentre osservo questa visione prendere vita davanti a me.

    Un attimo dopo le portiere si aprono, Skizzo mi afferra per i polsi e Prospero, dalla parte opposta, si aggrappa alle mie caviglie.

    Inutile a dirlo, i due sono talmente inebetiti da iniziare a tirare ognuno nella propria direzione ottenendo l’unico risultato di farmi ridere ancora di più mentre ondeggio avanti e indietro.

    Se io ho il cervello fritto, questi due ce l’hanno completamente bruciato. Passiamo così qualche secondo, in un gioioso tira e molla che rischia di spezzarmi in due ma che mi fa comunque sbellicare dalle risate, finché la pazienza di Skizzo raggiunge il picco minimo.

    Stringe con ancora più forza i miei polsi, punta il piede contro la macchina per fare leva e tira verso di sé con sorprendente brutalità.

    Prospero mi afferra l’orlo dei jeans per migliorare la presa, ma i pantaloni si sfilano di colpo restandogli in mano e mandandolo col culo a terra.

    Sono nudo dalla vita in giù, ma non ho intenzione di indagare su che fine abbiano fatto le mie mutande. Ero comunque sicuro di averle messe quando sono uscito.

    La forza del mio amico mi attira a sé facendomi crollare su di lui che, schiacciato dal mio peso, cade di schiena con me spalmato sopra.

    Proprio un bel quadretto, per fortuna è notte fonda e non gira quasi nessuno per strada.

    Skizzo fa una smorfia disgustata, probabilmente perché io sto strofinando il mio uccello contro il suo mimando un tragicomico amplesso. Quindi gira su se stesso facendomi sdraiare sull’asfalto, si alza e mi assesta un calcio sullo stomaco che, finalmente, pone fine alla mia ilarità.

    «Questa me la paghi, coglione!» mi urla con il tono di voce che usa Capitan America quando sta per sistemare qualcuno per le feste.

    Due secondi dopo l’auto riparte a tutta velocità lasciandomi a bordo strada.

    Solo, seminudo e fatto come una zucchina.

    Deca–Danza

    1

    Mi alzo a fatica, mosso dalla necessità impellente di trovare i miei pantaloni. Ho visto Prospero lanciarli da qualche parte dietro di sé prima di risalire in macchina.

    Per fortuna le scarpe sono a portata di mano e riesco a infilarmele senza crollare di nuovo a terra.

    Mi guardo attorno. Sono in un luogo ampio, deserto, una strada a otto corsie che corre dritta verso la città, ma che non l’ha ancora raggiunta del tutto. Ci sono alberi secolari e siepi di oleandri, qualche rudere antico sparso qua e là. Siamo in una di quelle zone dove a quest’ora non succede nulla, o almeno così sembra: infatti non gira un’anima.

    I fari dell’auto su cui mi trovavo fino a due minuti fa svoltano a destra su una grande rotonda per poi scomparire del tutto.

    Meglio rivestirmi, il viaggio di ritorno a casa sarà lungo e tortuoso. I miei jeans dovrebbero essere dentro la siepe grande e fitta che sta a pochi metri da me.

    L’aria fresca solletica le mie parti intime, e quando abbasso gli occhi ho una grossa sorpresa. Grossa nel vero senso della parola. Sarà stato il cocktail di coca, droghe sintetiche e alcool, oppure l’aria frizzante di questa notte di fine maggio, o magari l’agitazione per la situazione sconveniente che è appena accaduta… sta di fatto che tra le gambe ho quella che sembra la più grossa e solida erezione che io abbia mai avuto.

    Un vero e proprio bastone, pronto a colpire, che si erge in verticale quasi volesse staccarsi dal resto del corpo e spiccare il volo verso il cielo stellato.

    Maledico il fato che ha deciso di dotarmi di un tale ben di dio e di metterlo in funzione adesso, quando la cosa più scopabile che c’è a portata di mano è un pino di grosse dimensioni.

    Cammino a gambe divaricate verso i giardini, cercando di restare in piedi malgrado il resto del mondo abbia deciso di mettersi a vorticare, facendomi sentire come se stessi facendo un giro di troppo sui calci in culo.

    All’improvviso, oltre la siepe, si leva un baccano assurdo.

    Un urlo di donna taglia il silenzio facendomi inchiodare sul posto. Quasi contemporaneamente una voce maschile, rozza e sgraziata, urla qualcosa in una lingua che non conosco. O forse le voci sono due? Subito dopo sento il rumore di uno schiaffo ben assestato, stoffa che si lacera, scarpe che muovono la terra, rumori confusi e disordinati.

    Qualcuno se la sta passando peggio di me, a quanto pare. Meglio dare un’occhiata.

    Aggiro la siepe e mi sporgo cercando di non farmi vedere.

    Un uomo di mezza età, dalla pelle scura e dalla corporatura piazzata, è circondato da due tipi loschi dall’aspetto minaccioso, le braccia tatuate e le facce da ergastolani. Uno di loro ha i pantaloni slacciati e gli ha afferrato un braccio impedendogli di scappare, l’altro gli molla un altro schiaffone in piena faccia proprio mentre sto guardando.

    Ah, dimenticavo, la vittima indossa un vestitino aderente di pizzo rosso, una parrucca a caschetto biondo platino ed è truccata come una delle tante battone che popolano Roma a quest’ora di notte.

    Una trans, per capirci.

    La tipa molla un calcio negli stinchi di uno degli aggressori mentre cerca di divincolarsi dalla presa dell’altro, ma quello non molla, e con l’altra mano le afferra il collo offrendo il suo viso all’amico pronto a colpire ancora.

    Non so cosa mi prende, a questo punto. O forse sì, lo so. Fin da piccolo non ho mai sopportato i soprusi, le ingiustizie, la violenza contro i deboli. Anche se la vittima in questione ha la stazza di un wrestler, sono in due contro uno, e questo basta a farmi perdere le staffe e mandare a farsi fottere il mio istinto di sopravvivenza.

    Mi ritrovo con un bastone in mano, un pezzo di ramo grosso e corto che devo aver raccolto senza neanche rendermene conto, e sto correndo verso di loro ignorando la voce che grida dentro di me e che mi sta pregando di farmi i cazzi miei.

    Le vene del collo stanno per scoppiarmi, mi avvicino allo schiaffeggiatore arrivandogli proprio dietro senza che nessuno ancora mi abbia notato. Nell’attimo in cui l’uomo percepisce la mia presenza e si volta verso di me, carico il braccio e gli mollo una bastonata in piena fronte, tanto forte da far spezzare il ramo.

    L’uomo cade a peso morto, strabuzzando gli occhi. Spero di non averlo ammazzato.

    Il suo compare molla la presa per venirmi incontro e urla qualche insulto con il tono minaccioso in una lingua che credo sia straniera, ma che potrebbe anche essere un dialetto italiano biascicato male. Si accorge troppo tardi dell’errore che ha commesso: una trans aggredita e inferocita che ha appena intravisto un barlume di salvezza non è cosa da sottovalutare. In un attimo gli sta addosso menando calci a casaccio, graffiandogli la faccia con delle unghie assassine, caricandolo con tutto il peso del corpo.

    Io le do manforte partendo di testa e affondandola nelle parti basse dell’energumeno che ulula di dolore e di rabbia. Il tipo crolla a terra cercando di divincolarsi, ma non dev’essere facile staccarsi di dosso un uomo vestito da donna e ferito nell’orgoglio, e un tossico seminudo che è appena stato tradito dai suoi migliori amici.

    Potremmo governare il mondo, io e questa qui, ma per il momento ci accontentiamo di massacrare di botte l’aggressore finché non lo sentiamo piagnucolare.

    Riesce a liberarsi mollandomi una pedata sulla coscia che mi fa arretrare trattenendo un grido. Mentre la trans si volta verso di me per controllare i danni, l’energumeno si alza in piedi e ci guarda in cagnesco. Si allontana zoppicando, urlandoci contro una parola che suona molto come «Limortaccivostri!», detto con un accento strano.

    Il suo amico è ancora a terra che geme e si lamenta con gli occhi chiusi. Per il momento non è un pericolo per nessuno.

    Mi volto verso la trans ansimando e massaggiandomi la gamba dolorante. Vedo un sorriso lieve farsi sempre più largo sul suo volto sfatto e malconcio. Seguo il suo sguardo e mi accorgo che la mia erezione non ha accennato a calare, anzi la rissa sembra averla rafforzata.

    Ad averlo saputo avrei potuto usare il mio arnese per menare.

    Potrei diventare un nuovo supereroe urbano dai poteri straordinari. Una leggenda metropolitana di cui si parlerebbe per generazioni intere. Altro che Jeeg Robot. Qualcosa tipo Cazzoman, o Minchiatanta, sempre in giro di notte a proteggere deboli e sfigati con la forza della sua arma segreta.

    Per nulla imbarazzato, alzo gli occhi e sorrido alla trans inarcando i fianchi in avanti e puntandolo dritto verso di lei.

    «Il mio uccello guarda sempre a nord».

    Non so perché, ma mi è sembrata la cosa più adeguata e intelligente da dire.

    «Allora è l’uccello padulo! Finalmente ne vedo uno» risponde lei alzando finalmente lo sguardo su di me. Ha un occhio pesto e un labbro spaccato, ma mantiene comunque l’aria regale e fiera di una regina della notte.

    Un rumore dietro di me ci fa trasalire.

    L’altro tipo si è rialzato e si sta allontanando zoppicando mentre si tiene una mano sulla fronte.

    «Vattene via, testa di cazzo! Sparisci, prima che ti infilzi con la mia spada!» grido verso di lui afferrandomi l’uccello e brandendolo come un’arma.

    Lui si allontana correndo, ma prima di scomparire dietro

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