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Ritratti alla guida
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E-book266 pagine3 ore

Ritratti alla guida

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Info su questo ebook

Tante voci diverse. Tante storie da raccontare: fantasiose, curiose, entusiasmanti o tristi, frutto di fantasia o con radici vive nel trascorso del vissuto personale di ciascuno. 
L’automobile è lì, parcheggiata ai margini della nostra vita, pronta a mettersi in moto a nostro comando. Pronta a soddisfare i nostri desideri, la nostra fame di viaggi, la sete d’avventura.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2021
ISBN9791220282321
Ritratti alla guida

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    Anteprima del libro

    Ritratti alla guida - AA.VV.

    AA.VV.

    Ritratti alla guida

    A cura di Ivan Scelsa

    Ritratti alla guida

    AA.VV.

    © Rudis Edizioni

    All rights reserved

    Editor-in-chief: Daniele Dell’Orco

    1A edizione – marzo 2021

    www.rudisedizioni.com

    rudisedizioni@gmail.com

    prefazione

    Tante voci diverse. Tante storie da raccontare: fantasiose, curiose, entusiasmanti o tristi, frutto di fantasia o con radici vive nel trascorso del vissuto personale di ciascuno.

    L’automobile è lì, parcheggiata ai margini della nostra vita, pronta a mettersi in moto a nostro comando. Pronta a soddisfare i nostri desideri, la nostra fame di viaggi, la sete d’avventura.

    Dentro di lei sono nati amori, cresciute storie personali e familiari, all’ombra di grandi città o in piccoli centri urbani, lungo migliaia di chilometri percorsi su strade veloci o pochi attimi su piccole e polverose strade di provincia, ma sempre lì, accanto ai loro proprietari.

    Così l’hanno descritta gli autori. E chissà come interpreterete voi le loro voci, magari immedesimandovi in uno o più racconti di questa raccolta.

    Ivan Scelsa

    IL GIRO DEI COLLI

    di Gabriele Astolfi

    Ci sono città vicine al mare, ai laghi o ai monti. La mia ha vicino le colline, e il giro dei colli è l’alternativa più rapida al giro al mare, ai laghi o ai monti. E se in primavera l’ascesa ai declivi che ci si adagiano di fianco scopre una natura che si sveglia e si fa bella, in autunno inoltrato hai l’incanto della natura che dorme, nuda, coperta dalla nebbia e dal freddo.

    Anche l’autunno però ha giorni di sole, con colori così caldi da sembrare appena dipinti, quasi gocciolanti.

    È uno di questi, un sabato abbagliante, e, vestito della mia Cinquecento di terza mano, staccata la spina da Patologia Generale, parto per godermi la giornata. Da solo, per non spartirla con altri che me stesso.

    La Cinquecento, col fruscio convulsivo del suo motore e il cambio non sincronizzato che obbliga alla famosa doppietta per passare da una marcia all’altra, è unica. Una volta imparata questa tecnica di guida, condurre quella specie di frullatore con le ruote e il tetto apribile in tela che le dà un’aura da decappottabile, è più divertente che guidare un go-kart in pista. E poi è stata la mia prima auto e l’ho prediletta quanto nessun’altra, magari nuova di zecca e meno scatola di sardine di quella. Alle tre del pomeriggio il sole va spegnendosi, come se avesse brillato troppo prima, e fa posto a una bruma leggera.

    Uno zucchero filato opaco che, a finestrino aperto, puoi sentire sulle labbra, in bocca, e quasi mastichi, e trovi abbia un buon sapore. Pure se non ce l’ha.

    Guido piano, protetto da una coltre che man mano prende corpo e si fa più spessa, al punto da poterla indossare, come un cappotto. L’auto sembra essersi infilata in una sua manica. Una manica senza uscita

    A un tratto, oltre il vetro si delinea una sagoma liquida, che muove le braccia a mo’ di odalisca. Cerco di distinguere quella specie di ombra cinese. L’ombra si avvicina, è davanti; inchiodo. In un attimo è dentro, seduta, si toglie il cappuccio dalla testa. Sembra un fuggiasco in cerca di asilo. Benché stralunata, la faccia non mi è nuova. È Ranzi, un compagno del liceo.

    Che ci fai qui, con questo tempo? dice, come se fosse lui ad aver raccolto me, e non io lui.

    Che ci fai tu? replico ripartendo A piedi, in mezzo alla strada.

    Due passi risponde frizionandosi le cosce.

    Gli sorrido. Ha i capelli ricci scuri e la barba, e porta guanti da sci e montgomery simili a quelli che portava a scuola. Potrebbero anche essere gli stessi. Che senso abbiano poi i guanti da sci in uno che non solo non scia ma nemmeno mi risulta essere mai stato in montagna d’inverno, è particolare che sfuggiva allora e continua a sfuggire oggi.

    Come butta? chiedo, mentre un vapore compatto ci inghiotte e ci sputa a ogni catarifrangente illuminato dai fari. Le foglie secche sulla strada crocchiano sotto le ruote come la crosta del pane fresco di forno.

    Sospira; butta male. È stato lasciato dalla ragazza con cui stava dal liceo, una piccoletta che, a vederla, si sarebbe detta più dolce di un confetto. Forse il confetto è arrivato alla mandorla, che spesso capita essere amara. Specie nell’ultimo. Ma non c’è problema, dice, tutto ha una fine. Meno male, l’ha presa bene. Anche la vita, aggiunge. No, non l’ha presa bene.

    Non riesco a vivere senza! sbotta, e scoppia a piangere Sono ore che cammino! Che cerco di farmene una ragione…ma non c’è mai una ragione perché un amore possa finire!

    Riccardo Cocciante. Le stesse parole. Siamo figli delle nostre canzoni; le citiamo inconsciamente, pensando di essere originali. E invece sono copie, e noi replicanti.

    Okei, adesso andiamo da qualche parte a bere qualcosa.

    No, portami a casa.

    Perché vuoi andare a casa?

    Hai ragione. Portami in ospedale.

    Guarda che non è così grave, ribatto. Non si muore per amore. E’ Lucio Battisti, lo so. O sono le canzoni che ripetono le nostre parole? Sicché nulla è veramente originale.

    Voglio andare in ospedale ripete.

    Ranzi era un eccentrico. Comprava i libri in edizione economica, le pagine appese a un filo di colla secca, e ne scorreva le righe quasi senza aprirli, per non correre il rischio di spaccarli. Ma talvolta li leggeva andando in bicicletta, dove gli era capitato più volte di cadere e di rompere libro e bicicletta.

    All’improvviso si toglie un guanto. Schizza rosso dappertutto, come se avesse aperto una passata di pomodoro. E’ sangue. Si è tagliato le vene.

    Non voglio morire. singhiozza.

    Pigio sull’acceleratore. Non so come ci arrivo, al pronto soccorso, con la nebbia che avvolge anche i pensieri, quanto l’ovatta il più fragile degli involti. In ospedale lo ricuciono, gli fanno una trasfusione.

    Quando salgo in camera lo trovo sdraiato sul letto, supino, la faccia bianca abbandonata sul guanciale. Sembra uno schizzo in bianco e nero anziché una faccia, un quadro a china anziché una federa con un volto.

    Lo schizzo apre gli occhi, mi vede.

    Sono uno stupido sussurra con un sorriso ebete.

    Faccio di no con la testa, poi indugio, faccio di sì, prima piano, poi sempre più forte, e scoppiamo a ridere.

    QUESTO PRESENTE È IL TUO FUTURO

    di Francesca Auricchio

    Occhiali da sole, finestrino abbassato. Il vento che, leggero, mette fuori posto i capelli al quale il parrucchiere ha appena finito di fare la messa in piega. Chi se ne frega! penso, mentre lo speaker alla radio sta per annunciare la prossima canzone. Una curva e un’altra ancora. Un motorino sfreccia e passa veloce l’incrocio, giusto un attimo prima che il semaforo diventi rosso. Io e la mia Fiat 600 ci fermiamo ed aspettiamo che scatti la luce verde. Siamo le prime della fila e ci sentiamo un po’ come Schumacher alle griglie di partenza per il Gran Premio di Montecarlo. Va bene che la mia Fiat non è una Ferrari ed io non sono un pilota, ma cosa costa sognare un po’?!

    Persa nei pensieri mi godo il panorama di via Posillipo. Il Vesuvio, il golfo, il mare, Napoli. Si respira un’aria tiepida. Alzo il volume della radio riconoscendo le note di una delle mie canzoni preferite. E cambieremo il mondo ogni volta che vuoi, canta Pino Daniele in Amore senza fine ed io canto con lui. Note leggere per un caldo giorno di marzo che porta con sé le promesse della primavera ormai alle porte.

    Mi sporgo in avanti verso il volante, con gli occhi all’insù, per guardare il semaforo. Scatta il verde, si riparte. Trovare parcheggio in questa città è una cosa praticamente impossibile, ma oggi poco importa. Oggi è uno di quei giorni in cui non ho una meta precisa, è una cosa che faccio di tanto in tanto e che mi fa sentire libera. Guidare e perdersi un po’ tra le strade, i pensieri ed i ricordi. Perdersi ma anche ritrovarsi.

    Ritrovarsi sul lungomare di Mergellina allo Chalet da Ciro, celebre bar partenopeo diventato punto di ritrovo di intere generazioni, famosissimo per dolci e caffè. I miei genitori mi ci portavano spesso da piccola, un’abitudine che è diventata una tradizione che continua ancora. Ci andiamo non appena si può, graffa calda e caffè, vista panoramica gratuita e arrabbiatura garantita perché tanto il parcheggio non si trova!

    Passandoci davanti, sorrido. Mi torna in mente quel giorno di un po’ di tempo fa, quando mio padre con una deviazione al percorso che avevamo in programma per quel lunedì, decise, improvvisamente, di cambiare strada e portarmi proprio allo Chalet da Ciro. Un giorno normale come tanti altri, nessun compleanno o ricorrenza da festeggiare, ma solo la voglia di guardare il mare.

    Ripenso spesso a quanto tempo abbiamo passato in auto, io e te, ai chilometri percorsi e alla strada fatta insieme. Credo che sia così che abbiamo imparato a conoscerci, a parlarci, a capirci. Affiorano i ricordi, uno dopo l’altro si rincorrono come guidati da piloti veloci ed esperti. Ricordi in corsa come auto in una gara di velocità, dove agli spettatori è solo concesso di scorgere il fulmineo colore lasciato dalla scia sfumata dell’ultimo pilota. Mi passano per la testa incroci e curve, semafori e strisce pedonali, parole e canzoni. Tutto si rincorre fino al primo fermo immagine che ho di noi. Guidando mi spiegavi la segnaletica stradale Allora, Francesca, cosa vuol dire quel segnale? chiedevi indicando con il dito un cartello posto su di un lato della carreggiata. Divieto di sorpasso rispondevo. E cosa c’è scritto su quella freccia? rallentavi appena in modo da potermi dare il tempo di leggere la grande scritta Castel di Sangro. Tre semplici parole, il nome di una città, quella dove eravamo diretti, che avevano su mio fratello il potere straordinario di fargli interrompere qualsiasi cosa stesse facendo. Avevano su di lui lo stesso effetto di una parola chiave pronunciata da un mago per risvegliare il pubblico dopo l’ipnosi. Neanche il tempo di emettere il suono dell’ultima sillaba che lui con la sua voce squillante dal sedile posteriore chiedeva tutto d’un fiato Papà quanto manca per arrivare a Castel di Sangro?. Ricominciava così il suo rituale di viaggio che consisteva nel chiedere incessantemente quali e quanti paesi, chilometri, ore, minuti mancassero fino al raggiungimento della destinazione. Andava avanti con la sua cantilena finché mamma non riusciva a distrarlo di nuovo.

    Avrò avuto cinque o sei anni non di più e i segnali stradali li riconoscevo già. Avevi avuto modo di spiegarmeli tutti. Un sistema creativo di apprendimento messo appunto e collaudato durante i vari viaggi e spostamenti per alleggerire il percorso.

    Eh sì, perché ne abbiamo bruciati di chilometri insieme penso, mentre questa volta un motorino sorpassa alla destra della mia mitica Seicento. Non c’è niente da fare certe cose non cambieranno mai!

    La memoria non ha di certo cancellato il tempo trascorso percorrendo quello che era un tragitto diventato consueto dopo il trasferimento da Casoria, cittadina poco distante da Napoli, a Caserta e che per anni si è ripetuto regolarmente ogni lunedì, mercoledì e venerdì. La me di allora, una bambina di soli sei anni, non aveva preso molto bene quel cambiamento. Una svolta che andava ad alterare quello che fino a quel marzo del 1996 era stato il mio mondo. Vivere in un’altra città significava cambiare scuola, lasciare gli amici, frequentare una nuova scuola di danza e soprattutto voleva dire non vedere i nonni tutti i giorni. Ripenso agli sforzi dei miei genitori nel provare a spiegarmi che sarebbe stato un cambiamento positivo, ma per me era la fine del mondo. Solo crescendo ho capito l’importanza di quella decisione e quanto abbia temprato il mio carattere.

    Nel tentativo di rendere più semplice il passaggio, raggiungemmo un compromesso, che prevedeva di concludere l’anno scolastico nella vecchia città, poi, con l’autunno avrei ricominciato tutto nella nuova, ma non era ancora abbastanza per me. Non riuscivo proprio a digerire l’idea di dover abbandonare il corso di danza classica. Così, all’accordo, fu aggiunta una condizione vantaggiosa, avrei potuto continuare a seguire le lezioni di danza a Casoria finché avrei voluto. Autista designato? Papà! Non avevo preso in considerazione l’impegno che stava consciamente sottoscrivendo sperando, forse, che sarebbe stato solo per un po’.

    Per otto anni, invece, abbiamo fatto avanti e indietro tra Caserta e Casoria, 27km ad andare e 27km a tornare per almeno tre volte a settimana che, facendo un rapido calcolo, corrispondono all’incirca a 57.023 km, trenta volte la distanza Napoli - Londra.

    Chilometri fatti di pioggia e di sole, di inverni e primavere, di pianti e risate e "strada facendo guidando, mi hai insegnato la vita e ad essere chi sono. Fuori dal finestrino sono passati veloci le autostrade, le case, i palazzi, gli alberi. Sono cambiate le auto, i paesaggi e siamo cambiati noi, padre e figlia cresciuti insieme. D’un tratto non si parlava più di segnali stradali ma delle strade della vita. I sogni, il passato, il presente, il futuro. Questo presente è già il tuo futuro" la tua frase ricorrente, un eco nella testa, parole di ieri e di oggi.

    Le cose più importanti ce le siamo dette in auto perché era quello il momento per parlare, per confrontarsi. In auto mi hai detto che volevi iscriverti all’università, in auto ti ho detto che c’era un ragazzo che mi piaceva. In auto mi hai trasmesso la passione per la musica e mi hai insegnato che bisogna inseguire e lottare per i propri sogni. Abbiamo discusso urlandoci addosso l’amore travestito da rabbia. Ci sono stati viaggi dove quei ventisette chilometri, sono stati come lunghi inverni di freddi silenzi. Ma la neve si scioglie, sempre.

    Spesso mancavano le parole, ma per fortuna ci si può parlare con una canzone. La musica col potere di coprire i pensieri e di aprire squarci nei silenzi. La musica come colonna sonora del nostro essere padre e figlia. Mi hai insegnato ad ascoltare i suoni, gli strumenti, le parole. Mi hai presentato i grandi artisti come fossero tuoi amici: Daniele, Avitabile, Dalla, Battisti e ancora Sting, Santana, Dylan solo per citarne alcuni. Passando da una traccia all’altra mi raccontavi storie e aneddoti della tua vita prima di me. I tuoi amici sono diventati i miei e nota dopo nota ci siamo mischiati l’anima.

    Insieme abbiamo scoperto nuova musica e così anche Coldplay, Cremonini, Jovanotti sono entrati a far parte della nostra famiglia. In particolare, Lorenzo, quel "ragazzo fortunato" è entrato nella nostra vita e non è più andato via. Lo abbiamo portato dovunque con noi. C’era ai compleanni, alle serate con gli amici, durante i viaggi.

    Serenata Rap è la nostra canzone. Ho questo ricordo di noi quattro, mia madre, mio padre, mio fratello ed io. Estate, direzione vacanze. Un’auto e uno stereo a tutto volume. Papà con le mani sul cruscotto, comincia a portare il ritmo, come se stesse suonando la batteria. Serenata Rap, serenata metropolitana, mettiti con me non sarò un figlio di puttana! Cantavamo. Mamma arricciava il naso sentendomi ripetere questa parola. Non si dice mi diceva. E papà le rispondeva: Se la canzone dice così la può ripetere, ma solo mentre canta. Giusto Francesca?!. Sì, papà!. Poi rivolgendosi a mia madre: Così magari impara già da ora che da grande non dovrà prendersi un figlio di e si prende uno che le canta una serenata, sotto la finestra, ma sempre con il mio permesso!. Mamma scuoteva la testa, ma in cuor suo era d’accordo. Sorridevo e, complici, ci facevamo un occhiolino dallo specchietto retrovisore. Ciao mamma guarda come mi diverto, partiva un’altra traccia. Coincidenza o caso, ma la successiva era proprio quella. Ci sembrava un po’ di prenderci gioco di lei. Ma la mia mamma speciale cominciava a cantare senza curarsi di noi. È una libidine è una rivoluzione quando ci si può parlare con una canzone. Alee ooh, alee ooh mio fratello si univa al coro. Cantavamo tutti insieme a squarciagola con lo stereo a tutto volume, verso la nostra estate.

    Viaggi di note nell’aria e amici che cantano. In testa una compilation di ricordi. Traccia dopo traccia istantanee di attimi vissuti. Un’ auto sfreccia veloce con fari abbaglianti che fanno luce sul cammino.

    Su Napoli s’ affaccia la sera. Scendo dall’auto, quella che mi avete regalato, con le chiavi e la vita in mano.

    MA QUANTO È DURA LA SALITA

    di Stefano Barchetti

    Durante i miei viaggi per lavoro ascolto di solito musica di radio locali. Alcune volte mi è capitato di sentire il grandissimo Gianni Morandi e tra tutte le sue canzoni ce n’è una che adoro e che spesso mi viene da canticchiare: Uno su mille che ad un certo punto dice … ma quant’è dura la salita….

    Mi trovo in un piccolo paesino dell’Emilia Romagna con Sergio, un collega di lavoro, per fornirgli un supporto commerciale durante le visite a diverse ferramenta che trattano articoli tecnici industriali. Sergio è un grande lavoratore, stimato da tutti i suoi clienti, metodico, pignolo e soprattutto umano. Ma ha un piccolo difetto: alle volte gli chiedo se ha ingoiato una radiolina accesa perché parla di continuo e il bello è che dice tante cose interessanti e utili, ma dopo dodici ore di affiancamento le orecchie iniziano a sanguinare e non ne posso veramente più.

    Quella mattina ci alziamo presto e andiamo a fare colazione nel B&B Il Girasole, un bed and breakfast molto conosciuto da chi viaggia per lavoro, dove abbiamo dormito la sera prima, naturalmente in camere separate. La cena era a base di carne di suino alla griglia con braciole di coppa, salsiccia e pancetta, accompagnata da un buon vino rosso locale. Al buffet del mattino passiamo invece dall’angolo delle torte a base di marmellate o crema gialla con uova di galline allevate a terra, ai panini con semi neri di papavero e girasole, che possono essere farciti con una grande varietà di salumi tipici locali e formaggi stagionati, tagliati a fette sottili. La frutta ci interessa meno, perché quando hai a disposizione una colazione di questo tipo, pensi solo ai cibi dolci oppure ti butti su quelli salati come focacce e pizza. Un succo d’arancia e buon caffè chiudono questo primo pasto, poi facciamo un ultimo salto veloce in camera, per lavarci i denti e raccogliere tutto in valigia. Poi ci dirigiamo subito giù in reception con le valigie, pronti per affrontare le nuove sfide quotidiane.

    La mattina passa velocemente. Con la mia Fiat Stilo SW di colore grigio metallizzato raggiungiamo tutti i clienti che abbiamo in programma, così quel pomeriggio finiamo leggermente prima e ci godiamo una breve pausa a base di chiacchere. Ci dirigiamo quindi alla macchina che ha appena 8mila chilometri, nuova di pacca, piena di campioni, cataloghi e naturalmente le nostre valigie, che occupano i sedili posteriori dell’auto. Alle 17:30, Sergio prende fuori da un taschino della sua giacca di cotone, color nocciola, un piccolo blocchetto di carta a quadretti, per appunti veloci, che inizia a sfogliare avanti e indietro in modo

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