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Dimmi che c'entra la felicità
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Dimmi che c'entra la felicità
E-book141 pagine2 ore

Dimmi che c'entra la felicità

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Info su questo ebook

Una raccolta di racconti firmata da Margi De Filpo e Vincenzo Corraro.
"Ci sono narratori non ancora conosciuti che stanno costruendosi una maturità letteraria in autonomia. Sono pazienti e sapientemente incostanti, s'affacciano al pubblico quando sono certi del loro lavoro perché lavorano in silenzio e nel rispetto della propria dignità, misurandosi con se stessi e la sola forza delle proprie pagine. Hanno superato l'esordio da soli, e sono già oltre. Qui dentro ne troverete prova."
Diego De Silva
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2016
ISBN9788868811419
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    Anteprima del libro

    Dimmi che c'entra la felicità - Margi De Filpo

    felicità

    La collina davanti al mare

    Vincenzo Corraro

    Al bivio per il Carro c’è una doppia curva in discesa, inghiottita da una frana. Il guaio è che arriva all’improvviso, subito dopo un breve rettilineo tra gli alberi, una falsa pendenza e una specie di piccolo ponte mezzo crepato. Appena imbocchi il dislivello in velocità, te la trovi dinanzi, e non c’è modo, a meno di una manovra mozzafiato, di tenere la macchina sulla parte buona della carreggiata. Che io ricordi, fino adesso, non c’è stato automobilista avventato, occasionale, distratto o miseramente sbronzo che in quel crepaccio non vi abbia lasciato, come minimo, il semiasse. O sfracellato il radiatore. Bisogna arrivarci adagio, frenare col motore (se metti i piedi sui pedali può anche darsi che il pietrisco sull’asfalto ti trascini nel burrone) oppure calcolare lo spazio tra la cunetta e la crepa con la stessa precisione millimetrica di un arco scagliato da una fiocina in fondo al mare.

    Percorro questa strada provinciale da quattordici anni. E da quattordici anni la Provincia non ci ha mai messo mano. La prima volta che ho fatto lo spericolato nella doppia curva del Carro era appena nata mia figlia in ospedale. Mi avevano telefonato sul lavoro, attendevo la notizia da ore. Avevo pensato di mettermi in permesso ma, a quel tempo, gli affari andavano a gonfie vele. Dirigevo un’azienda solida e dinamica, con un fatturato quotidianamente in crescita, e assentarsi dal lavoro voleva dire impegolarsi in cervellotiche assunzioni materialistiche di sensi di colpa, dato che l’azienda era, per metà, anche mia. Soprattutto per quello: si doveva dare il buon esempio. Venti e più dipendenti li motivi anche con il buon esempio. E con la puntualità dello stipendio, ovviamente.

    Nel corridoio di maternità mi attendeva mia suocera, chiusa in un abito disgustoso, tendente al lugubre, con le maniche a sbuffo, vaporose e vezzosamente eleganti. Ostentava una gioia così chiassosa e stupida che non avrebbe contagiato nemmeno una classe delle elementari in viaggio d’istruzione a Gardaland. Si lanciò verso di me e cominciò a squittire e a strusciarsi sulle guance, rovinandomi la sorpresa. Ero imbambolato e deluso. Io desideravo una femminuccia e lei, che lo sapeva, mi disse che ero stato accontentato. Quanto la odiai! Corsi da mia moglie con gli occhi lucidi e provati, e con un sorriso incerto. Perduta in quel letto di ospedale, era la donna più adorabile e affascinante che avessi mai visto; il verde penetrante delle iridi pareva immenso, gigantesco, così sproporzionato rispetto al viso sudato. Quando l’infermiera ci portò Federica mi mancava l’aria. Non ce la feci a prenderla tra le braccia perché le braccia mi tremavano. Le gambe, non ne parliamo. Tutto il corpo era in preda a una scarica nervosa, e come un disadattato rimasi impalato in un angolo mentre la mia Federica fluttuava da una mano all’altra dei parenti che dicevano quasi in coro Guarda quant’è bella!.

    Così, nella gincana del Carro, quella mattina, mentre correvo in ospedale, le ruote del pick-up Toyota si sollevarono da terra, e anche il cuore si sollevò dal posto dove generalmente sta, il respiro gelò in gola, mentre io chiusi gli occhi, serrai la bocca e volai. Letteralmente volai. Non appena percepii di nuovo l’aderenza delle ruote sull’asfalto, riaprii gli occhi e mi trovai dinanzi il mare. Un mare lattiginoso e calmo. Profondo e vicino. Un po’ come doveva essere il sorriso di mia figlia. Che, di fatto, così era. Ora sono quattordici anni che ripeto più o meno tutte le mattine questo gesto da incosciente e anche se ormai, quando torno a casa, non ritrovo più il sorriso di Federica (neanche quello di mia moglie, a dire il vero), ho pur sempre la suggestione assoluta del mare che mi avvolge immutabile e mi mette quella dose di buonumore per affrontare la giornata.

    Da quando la ditta ha cominciato a scricchiolare, Sergio e io ci siamo dovuti privare, un poco alla volta, di tutti i dipendenti, con la media di almeno due all’anno. L’ultimo ci ha lasciato a Natale. Lo tenevamo come contabile, facchino, portalettere, manutentore e lavacessi. Alla fine avanzava tre mensilità e il rapporto di fiducia era andato logicamente a puttane. Lo abbiamo licenziato e liquidato prima che ci denunciasse. Sergio è diverso da me, lui ha proprio il cipiglio del capo: non è incline ai sentimentalismi, non pecca di filantropia, si è sempre mosso con furbizia e scaltrezza negli affari, e, soprattutto, è freddo coi dipendenti. Li ha spremuti con coscienza, responsabilizzandoli ai limiti di un classismo fastidioso: è parso sempre che ogni magazzino, ogni settore di assemblaggio e persino ogni buco dell’azienda gravasse sulle spalle di ciascuno di loro. Una grande famiglia, con la giusta dose di motivazione per ognuno, tant’è che non s’è mai vista l’ombra di un sindacato varcare i nostri cancelli. La ditta è specializzata in cicalini, sensori, segnalatori di parcheggio e in tutto quell’apparato acustico che protegge l’auto dagli urti. Quando Sergio mi propose di entrare in affari con lui – con la quota di un terzo del capitale d’investimento – mica ne ero tanto convinto. Pensavo fossero soldi buttati. Eravamo due ingegneri brillanti e creativi, io e Sergio, compagni di corso al Politecnico di Torino. Dopo la laurea, fiutata l’aria viziata e paramafiosa nei dipartimenti di ricerca, ce ne tornammo al paese. Io avevo tentato le domande nelle scuole, lui continuava a progettare e a tenere alta l’asticella dei sogni; conobbe il politico giusto e mise in piedi, nemmeno in un anno, un’azienda che ha fatto da apripista, per giunta qua al Sud, al settore dell’indotto per gli stabilimenti Fiat del Mezzogiorno e per le concessionarie autorizzate.

    Ogni volta che torno a casa, mia moglie prova una fitta di collera per Sergio. Per il suo modo scaltro e repentino di cambiare pelle e di mettere alla porta l’inservibile, il vecchio, ciò che appartiene al passato. Compreso me. La sentivo ieri sera mentre lavava in cucina le foglie d’insalata e la sua voce s’intrecciava allo sciabordio dell’acqua corrente. Era nervosa e stanca, i capelli raccolti in modo maldestro con lunghi fermagli di legno, addosso il solito abito sciatto, quello per la casa, che mette in luce le sue gambe lunghe e spesse, segnate dalla ragnatela dei capillari rotti: un vestito che sembra precisamente l’armatura dei suoi giorni incazzati.

    Bastardo, sussurrava a denti stretti. Questa me la paghi, ripeteva, attenta a non farsene accorgere. Ma io lo so che sbollentava non tanto per la mia causa e per quello che ci sta combinando, legittimamente, il mio socio Sergio, quanto per i suoi strascichi di cedimenti morali e per quelle tardive quanto inutili afflizioni. Un tempo - quando gli affari andavano bene e le vacanze si facevano insieme con la famiglia di Sergio nei posti più alla moda e costosi del mondo -, mia moglie, in preda a una tremenda confusione, mise a repentaglio persino il nostro matrimonio, cedendo, nella follia di una notte, alla sfacciataggine di Sergio. Il fatto che ancora oggi lei conservi sentimenti di attrazione, rancore e paura nei confronti di un uomo che ha in sé il seme della grandezza e che è capace, con la sua destrezza, di mettere in soggezione chiunque, non aggiunge niente di nuovo a cose che conosco dalla notte dei tempi, e non destabilizza di un pelo la mia lucidità nel levarmi, una volta per sempre, questo stronzo dai piedi.

    Perché se lei pensa che io non sia in grado di prendere in mano la mia vita si sbaglia di grosso. Di certo non mi vedrà mai sotto le lenzuola in pieno giorno, con le pasticche sul comodino e le tapparelle abbassate. Di certo non mi vedrà ciondolare, con la sigaretta spenta in bocca, sui marciapiedi del paese, confuso e inappetente. Proprio stamattina Sergio mi ha fatto trovare la mia lettera di dimissioni in bianco sulla scrivania e lui si è allontanato con una scusa verso il bar, preoccupandosi di farmi dire dalla segretaria che al mio cospetto non avrebbe retto il peso della vergogna.

    «Non ha lasciato detto altro?» Ho chiesto dopo un attimo di smarrimento, impalato alla sedia per la rabbia e la delusione.

    «Il dottore si è premurato di offrirle una proposta…", ha risposto lei con un tono glaciale mentre brancicava carte e ticchettava sulla tastiera del computer.

    «Sarebbe a dire?»

    «La totale rilevazione dell’azienda», ha detto lei, senza metterci nerbo nella voce, e senza levare la testa dallo schermo. Come se anche lei sapesse che si trattava di una enorme cazzata.

    Federica ha precisi gli anni della mia azienda, ed è cresciuta parecchio in fretta. I seni evidenti e l’orlo degli slip sempre fuori dai jeans mi agitano non poco. Stamattina, vedendola correre fuori dal giardino di casa, ho pensato con rammarico di non averla tenuta in braccio, da piccola, lo stesso tempo di mia moglie. Quando esce è sempre scostante e altera, i nostri

    sguardi collidono, e ha di me l’immagine distorta che ha con tribuito a crearle sua madre in tutti questi anni di disamore. Questa roba mi brucia. Se mia figlia mi avesse conosciuto a Torino, ai tempi dell’università, si sarebbe come minimo infatuata di me, e io avrei coltivato questo gioiellino con premura e fierezza. Mi consideravo già allora un modello edificante: libri, teatro, musica giusta, dibattiti politici. Col tempo, queste passioni non sono affatto svanite, bensì le conoscenze si sono rimpicciolite, diventando scarsamente funzionali. Certe sere non so risolvere nemmeno un algoritmo di terza media, e lei mi guarda urtata con quei suoi occhioni uguali a quelli della mamma, con quel sorriso maturo e freddo che inquieta e capisco benissimo che potrei fare i salti mortali o inventarmi qualsiasi scemenza senza riuscire però a recuperare terreno.

    Ho provato a dire a mia moglie che l’azienda è fallita anche per colpa mia, che abbiamo giocato di rimessa in tempi di crisi e cinesi, che non ci siamo saputi vendere pensando più al fatturato invece che a strategie di innovazione, che era nei patti che Sergio liquidasse la mia parte e mi accomodasse all’uscita, che lui – lei lo dimentica sempre – ha i due terzi del capitale e non a caso si chiama socio di maggioranza. Ho provato a spiegarglielo, con un mezzo sorriso di disagio ogni volta, mostrando prontamente tutto il mio ottimismo nel dire che ce la saremmo cavata, che avrei saputo inventarmi subito qualcos’altro, che stavo facendomi approntare dal commercialista un piano di ammortamento per un autolavaggio.

    «Tu, a quell’arrogante, hai da rinfacciargli mille ragioni! A cominciare dalla tua puntualità, dalla serietà, dall’attaccamento al lavoro, dalla precisione… Quando avete investito in Romania, ad esempio, di chi è stata l’idea? Non può adesso trattarti così…» Ha detto inferocita, chiusa in un grumo irrisolto di dolore e acidità, come se volesse stimolarmi ancora quel vecchio desiderio di competere.

    «Non posso farci più niente. Siamo in mano al liquidatore e agli avvocati…». L’ho guardata con un filo di passione che ancora tarda a scomparire. L’ultimo scampolo d’affetto che mi lega ancora a questa donna e a questa casa. Al progetto di una vita. Ho tentato di abbracciarla, per uno scatto di dignità, per tentare di scacciare quei meschini dettagli di un passato ancora ingombro. Ma il suo corpo esile mi sfuggiva. Ho tentato di ammorbidire con una stentata carezza la sua faccia offesa, le sue labbra forzate, le gote ispessite. Ma quel

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