Ceneri ardenti
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Anteprima del libro
Ceneri ardenti - Kenjiro Tokutomi
idrovolante edizioni
sedici raggi
Ceneri ardenti
Kenjirō Tokutomi
© Idrovolante Edizioni, 2017
Tutti i diritti riservati
Direttore editoriale: Roberto Alfatti Appetiti
Responsabile attività editoriali: Daniele Dell’Orco
Progetto grafico: Alberto Malossi
2a edizione - aprile 2019
In copertina: Eishosai Choki
Beauty and Red Sunrise Uta
kenjirō tokutomi
Ceneri ardenti
idrovolante edizioni
Saggio introduttivo
Il dovere al di sopra di se stessi
Del rigoroso, inaccessibile, impenetrabile Giappone c’è forse un aspetto che più di tutti gli altri non sarà mai del tutto comprensibile da un forestiero: il rapporto con la propria storia.
Eppure, in linea teorica, il ragionamento sarebbe semplice: vivere il presente senza accettare il proprio passato equivale a costruire grattacieli senza fondamenta. Nell’Occidente moderno, però, la sfida principale sembra essere non tanto quella di rinnegare, quanto piuttosto di rimuovere totalmente qualsiasi traccia della propria storia. Evitare un riferimento significa minimizzare il rischio che, quali che siano i connotati persino del più recente percorso evolutivo, si possa tornare a concepire un futuro diverso da quello che il presente impone. Se non v’è altro da poter considerare, non vi sarà mai nulla da stravolgere. Nulla da rivoluzionare.
Il capolavoro del mondo moderno sta dunque nel riuscire a rimuovere le identità nazionali, sociali e culturali senza che ci sia qualcuno che lo imponga. Sono gli uomini stessi che, imbambolati da una presunta autodeterminazione, picconano il proprio essere senza alcun riguardo.
Senza alcuna esitazione.
Conoscere se stessi è il modo migliore per non essere manipolati. Annullare se stessi è viceversa la via più rapida verso il nichilismo.
A Tokyo, nel verde del parco cittadino di Ueno, spicca una statua imponente che ritrae un omone paffuto in abiti popolari con un cane da caccia al guinzaglio. Il volto è disteso, sereno, anche se la mano sinistra è ferma a imbracciare la katana appesa alla cintura. Non sembra affatto un daimyō dell’epoca feudale, né un nobile di qualsiasi rango. Parrebbe piuttosto un vagabondo.
E invece, è uno dei guerrieri più valorosi nella storia del Giappone: Saigō Takamori, l’ultimo samurai.
A rendere unica la storia di Saigō Takamori è un aspetto che in Occidente nessuno si sognerebbe mai di celebrare: la più totale e spettacolare sconfitta.
Takamori nacque durante lo shogunato di Ieyasu Tokugawa, il cui progenitore, Tokugawa Iemitsu, chiuse il Giappone alle influenze esterne nel lontano 1635.
Iemitsu temeva che l’influenza degli occidentali, e dei loro ideali, avrebbe sconvolto la pace per cui tanto aveva lottato durante la sua vita, con il rischio di far scivolare di nuovo il Paese in un altro secolo di sanguinose guerre.
Il periodo durato oltre due secoli che va sotto il nome di Sakoku, allora, sarebbe dovuto essere nella mente dei Tokugawa un lasso di tempo in cui il Giappone sarebbe dovuto bastare a se stesso. Quello giapponese rimase allora per secoli un popolo dal carattere primitivo
, patriarcale e medievale, quindi rude, diffidente, incline all’obbedienza verso i propri capi, attaccato alle proprie terre e ai propri costumi, superstizioso, guerriero, più portato a credere nell’efficacia brutale della forza che nel valore della trattativa. Infine, dotato di uno straordinario senso interno di solidarietà familiare e nazionale.
Molta della cultura dei samurai fiorì allora proprio durante questo periodo. Finché, l’incursione nella baia di Edo (l’odierna Tokyo) del commodoro Matthew Perry non costrinse il Paese del Sol Levante ad una forzata apertura, sotto la minaccia delle potenti cannoniere americane.
Un atto che diede il via alla caduta dello shogunato e all’inizio della famosa Restaurazione Meiji.
In questo, contesto, Saigō Takamori, che veniva dal dominio di Satsuma nell’isola meridionale di Kyūshū, iniziò la sua carriera nell’amministrazione del dominio locale. La sua prima fortuna fu quella di legarsi a un feudatario che cominciò a servirsi di lui per missioni diplomatiche nella lontana capitale del regno. I samurai di Satsuma erano molto più abbondanti rispetto a quelli presenti nelle aree più ricche ed erano i più abili nelle arti marziali e i più preparati al valor militare. Da giovane, Takamori venne inviato a Edo per affiancare Shimazu Nariakira, il daimyō di Satsuma in una spedizione per riconciliarsi con lo shogunato.
Al momento dello sbarco del commodoro Perry Nariakira fu una delle voci più forti a sostenere una vigorosa difesa del Giappone contro gli invasori occidentali. Egli propose che tutti i diritti dei vari clan al governo venissero rafforzati, in modo che potessero stare insieme ed essere più forti. Nariakira, vedendo nel suo giovane allievo una promessa militare, promosse Takamori come suo secondo per attuare i suoi piani militari. Ma con la capitolazione del governo, questi piani andarono in fumo.
Da possibile leader della resistenza, Takamori passò ad essere un esiliato. Non era un sostenitore dello shogunato e la sua famiglia aveva combattuto strenuamente contro di