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Il domani dello sviluppo
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E-book299 pagine3 ore

Il domani dello sviluppo

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Al concetto di sviluppo se ne associano molti altri, spesso confondendoli, come: crescita, benessere, qualità della vita, evoluzione, miglioramento continuo. L’autore ci invita a riflettere sui riduzionismi che applichiamo a queste nozioni, specie nelle risposte date per affrontare il complesso contesto contemporaneo, segnato dai venti della crisi. Si indaga sui problemi di un ostentato “crescismo”, che vede nell’irriflessiva rincorsa all’incremento la panacea macroeconomica a tutti i mali. Un approccio cieco sull’inevitabilità dei limiti (sociali ed ecologici) intrinseci in ogni modello di sviluppo. Alla diagnosi di stringenti problemi l’autore contrappone una breve overview sulle possibili soluzioni, terreno fertile per immaginare cambiamenti che richiedono un enorme sforzo culturale, di cui è opportuno parlare per costruire consapevolezza e fare il domani.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2019
ISBN9788831609777
Il domani dello sviluppo

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    Anteprima del libro

    Il domani dello sviluppo - Fabio Luffarelli

    Bre­cht)

    DIGRESSIONI INIZIALI

    lo sta­to di pro­gres­so è in real­tà lo sta­to fe­li­ce e sa­no di tut­ti i di­ver­si or­di­ni del­la so­cie­tà

    (Smi­th, 1776)

    Il mas­si­mo del­la ci­vil­tà non sta nel pos­se­de­re, nell’ac­cu­mu­la­re sem­pre di più, ma nel ri­dur­re e li­mi­ta­re i pro­pri bi­so­gni

    (Gan­d­hi)

    Le ge­ne­ra­zio­ni fu­tu­re do­vran­no ve­ro­si­mil­men­te por­si que­ste do­man­de: A co­sa pen­sa­va­no i no­stri ge­ni­to­ri? Per­ché non si so­no sve­glia­ti quan­do po­te­va­no an­co­ra far­lo?" Que­ste do­man­de che i no­stri fi­gli ci fa­ran­no, è ades­so che dob­bia­mo ascol­tar­le"

    (Al Go­re, 2006, dal film Una sco­mo­da ve­ri­tà)

    Stret­ti tra due mo­del­li di­ver­si, di cui uno ha pre­so il so­prav­ven­to e di cui og­gi sia­mo i mas­si­mi ere­di: quel­lo smi­thia­no, fi­glio del pro­gres­si­smo, del po­si­ti­vi­smo, dell’an­tro­po­cen­tri­smo scien­ti­sta e il­lu­mi­ni­sta. Su di es­so vi­via­mo gli agi e le co­mo­di­tà con­tem­po­ra­nee, ma quan­to pos­sia­mo di­re di vi­ver­ne le spe­ran­ze fu­tu­re che ci de­li­nea? Ab­bia­mo da più par­ti (dall’eco­lo­gi­co, al so­cia­le, all’eco­no­mi­co) se­gna­li di rot­tu­ra e in­sta­bi­li­tà, ca­pa­ci di istil­la­re mi­nac­ce a ciò che in quel pro­gres­si­smo vie­ne con­si­de­ra­to co­me scon­ta­to, na­tu­ra­le, quin­di giu­sto. Ma se an­che si trat­tas­se di un mo­del­lo che fi­no ad og­gi ha fun­zio­na­to, può es­so pro­spet­tar­ci con­ti­nui­tà? Ec­co, è su que­st’ul­ti­mo pun­to che le aspet­ta­ti­ve va­cil­la­no.

    Qua­le do­ma­ni au­gu­rar­ci se en­tram­bi i mo­del­li del­le pri­me due ci­ta­zio­ni ci par­la­no, in mo­di op­po­sti, di svi­lup­po? Po­sti ne­gli enig­mi tra le glo­rie (e i pe­san­ti la­sci­ti) del pas­sa­to e le in­cer­tez­ze sul fu­tu­ro do­vrem­mo in­ter­ro­gar­ci, ades­so, su del­le sco­mo­de ve­ri­tà (ma­ga­ri fos­se so­lo una).

    INTRODUZIONE ALL’INTRODUCIBILE

    Ab­bia­mo ot­te­nu­to tut­to, ma la mia im­pres­sio­ne è che quel­lo che ab­bia­mo ot­te­nu­to è una pa­ro­dia di quel­lo che ave­va­mo so­gna­to.

    (Kr­zysz­tof Kieś­lo­w­ski)

    Pro­ba­bil­men­te il ti­to­lo di que­sto li­bro ap­pa­ri­rà po­co chia­ro, prin­ci­pal­men­te per­ché non è im­me­dia­to pen­sa­re a ciò che vuo­le di­re la pa­ro­la svi­lup­po. Svi­lup­po di co­sa? Di qua­le svi­lup­po stia­mo par­lan­do? Non so­lo, ri­flet­ten­do­ci un po’, par­lan­do del do­ma­ni del­lo svi­lup­po, sem­bra qua­si di get­tar­si nel­la fan­ta­scien­za, un po’ co­me di­re il do­ma­ni del fu­tu­ro.

    Lo svi­lup­po, nell’ac­ce­zio­ne più ge­ne­ra­li­sta e co­mu­ne che pos­sia­mo ri­scon­tra­re, è un pas­sag­gio qua­li­ta­ti­vo che un si­ste­ma com­pie in ter­mi­ni evo­lu­ti­vi: un mi­glio­ra­men­to. In am­bi­to so­cioe­co­no­mi­co la pa­ro­la cre­sci­ta aiu­ta a de­fi­nir­si e a de­fi­ni­re lo svi­lup­po. Se que­st’ul­ti­mo de­si­gna un mi­glio­ra­men­to si­ste­mi­co e strut­tu­ra­le di un pro­ces­so, piut­to­sto che di un si­ste­ma, la cre­sci­ta è il più sem­pli­ce in­gran­dir­si di un in­sie­me o, ap­pun­to, l’in­cre­men­tar­si di un pro­dot­to le­ga­to a un pro­ces­so. La qua­li­tà e la quan­ti­tà de­fi­ni­sco­no co­sì le pro­prie­tà di cui vi­vo­no gli in­te­ri si­ste­mi. In un con­te­sto so­cioe­co­no­mi­co (quin­di né so­lo so­cia­le, né so­lo eco­no­mi­co) svi­lup­po e cre­sci­ta spes­so van­no di pa­ri pas­so, per cui non pos­sia­mo as­si­ste­re a mi­glio­ra­men­ti di pro­ces­si fi­no a quan­do i pro­ces­si stes­si non so­no cre­sciu­ti in ter­mi­ni quan­ti­ta­ti­vi; vi­ce­ver­sa, cam­bia­re le lo­gi­che di svi­lup­po si­gni­fi­ca im­pat­ta­re sul­le gran­dez­ze di cre­sci­ta.

    Ho qui pre­fe­ri­to uti­liz­za­re la pa­ro­la svi­lup­po, più che cre­sci­ta, per­ché per il sen­so co­mu­ne è un po’ co­me se que­sta no­zio­ne con­te­nes­se an­che l’al­tra. Ed è qui l’am­bi­va­len­za a cui si as­si­ste ri­flet­ten­do in mo­do in­cro­cia­to su que­ste pa­ro­le, per­ché pur es­sen­do di­stin­te ven­go­no uti­liz­za­te spes­so e vo­len­tie­ri co­me si­no­ni­mi. Non è da sot­to­va­lu­ta­re il sen­so co­mu­ne, so­prat­tut­to nel­la so­cie­tà dell’in­for­ma­zio­ne e dell’al­tret­tan­ta su­per­fi­cia­li­tà che si de­di­ca al­la sua at­ten­zio­ne (que­st’ul­ti­ma in­fat­ti è in­ver­sa­men­te pro­por­zio­na­le al­la quan­ti­tà del­la pri­ma). Al­lo­ra de­ve es­se­re l’ana­li­si cri­ti­ca del sen­so co­mu­ne a gui­dar­ci, per po­ter dia­gno­sti­ca­re ciò che ca­rat­te­riz­za la con­tem­po­ra­nei­tà.

    Svi­lup­po e cre­sci­ta quin­di so­no teo­ri­ca­men­te due pa­ro­le di­ver­se ma usa­te co­me si­no­ni­mi. Le cu­rio­si­tà non fi­ni­sco­no qui sul­la den­si­tà dei due ter­mi­ni, per­ché la pa­ro­la svi­lup­po, so­prat­tut­to a par­ti­re da­gli an­ni no­van­ta par­lan­do di in­di­ci al­ter­na­ti­vi al PIL, ha as­sun­to va­len­ze me­no eco­no­mi­che, ri­fe­ren­do­si più a istru­zio­ne, sa­ni­tà, di­rit­ti ci­vi­li e po­li­ti­ci. Tant’è che si è par­la­to di ISU (In­di­ce di svi­lup­po uma­no) nel pro­gram­ma del­le Na­zio­ni Uni­te per lo svi­lup­po (UNDP). Al­lo­ra, com’è pos­si­bi­le che una più re­cen­te in­ter­pre­ta­zio­ne del­la pa­ro­la svi­lup­po non si sia af­fer­ma­ta, tan­to, al con­tra­rio, da ele­var­si a sen­so co­mu­ne la sua si­no­ni­mia con la no­zio­ne di cre­sci­ta? For­se per­ché ci so­no vol­te (la mag­gior par­te) in cui è sem­pli­ce­men­te inu­ti­le fi­lo­so­fa­re sul­le dif­fe­ren­ze con­cet­tua­li di due ter­mi­ni af­fi­ni, da­to che ciò che con­ta è la cre­sci­ta eco­no­mi­ca in sen­so stret­to. Nei pi­la­stri dell’eco­no­mia clas­si­ca, quan­do tut­ti ini­zia­no a ven­de­re e com­pra­re fa­cen­do gi­ra­re (con la ma­no in­vi­si­bi­le smi­thia­na) l’in­te­ro pia­ne­ta del com­mer­cio, il si­ste­ma è lan­cia­to per non fer­mar­si. Al­tre vol­te in­ve­ce ca­pi­ta di as­si­ste­re al­le scon­fit­te del ca­pi­ta­li­smo or­to­dos­so, spe­cie se espor­ta­to nei pae­si del ter­zo mon­do, per cui si de­ve tro­va­re il mo­do di ag­gi­ra­re il pro­ble­ma, cam­bian­do l’in­ter­pre­ta­zio­ne di un con­cet­to che nel­le so­cie­tà avan­za­te non si vuo­le met­te­re in di­scus­sio­ne. In fon­do, è più fa­ci­le cam­bia­re il si­gni­fi­ca­to di un ter­mi­ne che por­ta­re a buon fi­ne le po­li­ti­che in­ter­na­zio­na­li di svi­lup­po. Que­sto suc­ces­se a ri­dos­so di quel­lo che, ap­pun­to, è sta­to de­fi­ni­to il de­cen­nio per­so del­lo svi­lup­po (an­ni ‘80), ov­ve­ro gli an­ni in cui ci si re­se con­to che pro­prio lì do­ve si sta­va cer­can­do di im­por­ta­re il pro­gres­so au­men­ta­va la po­ver­tà. Per­ché al­lo­ra non co­glie­re quell’op­por­tu­ni­tà per svin­co­lar­si dal ri­du­zio­ni­smo eco­no­mi­ci­sta e ri­de­fi­ni­re le po­li­ti­che eco­no­mi­che e di con­vi­ven­za tout court? Si­cu­ra­men­te non c’era in­te­res­se nel far­lo, vi­sto che pro­prio gra­zie al­la ca­du­ta del mu­ro di Ber­li­no e la fi­ne del­la guer­ra fred­da si sta­va as­si­sten­do a una pro­fon­da glo­ba­liz­za­zio­ne, con­vin­ti che il suo li­be­ri­smo avreb­be por­ta­to van­tag­gi per tut­ti (quel­li che con­ta­va­no).

    Og­gi che il si­ste­ma scric­chio­la mol­ti par­la­no di cri­si del ca­pi­ta­li­smo, al­tri di de­cre­sci­ta e di al­ter­na­ti­ve ra­di­ca­li pos­si­bi­li; è cu­rio­so poi no­ta­re che im­por­tan­ti ri­vi­ste eco­no­mi­che, co­me l’Eco­no­mi­st (si ve­da per esem­pio lo spe­cia­le sul nu­me­ro di ot­to­bre 2012), par­la­no ad­di­rit­tu­ra dell’esi­gen­za di rin­no­var­si at­tra­ver­so un True Pro­gres­si­vi­sm, a dan­no dell’ec­ces­si­va inu­gua­glian­za che si è ve­nu­ta a crea­re nei no­stri si­ste­mi, ca­pa­ce per­fi­no di pe­na­liz­za­re la cre­sci­ta. Il ra­gio­na­men­to è sem­pli­ce e, co­me al so­li­to, in­cen­tra­to sul­la cre­sci­ta (più che su una con­no­ta­zio­ne me­no ri­du­zio­ni­sta di svi­lup­po): l’inu­gua­glian­za, una del­le con­se­guen­ze pri­ma­rie del li­be­ri­smo eco­no­mi­co, ha pre­so tal­men­te il so­prav­ven­to da of­fu­sca­re le sue ma­ni­fe­sta­zio­ni po­si­ti­ve (co­me la me­ri­to­cra­zia) e an­zi da es­se­re un dan­no per la stes­sa cre­sci­ta, fat­ta or­mai di spe­cu­la­zio­ne e mo­no­po­li. La co­sa in­te­res­san­te da no­ta­re a ri­guar­do è che an­che quan­do si por­ta avan­ti una cri­ti­ca agli ec­ces­si dell’eco­no­mia con­tem­po­ra­nea, ciò che si sal­va è co­mun­que e sem­pre la cre­sci­ta, per cui si con­ti­nua a of­fri­re co­me so­lu­zio­ne pro­prio l’ideo­lo­gia che ci por­ta a par­la­re di cri­si. Il pro­ble­ma sul­la cre­sci­ta è in so­stan­za uno: quel­lo di pen­sa­re che cre­sce­re per­met­te di mi­glio­ra­re co­mun­que la no­stra con­di­zio­ne, di au­men­ta­re il be­nes­se­re, sen­za pe­rò chie­der­ci a che prez­zo e fi­no a che pun­to ciò ac­ca­de. Si pos­so­no so­ste­ne­re le bat­ta­glie più di­gni­to­se che ci so­no con­tro inu­gua­glian­ze e spe­cu­la­zio­ni, ma la cre­sci­ta è un pre­sup­po­sto re­li­gio­so che non può es­se­re mes­so in di­scus­sio­ne, su cui ruo­ta tut­to il si­ste­ma e gli in­ter­ven­ti che ven­go­no pre­si per sa­nar­ne le di­sfun­zio­ni. Al­lo­ra, do­po que­sto lun­go pre­am­bo­lo, ec­co sor­ge­re la ri­fles­sio­ne su do­ve ci stia por­tan­do que­sto cre­sci­smo, co­me es­so si re­la­zio­ni con il ge­mel­lo svi­lup­po. Nel sen­so co­mu­ne del­le opi­nio­ni si co­glie di cer­to (…ci man­che­reb­be) una sfu­ma­tu­ra tra la cre­sci­ta (le­ga­ta all’au­men­to del pro­dot­to, del PIL, in sen­so la­to dell’eco­no­mia) e lo svi­lup­po (le­ga­to a un mi­glio­ra­men­to del­la qua­li­tà del­la vi­ta e dei pro­ces­si); ma con l’ugua­glia­re la cre­sci­ta eco­no­mi­ca con lo svi­lup­po del­la so­cie­tà e de­gli sti­li di vi­ta, non si ri­schia di ge­ne­ra­re un mo­stro? At­tra­ver­so que­sta pro­gres­si­va ugua­glian­za non si ri­schia di per­de­re del­le op­por­tu­ni­tà di­ver­se di co­stru­zio­ne del so­cia­le?

    Ec­co, so­no af­fa­sci­na­to dall’im­pron­ta cul­tu­ra­le del­la que­stio­ne, dal fat­to che non è sem­pre esi­sti­ta que­st’ugua­glian­za, che è il se­gno di que­sti tem­pi. D’al­tra par­te è la mio­pia re­li­gio­sa a cui si as­si­ste in que­st’ugua­glian­za eco­no­mi­ci­sta (dog­ma cen­tra­le del cre­sci­smo) a spin­ge­re la cri­ti­ca del si­ste­ma. Al­di­là del­le cri­si eco­no­mi­co-fi­nan­zia­rie che van­no e ven­go­no, e che han­no cau­se mol­te­pli­ci (lun­gi in­fat­ti dal vo­ler ri­spon­de­re al ri­du­zio­ni­smo con al­tret­tan­to ri­du­zio­ni­smo), è l’ir­ra­zio­na­li­tà (o, che sia, il cie­co in­te­res­se di una o più lob­bies) tra­ve­sti­ta da scien­za a es­se­re po­co sop­por­ta­bi­le. Non so­lo, co­me a ogni re­li­gio­ne nel cor­so del­la sto­ria si le­ga una ri­cer­ca di sen­so, co­sì ai dog­mi con­tem­po­ra­nei si le­ga­no al­tret­tan­ti si­gni­fi­ca­ti esi­sten­zia­li, che mol­to spes­so tro­va­no nel la­vo­ro, quin­di nel­la sua ef­fi­cien­za pro­fit­te­vo­le, il cul­to e il per­no. Sen­za la­vo­ro non c’è cre­sci­ta, sen­za que­st’ul­ti­ma non c’è svi­lup­po; o vi­ce­ver­sa. Un te­leo­lo­gi­smo che si giu­sti­fi­ca in eter­no, uc­ci­den­do qual­sia­si pro­spet­ti­va di lun­go pe­rio­do che cer­chi d’im­ma­gi­na­re il do­ma­ni del­lo svi­lup­po. D’al­tra par­te il cre­sci­smo è so­cial­men­te le­git­ti­ma­to dal la­vo­ro; per­ché pen­sa­re ai li­mi­ti di un si­ste­ma quan­do que­sto ci per­met­te (og­gi) di man­te­ne­re il be­nes­se­re? Co­sì il pa­ra­dos­so si per­pe­tua: un ri­man­do in­fi­ni­to al­lo svi­lup­po (fu­tu­ro), sen­za ve­der­ne i li­mi­ti, per­ché si pen­sa il do­ma­ni co­me un eter­no og­gi, a cui ap­par­ten­go­no sem­pre le stes­se lo­gi­che…Ma, co­me fa un si­ste­ma di per sé in pe­ren­ne evo­lu­zio­ne, per­ché è evo­lu­zio­ne, quin­di mi­glio­ra­men­to di fron­te a se stes­so, a non cam­bia­re lun­go il suo cor­so re­go­le del gio­co, pre­sup­po­sti, lo­gi­che? Non ri­ve­de­re que­st’ul­ti­me è con­trad­di­re il ca­rat­te­re in iti­ne­re del sen­so svi­lup­pi­sta che si vuo­le da­re all’in­te­ro si­ste­ma.

    Vor­rei qui bre­ve­men­te sbro­glia­re ta­li pa­ra­dos­si, que­ste im­pas­se di di­na­mi­che e no­zio­ni che so­prat­tut­to og­gi in­ci­do­no co­sì tan­to sul­la vi­ta del­le per­so­ne. Ci so­no in­nu­me­re­vo­li mo­di di af­fron­ta­re la que­stio­ne sul­la cre­sci­ta, ma qui, al­di­là di ve­der­ne le pro­ble­ma­ti­che rea­li in ter­mi­ni de­mo­gra­fi­ci, am­bien­ta­li, eco­no­mi­ci e so­cia­li, mi in­te­res­sa più af­fron­ta­re la que­stio­ne in ter­mi­ni an­tro­po­lo­gi­ci, an­dan­do a in­ter­pre­ta­re il pro­ble­ma co­me cre­den­za, dan­do una ca­rat­te­riz­za­zio­ne del mi­to in­tan­gi­bi­le dei no­stri tem­pi. Pri­vi­le­gia­ta chia­ve di let­tu­ra del­la sto­ria re­cen­te ma so­prat­tut­to di ciò che sa­rà.

    PROBLEMI

    La cre­sci­ta, per il ca­pi­ta­li­smo, è una ne­ces­si­tà si­ste­mi­ca to­tal­men­te in­di­pen­den­te dal­la e in­dif­fe­ren­te al­la real­tà ma­te­ria­le di ciò che crea. Es­sa ri­spon­de ad un bi­so­gno del ca­pi­ta­le.

    (Gorz A., 2007)

    UNA SUPERIDEOLOGIA

    Vi so­no due tra­ge­die nel­la vi­ta. Una con­si­ste nel non ot­te­ne­re ciò che il vo­stro cuo­re de­si­de­ra. L’al­tra nell’ot­te­ner­lo

    (Shaw)

    Se il pro­gres­so cor­ri­spon­de a un mo­men­to, per ca­ri­tà de­si­de­ra­bi­le, ne­ces­sa­rio, del­le so­cie­tà uma­ne, non oc­cor­re di­men­ti­car­si che esi­ste an­che la fa­se dell’equi­li­brio. Equi­li­brio non vuol di­re ne­ces­sa­ria­men­te mi­glio­ra­men­to con­ti­nuo, ma­ga­ri es­se­re po­sti sem­pre in una si­tua­zio­ne sfi­dan­te per es­se­re sti­mo­la­ti; vuol di­re piut­to­sto sa­pe­re quan­do e quan­to spin­ger­si fi­no al li­mi­te, co­sì co­me ri­co­no­sce­re e ri­spet­ta­re i con­fi­ni. Ana­lo­ga­men­te, vin­ce­re non vuol di­re sem­pre con­se­gui­re l’obiet­ti­vo che ci si era po­sti ma an­che ca­pi­re quan­do è il mo­men­to di sa­per ri­nun­cia­re. In sen­so la­to mi­glio­ra­re non è det­to che sia sem­pre giu­sto e de­si­de­ra­bi­le, al­le vol­te è più im­por­tan­te fo­ca­liz­zar­si sul con­so­li­da­men­to, la sta­bi­li­tà (che com­por­ta si­cu­rez­za). A tal pro­po­si­to è in­te­res­san­te re­cu­pe­ra­re un po’ di quel­la cir­co­la­ri­tà a cui si ri­con­du­co­no so­prat­tut­to mol­te tra­di­zio­ni fi­lo­so­fi­che orien­ta­li, più che ri­dur­re i pro­ces­si a un co­stan­te evo­lu­zio­ni­smo li­nea­re frut­to po­si­ti­vi­sta del­la fi­lo­so­fia mo­der­na. Que­sta sag­gez­za non cre­de che su­pe­ra­re e su­pe­rar­si sia sem­pre buo­no e giu­sto, ben­sì è pron­ta per de­fi­ni­zio­ne a met­ter­si in di­scus­sio­ne e a va­lu­tar­si in ba­se al­la cir­co­stan­za. Que­ste con­di­zio­ni ser­vo­no da pre­mes­sa per tor­na­re ad ap­pro­priar­ci del­la no­zio­ne di li­mi­te, as­so­cia­ta non all’an­ti­te­si ne­ga­ti­va con svi­lup­po, cre­sci­ta, mi­glio­ra­men­to; piut­to­sto è par­te del­la stes­sa me­da­glia. Con­cre­ta­men­te ciò ci por­ta a ri­co­no­sce­re il pun­to di rot­tu­ra tra evo­lu­zio­ne (mi­glio­ra­men­to) e qua­li­tà del­la vi­ta; la di­re­zio­ne che dia­mo al­le co­se. Se vi è sta­ta una cer­ta de­ri­va ef­fi­cen­ti­sta è per­ché an­da­va a so­ste­gno del­lo spic­ca­to pro­dut­ti­vi­smo, na­to a sua vol­ta da un an­tro­po­cen­tri­smo te­so a vo­ler­si im­pos­ses­sa­re del­le co­se (la na­tu­ra, per esem­pio), piut­to­sto che va­glia­re an­che l’ipo­te­si di co­strui­re con es­se re­la­zio­ni di equi­li­brio. Ciò che ci de­ve gui­da­re, più che un ge­ne­ri­co (per­ché aprio­ri­sti­co) mi­glio­ra­men­to con­ti­nuo, do­vreb­be es­se­re: mi­glio­ra­men­to di co­sa? Per co­sa e chi? A qua­li con­di­zio­ni? Sen­za ta­li pre­ci­sa­zio­ni as­su­me­re co­me at­ti­tu­di­ne l’oriz­zon­te pe­ren­ne dell’ot­ti­miz­za­zio­ne può es­se­re pe­ri­co­lo­so, ol­tre che sen­za sen­so. In que­sto pa­no­ra­ma la for­mu­la toyo­ti­sta del Kai­zen ha so­lo da­to vo­ce a del­le ten­sio­ni pre­sen­ti ben pri­ma nel po­si­ti­vi­smo mo­der­no. Al­lo stes­so mo­do più re­cen­ti tor­men­to­ni co­me l’Em­po­wer­ment (che non a ca­so ha tro­va­to an­co­ra una vol­ta ter­re­no fer­ti­le nei con­te­sti or­ga­niz­za­ti­vi / la­vo­ra­ti­vi) ri­flet­to­no la me­de­si­ma ste­ri­li­tà con­cet­tua­le di ri­dur­re qual­sia­si tra­sfor­ma­zio­ne a una cre­sci­ta. Si ha la sen­sa­zio­ne che se non si lot­ta per que­sto eter­no obiet­ti­vo de­ca­de ogni ra­gio­ne di azio­ne. In ta­li ve­ne cir­co­la il cre­sci­smo. Ma la co­sa in­te­res­san­te è che que­st’ul­ti­mo è più di una clas­si­ca ideo­lo­gia, è una su­pe­ri­deo­lo­gia, pro­prio per­ché si trat­ta di un suo po­ten­zia­men­to (tan­to per ri­ma­ne­re su que­sti ter­mi­ni mi­glio­ran­ti). La ra­gio­ne è sem­pli­ce e de­ter­mi­nan­te ri­spet­to al­le clas­si­che ideo­lo­gie: cre­sce­re o svi­lup­par­si so­no vi­sti co­me un fe­no­me­no na­tu­ra­le nell’or­di­ne po­si­ti­vo del­le co­se. Al­le clas­si­che con­vin­zio­ni fi­dei­sti­che se ne ri­co­no­sce spes­so il ca­rat­te­re ar­ti­fi­cia­le, uma­no, per cui an­che nel­la mol­ti­tu­di­ne del sen­so co­mu­ne vi pos­so­no es­se­re pa­re­ri con­tra­stan­ti sul­la sua cor­ret­tez­za; ma quan­do si in­ne­sta la na­tu­ra­li­tà in cer­ti fe­no­me­ni si pen­sa che non può es­se­re al­tri­men­ti. L’ideo­lo­gia re­li­gio­sa è sor­ret­ta dal­la fe­de nel so­pran­na­tu­ra­le; all’ideo­lo­gia po­li­ti­ca fa da sfon­do il fa­na­ti­smo, l’in­dot­tri­na­men­to, non di ra­do la vio­len­za; la su­pe­ri­deo­lo­gia è an­co­ra più coer­ci­ti­va poi­ché è mol­to più sot­ti­le: si fa for­te del­la scien­za (tra­mu­ta­ta or­mai in tec­ni­ca), crean­do co­sì il le­ga­me di ov­vie­tà con la na­tu­ra. In que­sto mo­do il pa­ra­dig­ma che le­ga cre­sci­mo e tec­ni­ca, fon­den­do­li as­sie­me, li raf­for­za re­ci­pro­ca­men­te. Al­lo­ra, die­tro il su­per­ca­pi­ta­li­smo (si ve­da la dia­gno­si con­tem­po­ra­nea di Ro­bert Rei­ch) de­ve es­ser­ci, per l’ap­pun­to, una su­pe­ri­deo­lo­gia, ca­rat­te­riz­za­ta dal­la na­tu­ra­li­tà. Evo­lu­zio­ne e cre­sci­ta so­no due co­se da non con­fon­de­re. La no­zio­ne di svi­lup­po (co­sì co­me quel­la di mi­glio­ra­men­to) in­ve­ste en­tram­bi i con­cet­ti, nel pri­mo ca­so in qua­li­tà di ri­spo­sta a un con­te­sto mu­ta­to, nel se­con­do in qua­li­tà di un ri­du­zio­ni­smo ca­pa­ce di as­so­cia­re l’ac­cu­mu­lo di ric­chez­za con il be­nes­se­re. Se con­fu­tia­mo que­sti le­ga­mi aprio­ri­sti­ci cre­sce­re non vuol di­re ne­ces­sa­ria­men­te svi­lup­po, co­sì co­me mi­glio­ra­men­to, tan­to­me­no si trat­ta di un pro­ces­so evo­lu­ti­vo. L’ap­piat­ti­men­to cre­sci­sta con­si­ste pro­prio nel ri­con­dur­re tut­to, per­fi­no la na­tu­ra, a se stes­so.

    Co­me det­to, seb­be­ne la pro­pen­sio­ne na­tu­ra­le dell’es­se­re uma­no sia quel­la di vo­le­re e spe­ra­re in qual­sia­si mi­glio­ra­men­to (del­le po­si­ti­vi­tà), non va di­men­ti­ca­to che, co­me ri­cor­da­va Kant, die­tro al­la pro­mes­sa di fe­li­ci­tà che ac­com­pa­gna ogni de­si­de­rio, vi si na­scon­de quel­la del­la sua di­stru­zio­ne: "Da­te pu­re a uo­mo tut­to ciò che de­si­de­ra, ma ap­pe­na lo avrà sen­ti­rà che tut­to non è tut­to". L’uto­pia ci gui­da let­te­ral­men­te nel be­ne e nel ma­le. La spin­ta po­si­ti­va del non ave­re li­mi­ti ce­la la ten­sio­ne ne­ga­ti­va dell’in­fe­li­ci­tà, la con­dan­na all’in­sod­di­sfa­zio­ne per­ma­nen­te. È del tut­to na­tu­ra­le pen­sa­re a una so­cie­tà in co­stan­te mi­glio­ra­men­to ed es­ser­ne al­tret­tan­to de­lu­si quan­do se ne par­la. La que­stio­ne pe­rò è di au­to­con­sa­pe­vo­lez­za e mi­su­re: ca­pi­re di vol­ta in vol­ta le aspet­ta­ti­ve che ci gui­da­no, co­sa in­ten­dia­mo per mi­glio­ra­men­to e co­me pos­sia­mo ge­stir­lo. Stu­dia­re un po’ me­glio le di­men­sio­ni del­la de­lu­sio­ne sot­te­sa al­le scel­te che fac­cia­mo ci per­met­te non di evi­tar­la ma di es­se­re più con­sa­pe­vo­li. D’al­tra par­te se ciò ac­ca­de per il sin­go­lo va­le an­che per le so­cie­tà, lì do­ve la fe­li­ci­tà è stret­ta­men­te con­nes­sa al­le aspet­ta­ti­ve, è sem­pre be­ne sa­per mi­su­ra­re que­ste ul­ti­me per sal­va­guar­da­re la pri­ma:

    Il mon­do che sto ten­tan­do di in­da­ga­re in que­sto sag­gio è quel­lo in cui gli in­di­vi­dui pen­sa­no di de­si­de­ra­re una co­sa, ma poi, non ap­pe­na l’han­no ot­te­nu­ta, sco­pro­no con co­ster­na­zio­ne di non de­si­de­rar­la af­fat­to quan­to pen­sa­va­no o di non de­si­de­rar­la per nul­la, e che ciò che ora de­si­de­ra­no real­men­te è qual­cos’al­tro, qual­co­sa di cui in pre­ce­den­za era­no ben po­co co­scien­ti. Noi non agia­mo mai in re­la­zio­ne ad un’am­pia ge­rar­chia di de­si­de­ri sta­bi­li­ta da qual­che psi­co­lo­go in­ten­to ad esa­mi­na­re i mol­te­pli­ci obiet­ti­vi o bi­so­gni dell’uma­ni­tà, ma in­ve­ce, in ogni mo­men­to del­la no­stra esi­sten­za rea­le – e que­sto è spes­so ve­ro an­che per le so­cie­tà in­te­re – per­se­guia­mo al­cu­ni obiet­ti­vi che poi so­sti­tuia­mo con al­tri. (Hir­schmn, Al­bert O., 1983, p. 39)

    Eb­be­ne, ec­co i de­si­de­ri mo­der­ni: cre­sce­re per svi­lup­par­si, mi­glio­ra­re e pro­gre­di­re, so­no tut­ti au­to­ma­ti­smi con­cet­tua­li e no­zio­ni che as­so­cia­mo ge­ne­ral­men­te al­le co­se sen­za dar­vi una rea­le di­re­zio­ne, a par­te il fat­to di vi­ve­re il tut­to co­me del­le co­se buo­ne e giu­ste in ogni ca­so, poi­ché que­ste co­sti­tui­sco­no ge­ne­ri­ca­men­te la di­re­zio­ne da se­gui­re. A par­ti­re da que­sti pre­sup­po­sti l’af­fer­mar­si dell’uo­mo non può e non de­ve co­no­sce­re li­mi­ti, poi­ché egli si è or­mai svin­co­la­to dal­la sog­ge­zio­ne dell’am­bien­te. Una vol­ta con­trol­la­to e do­mi­na­to a pro­prio pia­ci­men­to que­st’ul­ti­mo tut­to è pos­si­bi­le, in ogni cam­po del sa­pe­re e del fa­re. Ta­le an­tro­po­cen­tri­smo, che ha i suoi al­bo­ri in Car­te­sio, è la giu­sta con­di­zio­ne per la na­sci­ta e il pro­spe­ra­re dell’in­te­res­se eco­no­mi­co, il pri­mo per de­fi­ni­zio­ne a non tro­va­re li­mi­ti. Si get­ta­no in que­sto mo­do le ba­si del­la scien­za mo­der­na, ap­por­tan­do di fat­to un no­te­vo­le pas­so in avan­ti nel si­ste­ma di pen­sie­ro. Tut­ta­via, nel di­rom­pen­te fiu­me del­le idee po­si­ti­ve, si na­scon­do­no dei ger­mi cre­sci­sti che sa­ran­no de­sti­na­ti a tro­va­re ter­re­no fer­ti­le. Sia­mo pe­rò si­cu­ri che ciò che fi­no a po­co tem­po fa ci ha gui­da­to ver­so un con­cre­to be­nes­se­re e fe­li­ci idee di fu­tu­ro, non pos­sa es­se­re la stes­sa co­sa che mi­nac­cia ciò in cui spe­ria­mo? Oc­cor­re al­lo­ra in­da­ga­re qua­le idea di fu­tu­ro ci gui­da, at­tra­ver­so un ri­tor­no al­la sto­ria del­le idee.

    FUTURI FRAINTESI

    Og­gi pos­sia­mo tran­quil­la­men­te di­re che gli eco­no­mi­sti clas­si­ci del XIX se­co­lo sba­glia­ro­no le lo­ro pro­fe­zie in me­ri­to ai pro­fon­di mu­ta­men­ti che sta­va­no os­ser­van­do nel­la na­scen­te so­cie­tà in­du­stria­le. Per pri­mo non può che ve­nir­ci in men­te Mal­thus e le pre­oc­cu­pa­zio­ni le­ga­te all’in­cre­men­to del fat­to­re de­mo­gra­fi­co, il qua­le sa­reb­be sta­to la cau­sa di dif­fu­se ca­re­stie, vi­sta l’in­ca­pa­ci­tà di so­ste­ne­re la pro­du­zio­ne per un fab­bi­so­gno sem­pre più gran­de. L’uni­ca al­ter­na­ti­va al ri­schio so­vrap­po­po­la­zio­ne di­ven­ta il con­trol­lo del­la na­ta­li­tà. Co­sa di­reb­be og­gi Mal­thus ve­den­do il nu­me­ro de­gli abi­tan­ti pre­sen­ti sul pia­ne­ta? An­zi, co­sa di­reb­be nel mo­men­to in cui, in al­cu­ne par­ti del mon­do, sia­mo per­fi­no ar­ri­va­ti a un ec­ces­so di ca­pa­ci­tà pro­dut­ti­va ri­spet­to al­la do­man­da? Che di­re poi di Ri­car­do, il qua­le un pa­io di de­cen­ni do­po il Sag­gio (1798) mal­thu­sia­no pub­bli­ca i Prin­ci­pi dell’eco­no­mia po­li­ti­ca e dell’im­po­sta (1817), in cui espri­me tut­ta la pau­ra a lun­go ter­mi­ne ri­guar­do al­la ren­di­ta fon­dia­ria e il prez­zo del­la ter­ra. Se­con­do que­sta vi­sio­ne la ter­ra sa­reb­be di­ven­ta­ta un be­ne sem­pre più ra­ro nel mo­men­to in cui, an­che qui, cre­sce la po­po­la­zio­ne e il pro­dot­to. Le di­ret­te con­se­guen­ze di ta­li fe­no­me­ni so­no una cre­scen­te di­su­gua­glian­za, in quan­to sa­rà sem­pre più va­sto il ri­cor­so a ter­re­ni me­no fer­ti­li con ren­di­te più bas­se, fa­cen­do au­men­ta­re la ren­di­ta dif­fe­ren­zia­le (la dif­fe­ren­za tra la ren­di­ta dei ter­re­ni più fer­ti­li e quel­la dei ter­re­ni me­no fer­ti­li). Non so­lo, il se­con­do fat­to­re di spe­re­qua­zio­ne è da­to dal­la "leg­ge fer­rea dei

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