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Economia. La lingua oscura: Indagine sulla comunicazione economica e finanziaria
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E-book255 pagine3 ore

Economia. La lingua oscura: Indagine sulla comunicazione economica e finanziaria

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È difficile a dirsi se la disinformazione, specie in economia, sia il fine d’una sorta di volontà deviante o l’esito inevitabile della negligenza intellettuale, che, come male endemico, affligge l’Italia digitale. Di certo, si tratta di un preciso rituale il cui linguaggio può essere scientificamente descritto. Nel periodo della pandemia, per esempio, a dispetto di ogni autorevolezza e qualità dell’informazione, alcuni quotidiani indicarono un calo del Pil del 9-10%, altri del 15-20 o, addirittura, del 30%, precipitando i lettori in una voragine kafkiana. Non c’è da meravigliarsi, dunque, che più di 11 milioni di italiani siano del tutto privi di conoscenze finanziarie. In questo lavoro l’autore analizza scrupolosamente blocchi, rimbalzi, ricorrenze e altri fenomeni linguistici mediante i quali l’economia diventa spesso fantasmagorica e, insieme, impenetrabile. Ne derivano ipotesi teoriche che possiamo accogliere e interpretare anche attraverso le figure di Socrate, Cicerone, Tolstoj, Musil, Heidegger e altri.

Una cosa è certa: la logica economica e, più in generale, l’economia di base dovrebbero diventare oggetto di riflessione e studio già nel triennio della scuola secondaria superiore.
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2024
ISBN9791254842867
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    Anteprima del libro

    Economia. La lingua oscura - Francesco Mercadante

    Capitolo 1

    Il sacrificio del capro

    Per quasi tutte le nostre scoperte siamo debitori alle nostre violenze, all’esacerbarsi del nostro equilibrio (…)Non c’è opera che non si ritorca contro l’autore: il poema annienterà il poeta, il sistema il filosofo, l’avvenimento l’uomo d’azione

    E. Cioran, La tentazione di esistere

    Oratoria, commercio e truffa

    Tra la fine del V e l’inizio del IV secolo, ad Atene, fiorì un singolare e assai redditizio commercio di testi giudiziari: singolare – si badi bene! – per noi, che interpretiamo i fatti con l’inevitabile distacco storico-sociale e con una mentalità estranea a quel modo di agire. Per i Greci dell’epoca, invece, si trattava di vera e propria consuetudine, sebbene non mancassero le controversie. Secondo quel modello giudiziario, infatti, il protagonista di un processo, che fosse imputato o denunciatore, aveva l’obbligo di produrre e, in seguito, pronunciare da sé l’orazione di difesa o d’accusa. In realtà, a leggere il prezioso contributo di Luciano Canfora sull’argomento, L’oratoria giudiziaria: cliente e consulente, tratto dalla sua Storia della letteratura greca [2001, pp. 376-382], sembra che gli Ateniesi non perdessero occasione per chiamare qualcuno in giudizio. Se ne ha una limpida testimonianza attraverso un frammento delle Vespe di Aristofane, in cui Schifacleone parla addirittura di seimila giudici, cifra, questa, che va commisurata a quella del numero dei cittadini, i quali non superavano le quarantamila unità [FLACELIÈRE, R., 1959].

    Ἀπὸ τούτου νυν κατάθες μισθὸν τοῖσι δικασταῖς ἐνιαυτοῦ, / ἓξ χιλιάσιν – κοὔπω πλείους ἐν τῇ χώρᾳ κατένασθεν: apò toùtou nyn katàthes misthòn tòisi dikastàis eniautoù, / hex chiliàsin – koùpo plèious en te chòra katènasthen [Togli il salario annuo per i seimila giudici – "non ce n’è di più nel nostro paese" (ARISTOFANE, Vespe, 661-662, in Commedie, a cura di G. Mastromarco, vol. I, 1997, UTET, Torino, pp. 498-499)].

    Si tenga conto del fatto che le centinaia di giurati che componevano i tribunali erano persone estratte a sorte e senza particolari competenze, le quali, pur avendo il privilegio di percepire una paga per il compito svolto, non disdegnavano di essere pagate sottobanco da una delle due parti in causa in cambio di favori processuali. Atene era anche piena di spioni, che, a pagamento, durante i processi, potevano fornire informazioni preziose per la buona riuscita del caso. Si trattava di informatori reclutati tra schiavi pronti a snocciolare piccoli e grandi segreti estorti in casa dei padroni, sicofanti, impiccioni di professione, calunniatori. In questo quadro caotico e indubbiamente insidioso, coloro che dovevano affrontare il giudizio non esitavano, almeno sulle prime, a ricorrere a dei professionisti dell’orazione, i cosiddetti logografi, i quali venivano pagati per scrivere un testo che diventava tanto più costoso, quanto più ampio, naturalmente, era il lavoro da svolgere. Il cliente medio, tuttavia, faceva di tutto per risparmiare, cosicché, a poco a poco, ne nacque un mercato torbido e ingovernabile. In primo luogo, il cliente stesso, prima di rivolgersi al logografo, tentava di preparare per lo meno un canovaccio oppure andava alla ricerca di discorsi tenutisi per cause simili. In secondo luogo, invece, cercava d’impratichirsi nella tecnica di composizione, con tutta l’approssimazione che ne derivava. A un certo punto, subentrò la figura del libraio, che si qualificò immediatamente come un eccellente e insuperabile truffatore. Egli, infatti, si procurava il maggior numero di copie possibile di discorsi già tenuti e non si faceva alcuno scrupolo a rivenderle sotto falso nome: in pratica, utilizzava il nome dei logografi più famosi per attirare acquirenti. Ne conseguì che si crearono collezioni spropositate e prive d’ogni requisito d’autenticità. Il caso più imbarazzante, come fa notare Canfora [2001, op. cit., p. 381], è quello di Lisia, al quale, dapprima, furono attribuiti 425 discorsi, in seguito, 34 e, da ultimo, si ritenne che solo uno di quelli pervenutici fosse autentico.

    Intermezzo digitale

    La formula, grezza ed elementare, che ricaviamo immediatamente dalla feconda e intricata attività giudiziaria ateniese è inequivocabilmente la seguente: l’impegno economico dei soggetti coinvolti è strettamente, direttamente e diabolicamente legato alla visibilità. Ogni sforzo, più comportamentale che intellettuale, a questo punto, dev’essere produttivo, quali che ne siano la natura e la qualità. Sia per i protagonisti del giudizio sia, soprattutto, per i librai, ciò che contava, di fatto, era la quantità. Occorreva, sì, raggiungere un verdetto di favore, ma occorreva farlo a qualsiasi condizione. L’epoca appena descritta e quella attuale, cioè quella digitale, sembrano avere dunque, un legame di grande prossimità, superiore a quello che d’istinto riusciremmo a concepire, a tal punto che l’accostamento, di primo acchito, potrebbe sembrare forzato. Eppure, non c’è funzione sociale, oggi, che non guadagni valore economico attraverso il numero dei like, delle condivisioni e di tutte quelle funzioni, applicate le quali, il risultato può dirsi accettabile solo sulla base della riproduzione e della ripetizione: la legge della quantità prevale su quella della qualità. Talora, chiedersi se un prodotto, qualcosa di ‘ripetuto’, sia autentico o meno diventa pure irrilevante, poiché l’eventuale falsificazione non viene più fatta rientrare nella categoria dei disvalori. Forse, non si può neppure istituire una dialettica tra valore e disvalore: se i numeri sono troppo alti, è impossibile. Il nostro primo obiettivo, pertanto, consiste nel tentare di capire in che modo ‘questa ripetizione’ entri a far parte del linguaggio.

    Quale che sia il grado di validità dei nostri atti linguistici, essi sono fondati quasi esclusivamente su una pretesa di efficacia dei significati. Ci rivolgiamo a qualcuno con la convinzione di dirgli qualcosa di sensato. Il parlante, in pratica, applica spontaneamente e inconsapevolmente il principio aristotelico di non contraddizione: «È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga, al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo» [ARISTOTELE, Metafisica, 1005b 19-20, a cura di G. Reale, 1993, Rusconi, Milano, pp. 144-145]. Se dico mi piace la pizza, non voglio che il mio interlocutore intenda anche non mi piace la pizza. L’interpretazione di questo processo sembra scontata, ma non lo è affatto, specie se cominciamo a considerare tutte quelle circostanze in cui gli stati d’animo – e, con essi, la fantasia, l’arbitrio, l’ignoranza et cetera – alterano il contenuto del messaggio. Insomma, il modello logico secondo cui la proposizione composta A e non-A [A ∧ (¬A)] è falsa è insufficiente a esprimere la realtà psicolinguistica. Si fa tanto più inadeguato quanto più ci addentriamo nella realtà economico-digitale, cioè in quella dimensione in cui, purtroppo, dire e contraddire sono atti utili all’informatore medio, il quale, al contrario, il più delle volte, non ha nemmeno coscienza del meccanismo di affermazione e negazione. Il fenomeno, tuttavia, fa parte della lingua e, in particolare, della lingua di quel dominio digitale che, con sempre rinnovata generosità, viene definito rivoluzionario, come se si trattasse d’un evento straordinario. Tale visione enfatica, dal nostro punto di vista, produce un’ermeneutica incongruente e ci conduce a sovrastimare lo stesso concetto di digitale.

    Noi ereditiamo l’aggettivo digitale da un aggettivo latino della seconda classe, dĭgĭtālis, che, a propria volta, deriva dal sostantivo dĭgĭtus, e, come leggiamo sui vocabolari, è ciò che è proprio del dito o fatto col dito. La sua pragmatica e l’ambito semantico in cui, in ultimo, si è sviluppato ed è tuttora ampiamente usato, però, sono prettamente inglesi: digit vuol dire cifra, è ‘un che di numerico’, qualcosa che può essere compreso solo nella misura in cui facciamo riferimento non già alla classica idea di numerazione o elencazione di numeri, bensì unicamente al concetto di codice o sistema. Ed è appena il caso di far notare che tale concetto potrebbe non bastare. Infatti, il codice – o il sistema – entro il quale il significato in questione diventa valido è quello binario basato sulle combinazioni di 0 e 1. Anche in quest’ultimo riesame, tra le altre cose, possiamo rilevare un limite interpretativo. Se la funzione binaria non si associa con quella oppositiva, ogni sforzo è vano. In sostanza, digitale è da intendersi sempre con valore oppositivo: le entità che esso rappresenta sono discrete, distinte, definite. Dunque, con le dita, noi componiamo numeri inconfondibili; la qual cosa c’indurrebbe a pensare a una paradigmatica limpidezza dei contenuti della rete. Non è e non può essere così. A partire dagli anni Sessanta, però, non a caso, nel tentativo di superare i limiti della tradizionale logica binaria, gli studiosi hanno cominciato ad avvalersi della Fuzzy Logic (Logica Sfumata), ovverosia di un criterio d’interpretazione delle proposizioni che consentisse un’estensione dei valori di verità: non più VERO o FALSO, ma infiniti valori o prodotti o valori polivalenti, secondo le proposte di Łukasiewicz, Gödel e Zadeh. Con un po’ di audacia, ci spingiamo oltre, non senza spirito di provocazione, e sosteniamo che lo stesso termine digitale, se si applicasse la logica digitale, ‘imploderebbe’, per così dire. Il sistema, da una parte, ammette VERO e FALSO come valori possibili, ma, dall’altra, non ammette che le proprie combinazioni non siano riconoscibili o si configurino come parziali. Ogni elemento dev’essere rigidamente riconosciuto come valido perché, in caso contrario, si determinerebbe un paradosso e la tenuta del sistema sarebbe inficiata.

    PIL kafkiano

    Nel paragrafo precedente, s’è usata l’espressione «paradigmatica limpidezza dei contenuti della rete», qualcosa di cui, talora, si è indotti a immaginare l’esistenza. Prim’ancora, s’era scritto della «pretesa di efficacia dei significati». Si è dimostrato che, in entrambi i casi, pur essendo animati da buona fede e altrettanto buoni propositi, molto probabilmente, non abbiamo la capacità di portare a compimento ora l’una ora l’altra delle due. Qui, ne riprendiamo e ne riproponiamo la materia affinché il metodo seguito finora sia chiaro in ognuno dei passaggi intermedi. In linea di massima, le parole rappresentano il nostro mondo, anche quando non ne siamo consapevoli. Ne facciamo un uso che, il più delle volte, descrive un bisogno, non solo e non sempre un bisogno primario, ma anche e, soprattutto, un bisogno di aggregazione e comunione: Aiuto!, Ho fame, Sto male denunciano una necessità inequivocabile e, per ciò stesso, il loro significato potrebbe essere considerato insostituibile o irrinunciabile. Ho visto un cane, Il tuo lavoro è utile, Domani, partirò per gli Stati Uniti, invece, sono frasi semplici delle quali, apparentemente, si potrebbe fare a meno. In ogni caso, sappiamo bene che il prevalere di alcune di esse sulle altre non esclude affatto l’inutilità; al contrario, la include a pieno titolo. I parlanti non sono programmati per dire cose interessanti e utili.

    Vien fatto di chiedersi, a questo punto, come si debbano classificare e dove si debbano collocare le frasi dell’economia e, in particolare, quelle che riguardano l’informazione economica. Sono utili, inutili, necessarie, sono ormai un semplice prodotto digitale oppure sono e devono essere ‘vendibili’?

    All’interrogazione indiretta e a quella diretta segue, giocoforza, un quesito: perché siamo quasi costretti a interrogarci sulla sorte degli enunciati di economia?

    In pieno periodo di pandemia, ‘qualcuno’, in preda all’esoterismo economico, forse tramortito da infauste divinazioni numerologiche, si provò a fare stime sul PIL che avrebbero fatto impallidire finanche un cabalista inveterato: in sostanza, ‘costui’, leggendo d’un calo del ‘quattro virgola qualcosa’ in un trimestre, pensò di poter moltiplicare questa cifra per il numero dei trimestri, così da ottenere una contrazione prossima al 20 per cento. Altri – non si sa con quale metodo – si spinse pure a denunciare una soglia di crollo pari al 30%, premurandosi tuttavia di offrire al lettore un’ampia oscillazione, non altrimenti che se fosse una sorta di garanzia personale. In alcuni mesi di convalescenza della produzione globale, l’equazione dell’identità contabile del reddito nazionale fu scomposta, reinventata e contraffatta tante di quelle volte che perfino le capacità del baumiano mago di Oz, a confronto, ne uscirebbero mortificate. Premettendo che nessuna fonte ufficiale ha mai fatto ipotesi così disastrose per il nostro Paese, non si può certo tacere che l’informazione è diventata parossistica. In parte, lo è sempre stata, per carità! L’enfasi che si può conferire a un titolo o a un brano è connaturata nella narrazione, in specie in quella dell’economia, come se la condivisione del dolore o della sventura generasse legami d’appartenenza. Si tratta di archetipi: la storia dell’umanità, per esempio, è attraversata dal concetto di olocausto; il sacrificio del capro e il sangue versato entrano di forza nel nostro linguaggio come metafore inconsce e inevitabili. Di conseguenza, la descrizione del peggioramento della crisi è un vero e proprio rituale, sebbene questo rituale, nella pratica, ‘dis-informi il fatto’: -8%, -9%, -15% e così via, fino all’estenuazione. A un decimale ne segue un altro e i media rivaleggiano più o meno consapevolmente. Il rischio, però, sta nell’indistinzione e fors’anche non già nel distanziamento irreversibile – sostantivo quanto mai pertinente – tra redattore e fruitore, come comunemente si crede, bensì, piuttosto, nella creazione di un’agenzia esterna e deviante dell’opinione socio-economica in seno alla stessa comunità dei lettori.

    Il dato sul Prodotto Interno Lordo, nonostante tutto, era netto: -9,1 per cento. La fonte era – e resta – universalmente nota: il World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale. D’obbligo, allora, ne riportiamo la tabella di riferimento.

    Latest World Economic Outlook Growth Projections

    Ogni documento in cui si parli del PIL, senza fare nello stesso tempo alcun riferimento a remunerazione di capitale e lavoro, fattori essenziali alla produzione aggregata, risulterà sempre incompleto. Non a caso, se consultiamo le note sull’andamento dell’economia italiana dell’ISTAT, non facciamo alcuna fatica a rilevare che i redattori parlano di indicatori congiunturali, commercio estero, tasso di occupazione, consumi et cetera, cioè di tutti quegli elementi senza i quali ogni valutazione del PIL appare ingiustificata. Secondo il nostro habitus linguistico, è più comodo parlare di stock che di flussi ed è più rassicurante dare numeri e definizioni che osservare le variazioni. Il PIL, tuttavia, resta una misura di un flusso di moneta, tra reddito e spesa. È evidente che un articolo non sempre può svilupparsi in profondità, sussistendo comprovate esigenze di spazi e rapidità; tant’è che non stiamo facendo una requisitoria contro chi si limita a fornirci un resoconto. La riflessione ci conduce altrove, ovverosia verso un piano d’interpretazione entro il quale si riconoscono tre e forse più economie: quella autentica dei flussi, quella narrata e mediata e quella percepita.

    Nel mese di aprile del 2020, fu approvato anche il Documento di Economia e Finanza, accompagnato sul sito del MEF dal salmo proto-responsoriale del ministro Gualtieri:

    I sacrifici che gli italiani stanno sostenendo sono elevatissimi, le perdite umane assai dolorose, l’impegno di finanza pubblica senza precedenti. Verranno sicuramente tempi migliori e l’Italia dovrà allora cogliere appieno le opportunità della ripresa mondiale con tutta la maturità, coesione, generosità e inventiva che ha mostrato in queste difficili settimane.

    Quadro macroeconomico tendenziale sintetico

    (variazioni percentuali, salvo ove non diversamente indicato)

    Quadro macroeconomico tendenziale sintetico (variazioni percentuali, salvo ove non diversamente indicato)

    Di là dalla postilla liturgico-omiletica, cui purtroppo fa sempre seguito il ritornello dell’assemblea, la tabella esemplificativa del DEF c’impose un’altra sentenza sulla contrazione del PIL: -8 per cento. Dunque, tra il World Economic Outlook e il nostro Documento di Economia e Finanza, la differenza era pari all’1,1%; non è mica poco. A seconda della fonte e del metodo utilizzato, il risultato può variare in modo significativo: è vero. Ma è lecito chiedersi: come dovrebbe comportarsi il lettore medio che sfoglia i giornali al solo scopo di saperne di più? Non si può certo pretendere che diventino tutti economisti, come, allo stesso modo, non si può abbandonare il cittadino alla kafkiana ricerca di un funzionario arcano lungo la strada per il castello.

    (…) Tutti han sentito parlare di lui, e dalle testimonianze, dalle dicerie e anche da certe intenzioni falsificatrici è venuta formandosi un’immagine di Klamm che nell’insieme dev’essere esatta, ma soltanto nell’insieme [KAFKA, F., 1935, Das Schloss, trad. it. di A. Rho, 1948, Il castello, Mondadori, Milano, p. 195].

    Il 21 aprile 2020, esattamente sette giorni dopo l’articolo dell’ANSA, Il Sole 24 Ore, che citiamo per onestà intellettuale, pubblicò un pezzo in cui il crollo del PIL fu espresso dalla locuzione preposizionale intorno a; il che ci rese per lo meno cauti.

    Perché dovrà ufficializzare un deficit verso l’8-10%, gonfiato da un crollo del Pil intorno all’8%, e un debito fra il 155 e il 160% (Goldman Sachs calcola 161%).

    Il motivo della cautela è presto detto: l’autore, probabilmente, faceva riferimento alle ipotesi di stima del DEF e lo faceva correttamente, ma il contesto macroeconomico si faceva sempre più criptico per l’osservatore, che cominciava a navigare a vista e verso un naufragio. Ribadiamo altresì che è ineccepibile l’uso di intorno a, per quanto possa farsi fatale il dubbio. L’economia si avvicina al confine della metafisica, per la quale Aristotele, già parecchi secoli fa, aveva scritto che «l’essere può dirsi in molti modi» [ARISTOTELE, Metafisica, 1003a, a cura di G. Reale, 1993, Rusconi, Milano, p. 131].

    Sempre il 21 aprile 2020, la nostra attenzione si fermava su un articolo di Repubblica in cui si annunciava un ribasso del PIL del 15% in sei mesi.

    Pil giù del 15% in sei mesi. Mancano 26 miliardi nelle entrate fiscali

    La fonte adottata e citata nell’articolo, ancora una volta, era autorevole: l’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Il disagio per chi tentava di capirne qualcosa, però, era più che kafkiano, andava molto oltre e non si sapeva neppure quale forma potesse assumere.

    Nell’insieme dei primi due trimestri dell’anno il PIL si ridurrebbe cumulativamente di circa quindici punti percentuali. Nell’ipotesi di un regresso dell’epidemia l’attività tornerebbe ad espandersi nel trimestre estivo. Tali stime risentono di un’incertezza estremamente elevata, quindi vanno interpretate con la massima cautela.

    Provando a riformulare: il medium in questione usava come fonte l’UPB per focalizzare l’attenzione sul 15%, ma scriveva «occhi puntati sul Documento di Economia e Finanza», che naturalmente produceva una stima sull’intera annualità e non sul semestre, come invece fa l’UPB. Se ora volessimo fare un ragionamento grossolano e volutamente inadeguato, potremmo dire: con un ribasso semestrale di quindici punti percentuali e uno annuale di otto punti, il secondo semestre del 2020 avrebbe dovuto essere quasi da boom economico. Sbagliamo? Certamente! Ma non stiamo facendo altro che esplorare il rapporto tra informazione e fruitore nell’ambito dell’economia percepita.

    Da ultimo, col 6 maggio 2020, giungiamo a un’altra differente stima del PIL, la quarta, per l’esattezza, in questo campionamento: -9,5 per cento. Ce la offriva Il Fatto Quotidiano.

    In Italia previsto crollo del 9,5%

    La fonte cui si faceva ricorso, questa volta, è la Commissione UE, che veniva citata fin dalla prima riga dell’articolo, a scanso di equivoci. Come metterne in dubbio la competenza? E come non immedesimarsi nello stesso tempo col lettore poco avvezzo

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