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Etica del rimorso
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E-book310 pagine4 ore

Etica del rimorso

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Info su questo ebook

Il rimorso non è senso di colpa tout court, ne rappresenta invece un particolare tipo di possibilità. Vorremmo liberarcene senza troppe conseguenze, rimuovendo il male provocato, dimenticandolo, neutralizzandolo dietro paraventi di alibi ma, nella nostra civiltà del benessere, può essere fortemente educativo proprio in virtù della sua spiacevolezza. Gli effetti di un rimorso non dovrebbero mai essere eliminati del tutto dalla vita di ognuno di noi, poiché servono alla realizzazione progressiva del senso morale: è su queste basi che si sviluppa Etica del rimorso, un saggio filosofico che non disdegna incursioni nella cultura pop. I grandi pensatori del passato, l’attualità, ricerche, indagini, reportage giornalistici ed esperienze di vita ma anche Fight Club e Caparezza perché, come sottolinea l’autore, per comprendere la natura umana e la nostra società spesso le canzoni e il cinema non sono meno utili delle corpose opere di sociologia e dei trattati filosofici che vanno per la maggiore.
Unendo alla riflessione teorica la volontà di divulgazione pratica, Etica del rimorso è un viaggio coraggioso alla scoperta delle tante sfaccettature di un’emozione che si preferirebbe evitare: “Per tutte le volte che sono stato indifferente, per tutte le volte che sono stato egoista, per tutte le volte che sono stato debole, per tutte le volte che ho tradito una fiducia, il rimorso di cui si parla è anche il mio rimorso”.
LinguaItaliano
Data di uscita17 lug 2020
ISBN9788869600999
Etica del rimorso

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    Anteprima del libro

    Etica del rimorso - Maurizio Canosa

    Maurizio Canosa

    Etica

    del Rimorso

    La rimozione del senso di colpa

    nella civiltà dei consumi

    www.altrimediaedizioni.com

    facebook.com/altrimediaedizioni

    instagram.com/altrimediaedizioni

    Titolo dell’opera:

    Etica del rimorso

    © 2020 Altrimedia Edizioni

    ISBN: 9788869600999

    © Altrimedia Edizioni è un marchio di

    Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria

    Prima edizione digitale: Luglio 2020

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    PREFAZIONE

    Ciascuno di noi

    è responsabile di tutto

    e di tutti, davanti a tutti

    e io più degli altri

    Fedor Dostoevskij

    Se si vuole sperare un giorno di diventare persone migliori del giorno prima, è anche contro se stessi che si deve rivolgere un po’ dello sdegno di cui si è capaci. Per questo i momenti di biasimo e di critica presenti in questo libro non possono non riguardare anche il suo autore. Per tutte le volte che sono stato indifferente, per tutte le volte che sono stato egoista, per tutte le volte che sono stato debole, per tutte le volte che ho tradito una fiducia, il rimorso di cui si parla è anche il mio rimorso.

    Dunque, coloro che avranno la pazienza di affrontare le pagine di questo saggio, si accorgeranno che è un lavoro forse edificante ma niente affatto consolatorio. L’approccio metodologico è stato piuttosto informale. Il che non ha significato, da parte mia, una riduzione di serietà e d’impegno nel realizzarlo. Sono d’accordo con chi pensa che per comprendere la natura umana e la nostra società spesso le canzoni e il cinema non siano meno utili delle corpose opere di sociologia e dei trattati filosofici che vanno per la maggiore. Per questo mi sono servito anche di strumenti di conoscenza che rimandano direttamente alla cultura pop. Del resto, per quel che mi riguarda, devo confessare che, molto prima di Kant, il mio maestro di morale è stato Zagor, eroe dei fumetti altruista e coraggioso (così come, lo confesso, il paperino di Karl Barks è stato colui che mi ha insegnato il valore dell’ozio improduttivo, prima e meglio dei vari Aristotele, Seneca, Lafargue).

    I riferimenti presi dalla stretta attualità, con l’aiuto di ricerche, indagini, reportage giornalistici ed esperienze di vita, ne fanno un volume che cerca di essere anche uno strumento didattico in grado di far luce, per quanto possibile, su alcuni pezzi di realtà dimenticati del mondo di oggi, unendo alla riflessione teorica la volontà di divulgazione pratica. D’altra parte, quel poco di aneddotica presente mi auguro possa renderne la lettura meno ostica ai non addetti ai lavori. Consapevole della scelta di un percorso rischioso, certo poco ortodosso per un libro che parli di etica, la mia ambizione è stata quella di rivolgere la parola filosofica soprattutto ai non troppo esperti, agli studenti impegnati e curiosi, ai dilettanti appassionati, ai lettori attenti ma non adulterati dallo specialismo critico.

    Spero mi perdoneranno i cultori della materia.

    INTRODUZIONE

    Fuori dalla fortezza

    (il filosofo, il santo, il rivoluzionario)

    Voglio essere superato

    Come una bianchina dalla super auto

    Come la cantina dal tuo superattico

    Come la mia rima quando fugge l’attimo

    Sono tutti in gara e rallento

    Fino a stare fuori dal tempo

    Superare il concetto stesso di superamento

    Mi fa stare bene

    Caparezza

    Il mantra della nostra frettolosa civiltà è descritto in una frase: Stare al passo coi tempi. Un motto che suona dappertutto come un imperativo stringente e indiscutibile. In base a questo comando la corsa al successo è cominciata da secoli e dimostra di non lasciare scampo ai fragili e agli incerti. Chi rifiuta di prender parte alla gara o chi non ce la fa resta indietro inesorabilmente, rischiando di ritrovarsi ai margini del sistema come uno scarto fastidioso, un arnese improduttivo, una rotella difettosa dell’ingranaggio. Ma forse è arrivato il momento di riflettere sulla natura di questi tempi cui bisognerebbe ricalcare il passo, e magari anche valutare come sia possibile adattarsi a un passo diverso, più consono alle possibilità di ognuno e, si potrebbe dire, più a misura di mondo. Perché non c’è dubbio che i tempi in cui stiamo vivendo non lo sono affatto e, quel che più conta, rischiano di condurci rapidamente verso un tragico punto di non ritorno, dove al disastro morale dovuto al secolare perpetuarsi delle diseguaglianze si aggiunge il rischio concreto di una catastrofe globale, certamente ancora mai vissuta dall’uomo dell’ultimo millennio.

    Quello della crisi della nostra civiltà è un tema antico e forse abusato. Già un secolo fa Oswald Spengler, ne parlò in un libro che diventò il bestseller dell’epoca, Il tramonto dell’Occidente. Qui, la questione delle diseguaglianze e dell’ingiustizia sociale, cara ai seguaci del materialismo storico di stampo marxista, era enfatizzata come uno dei fattori di decadenza, ma con una lettura opposta a quella tipicamente marxista. Infatti, proprio negli ideali egualitari portati avanti dai socialisti, Spengler individuava una delle cause della crisi. D’altro canto, si sottolineava con toni apocalittici il carattere ciclico delle civiltà e il contrasto tra la vitalità della Kultur e la decadente Zivilisation dei tempi moderni, ultima fase di una società in agonia per la perdita della sua vigoria spirituale e per l’esaltazione del culto del denaro e del progresso tecnico. Per Spengler e per la quasi totalità dei critici della civiltà occidentale (compresi quelli di ispirazione socialista) la decadenza va dunque di pari passo con la fase estrema dell’imborghesimento dei valori tipico di un modello di vita capitalistico.

    Se tuttavia è vero che fiacchezza morale, fragilità spirituale, volubilità dei valori, sono considerati da sempre sintomi di decadenza, effetti inevitabili e indesiderati di una crisi di civiltà, è altrettanto vero che oggi siamo giunti a un drammatico punto di svolta, ancor più concreto e tangibile, che non è possibile nascondere. Ce lo dicono gli esperti: un’altra faccia della realtà bussa alle nostre porte, quella più fisica, cruda e crudele. Progresso tecnologico, consumismo sfrenato, distruzione dell’ambiente, povertà mondiale, migrazioni bibliche, avvitate su se stesse in un folle cortocircuito, non rappresentano più solo argomenti da strampalati neoluddisti, radical-chic terzomondisti o ingenui cultori di madre-natura: sono le vere sfide che ci stanno di fronte e che, se non affrontate adeguatamente e in fretta, potrebbero aprire le porte a un nuovo, triste tramonto non solo dell’Occidente, ma dell’umanità intera.

    Il punto vero su cui riflettere è questo e non serve liquidare come estremistiche ed esagerate tali posizioni. Esse sono semplicemente il frutto di un quadro della nostra civiltà che via via si è andato tratteggiando nella storia e nella brutale attualità del presente e che questo saggio cerca di sintetizzare. Non è difficile capire che le responsabilità maggiori di questa drammatica crisi ormai plurisecolare ricadono sulle spalle della grande e ricca società dei consumi nata e prosperata in Occidente. È ormai chiaro che stiamo vivendo nettamente al di sopra delle possibilità di sostenibilità del pianeta e continuando su questo percorso non è azzardato prevedere il peggio. Del resto, se stiamo alla questione ambientale, una recente ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Nature, ci spiega che il punto di non ritorno probabilmente è già stato superato, cosicché la nostra martoriata Terra sembra avere oggi solo il 5% delle possibilità di rientrare nei 2 gradi di aumento della temperatura previsti come obiettivo per tentare di arginare la catastrofe ecologica.

    Nel frattempo, mentre nella parte del mondo economicamente più sviluppata molte delle preoccupazioni quotidiane sembrano gravitare attorno alla scelta dell’ultimo modello di smartphone, o alla dieta da adottare dopo gli stravizi da feste comandate, o al tipo di leasing per l’acquisto del SUV di ultima generazione, sono miliardi le persone che in vari continenti vivono con meno di 2,5 dollari al giorno, più di un miliardo non ha accesso all’acqua potabile, quasi 50.000 quelle che muoiono ogni giorno per effetto della povertà assoluta, dell’inquinamento e delle condizioni climatiche estreme. Sarebbe ovviamente folle chiedere a ogni uomo che vive nella civiltà del benessere di indossare il saio da penitente e rinunciare a tutto per puro spirito umanitario. Ma almeno è lecito aspettarsi un sussulto di responsabilità e un piccolo sforzo da parte di tutti, per ripensare i propri stili di vita limitando quella gigantesca forbice delle diseguaglianze tra Nord e Sud del mondo che pare essere tra le cause più gravi della crisi globale di questi anni. Una forbice che in fin dei conti proprio l’Occidente industrializzato da almeno tre secoli ha contribuito ad allargare attraverso un fondamentalismo consumista alimentato dalle spregiudicate politiche di sfruttamento di popoli e risorse in ogni angolo della terra.

    Tuttavia, se è vero che una parte importante del pianeta soffre ancora la povertà, occorre anche ricordare che nel corso degli ultimi decenni timidissimi segnali di ripresa si sono avvertiti: dal 1990 circa un miliardo di persone sono uscite dalla morsa della fame estrema (le economie in crescita di Cina e India sono state in questo senso trainanti), ma molto, troppo resta ancora da fare, se è vero che in Africa il numero di affamati sembra essere addirittura cresciuto, passando da 175 a 239 milioni. Anzi, i dati più recenti segnalano un aumento del livello di povertà assoluta nel mondo (oltre 815 milioni) invertendo una tendenza positiva durata circa un decennio. Le grandi ondate migratorie che stanno interessando il mondo intero ne sono la naturale conseguenza.

    Come reagire a questo scandaloso e tragico disastro, se non cominciando a intaccare il modello di sviluppo della moderna società dei consumi? Secondo ricerche effettuate dall’Università di Denver, nel 2030 le persone che si troverebbero a vivere in condizioni di povertà estrema potrebbero passare dal 17% al 4% della popolazione mondiale, se solo si mettessero in campo minime e adeguate strategie di contrasto alla povertà e ai cambiamenti climatici. Certo, sarebbe sufficiente molto meno dell’1% del PIL mondiale da investire per porre un argine consistente a tali problematiche solo apparentemente irrisolvibili. Invece, nel clima da fine impero di questi ultimi anni, alimentato da imprenditori della paura che strumentalizzano angosce e timori della gente comune per fini economici e politici, si ha il sospetto che un generale ripiegamento su se stessi possa provocare nella maggioranza l’atteggiamento più banale e nefasto: una difesa a oltranza del proprio cortile, accanita e armata. Un disperato regime da liberi tutti che legittimi ogni più brutale egoismo.

    Così, un’epoca oscura fatta di odio, intolleranza, forme inedite di controllo e nuovi sanguinosi conflitti si affaccia all’orizzonte, l’annuncio di un’emergenza umanitaria globale, che imporrà giocoforza delle scelte drastiche, dal momento che la nuova sfida da fronteggiare non sarà solo economica, ma culturale e sociale. Per questo occorre chiamare le cose col loro nome e cominciare, soprattutto dalle nostre parti, a modificare gradualmente mentalità, valori e stili di vita, prima di dover pagare d’un colpo un prezzo altissimo. È un’impresa più che ardua, non c’è dubbio, perché riguarda tutti: singoli cittadini e grandi comunità, persone comuni e istituzioni sovranazionali. Ma probabilmente è l’unica alternativa possibile. Ognuno di noi, nel suo piccolo, dovrebbe fermarsi a riflettere, cercare dentro di sé un salutare stato di crisi e decidersi a uscire dalla propria fortezza.

    Si parla così spesso di rivoluzione ai nostri giorni che il termine ha smarrito quasi del tutto il suo significato, ma una rivoluzione morale, fatta di piccoli passi e gesti solo inizialmente minimi, dovrà imporsi prima o poi dalla necessità delle cose. Una rivoluzione prima di tutto interiore, compiuta la quale, si spera, all’opulenza dovrà sostituirsi la misura (nella più autentica accezione greca), all’eccesso individualista la moderazione in chiave comunitaria, all’egoismo sfrenato l’altruistica gratuità, alla folle e impraticabile ideologia della crescita per la crescita, la sommessa e saggia filosofia della decrescita, capace di dare il giusto peso alle cose, soprattutto alle cose essenziali, vitali, veramente imprescindibili; una visione opposta a un mondo bulimico che inflaziona oggetti e valori nella generale cultura dello spreco.

    Significa questo voler ritornare a un impraticabile pauperismo di stampo preindustriale? Niente affatto, ma nell’epoca dell’inarrestabile progresso della superpotenza tecnologica, occorre fare almeno un po’ di attrito rispetto alla velocità imperante che rischia di travolgerci. Non si tratta dunque di mero ecumenismo, ma di spirito di sopravvivenza. Per quanto sembri paradossale, valori come generosità, sobrietà, etica del limite potranno essere i cardini attorno a cui legare e far crescere l’umanità del terzo millennio, le nostre vere ancore di salvezza per un nuovo modello benessere, che non rifiuti la modernità, ma sia in grado di amalgamarla ai veri bisogni e alle possibilità reali di tutti. Una pia illusione, secondo molti, una mera questione di autoconservazione della specie, secondo altri. In questo senso, potrà essere questo il secolo di una rigenerazione collettiva, da parte dell’Occidente industrializzato, in grado di far fronte a una emergenza inedita mondiale, ma solo a condizione, io credo, di operare un cambio radicale di prospettiva. Da qui, un graduale superamento di quei pregiudizi che rappresentano, da secoli, la vera gabbia d’acciaio delle nostre coscienze intorpidite dall’utilitarismo edonista: primi fra tutti, il credere che il senso di colpa sia una specie di malattia da debellare e che la felicità sia unicamente connessa al piacere, all’egoismo e alla ricchezza materiale.

    Nella odierna società consumistica, il senso di colpa viene continuamente rimosso, nascosto, contraffatto. L’ideologia del piacere, spesso associata al forsennato accumulo di cose, ci impone di non affrontare la parte più dura del reale ma di nascondere, per così dire, la polvere sotto il tappeto. È attraverso i meccanismi psicologici del distanziamento e della oggettivazione che ci si illude di mantenerci in sicurezza rispetto a responsabilità di cui dovremmo prenderci carico. Il processo di oggettivazione, tipico di una società a forte impatto mediatico come quella in cui viviamo, consente di fare esperienza dei mondi di relazione percependo in modo astratto le persone, in un certo senso cosificandole attraverso il filtro di schermi tv, computer e applicazioni hi-tech in grado di stimolare una socializzazione puramente digitale. Il processo di distanziamento che ne deriva, fisico e simbolico, viene a sua volta agevolato dalla costruzione di apparati tecnici anonimi e impersonali in cui veniamo inseriti e all’interno dei quali operiamo ogni giorno; nella infinita moltiplicazione dei messaggi della realtà virtuale (ormai più vera del vero) veicolata da vecchi e nuovi media, che narcotizzano masse enormi di cittadini trasformandoli in meri consumatori; nella azione lontana e apparentemente immateriale della new economy, che in un processo di silenzioso genocidio sta lentamente trasformando le filiere produttive tagliando drasticamente le fasi intermedie della distribuzione, con conseguente perdita di milioni di posti di lavoro; nelle strategie monopolistiche delle grandi multinazionali - dei cui prodotti pure godiamo - operanti con strategie economiche senza scrupoli nelle zone più povere del pianeta, anch’esse troppo lontane perché l’uomo medio occidentale possa davvero preoccuparsene.

    Il non sapere, il non vedere, in questi casi, rappresentano il frutto avvelenato di una volontà di straniamento dal reale, un atteggiamento difensivo molto facile che, talvolta con l’aiuto dei nostri governi, nel breve periodo può permettere alla nostra coscienza di dormire sonni tranquilli.

    Ma l’uomo è tale anche e soprattutto perché è dotato di una natura sociale. E i suoi comportamenti in un modo o nell’altro hanno conseguenze che non possono che incidere sulla realtà che lo circonda. In questo senso, il recupero di un’etica del rimorso diventa la molla esistenziale in grado di riattivare la coscienza di ognuno facendola uscire dal puro interesse individuale per poterla aprire al mondo. La tesi di questo libro può riassumersi in questo: il senso di colpa, fondando la morale, smonta la zona confortevole dello spazio domestico in cui siamo accomodati e ci porta a guardare noi stessi con un giusto spirito critico e l’altro come qualcuno che ha bisogni suoi propri, una sua dignità, un’esistenza che abbiamo il dovere di riconoscere e rispettare; di qui nasce e può svilupparsi un’autentica felicità collettiva.

    Ma un equilibrato sentimento di colpa, da cui anche il senso di responsabilità trae origine, può essere risvegliato solo se si decide di uscire dalle ombre dell’inconsapevolezza per cominciare a informarsi e a conoscere, senza pregiudizi ideologici e idee preconcette. Tuttavia, non è azzardato affermare che ogni conoscenza è, o dovrebbe essere, cognizione del dolore; il dolore del mondo oltre che di se stessi. Alcuni esempi possono aiutare a chiarire. Quando il giovane e ricco Siddharta esce dal suo palazzo dorato e conosce la povertà che lo circonda, entra in crisi e, mosso per la prima volta da quella compassione che diventerà la cifra del suo pensiero, decide di dare una svolta radicale alla sua esistenza, lasciando tutto per dedicarsi alla vita ascetica e contemplativa. Quando Francesco smette gli abiti e le ricchezze da mercante, denudandosi in pubblico, lo fa per dimostrare a tutti come sia intollerabile il dolore e la miseria del mondo, ed è quel dolore e quella miseria che da quel momento lui vorrà condividere con gli ultimi della terra. Quando il giovane Ernesto, medico di buona famiglia, decide di partire con la sua moto per un viaggio tra le zone più dure del Sud America, rimane colpito dal dolore del lebbrosario di Huambo, tanto da decidere, anche dopo questa esperienza, di darsi alla lotta politica. Come non pensare a queste figure come a chi, conoscendo la reale sofferenza del mondo e provando un fortissimo senso di colpa per le proprie condizioni di privilegio, rinuncia al quieto vivere delle proprie case per dedicarsi a spendere la vita in modo diverso, più completo e pieno?

    Il rimorso ha molto a che vedere con la filosofia perché ha molto da condividere con il dubbio e, dunque, con la conoscenza. Anzi, a ben vedere il senso di colpa è possibile solo all’uomo preso dal dubbio. Colui che è convinto di saper tutto e di agire sempre al meglio (per il suo meglio) molto difficilmente avrà incertezze che intralcino il suo cammino e per questo quasi mai sarà preso dal rimorso. E rimarrà nella sua ignoranza. Ma il meraviglioso paradosso della filosofia sta in questo: che solo chi non crede di avere certezze può davvero conoscere. E l’uomo che ha coscienza della colpa, tra tentennamenti e cadute, proprio per questo produce conoscenza di se stesso e del mondo. Allo stesso modo uscendo dalla propria fortezza il filosofo Siddharta-Buddha, il santo Francesco d’Assisi, il rivoluzionario Ernesto Che Guevara ci indicano la via per mettere in gioco le nostre ingenue e pacificate sicurezze, forse per un altro tipo di felicità possibile, dove non trovi posto il culto e la difesa ossessiva per la roba, e si superi il piccolo egoismo di chi, per l’ingiustificato terrore di perdere tutto, decide di non rinunciare a nulla.

    parte I

    Parte I

    Sui tre sentimenti di colpa:

    deontologico, egoistico, altruistico

    Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù

    era stato condannato, si pentì e riportò

    le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti

    e agli anziani dicendo: «Ho peccato,

    perché ho tradito sangue innocente».

    Ma quelli dissero: «Che ci riguarda? Veditela tu!».

    Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio,

    si allontanò e andò a impiccarsi.

    Matteo 27:3-5

    Una preliminare precisazione è d’obbligo: il rimorso non si configura come senso di colpa tout court; ne rappresenta invece un particolare tipo di possibilità. Secondo lo psicologo Francesco Mancini, "vi sono due diversi tipi di senso di colpa ben distinti tra loro: il senso di colpa altruistico e il senso di colpa deontologico. I due sensi di colpa non sono varianti della stessa emozione, ma sono proprio emozioni diverse rispetto ai parametri che caratterizzano le emozioni, rispetto al loro substrato neurale e al loro ruolo nella psicopatologia. (…) La duplicità del senso di colpa traspare anche dalla letteratura dove è possibile rintracciare due tradizioni: intrapsichica e interpersonale. La tradizione intrapsichica ritiene che il senso di colpa nasca dalla trasgressione dei comandamenti dell’autorità morale, comandamenti che sono progressivamente introiettati nel corso dello sviluppo del bambino fino a costituire, per esempio, quello che per Freud era il Super Io, una delle strutture fondamentali della psiche. (…) Nella seconda tradizione, quella interpersonale, il senso di colpa nascerebbe dal rendersi conto di aver danneggiato ingiustificatamente l’altro o, in un senso più generale, dal non essersi comportati in modo altruistico. In questo caso il senso di colpa orienta alla riparazione del danno causato e all’espressione di sentimenti e di atteggiamenti positivi verso la vittima" (I sensi di colpa altruistico e deontologico).

    Probabilmente a questi due tipi di sensi di colpa – che ovviamente non si escludono l’un l’altro ma possono convivere perfettamente nell’individuo e nelle sue differenti esperienze di vita – è possibile aggiungerne un terzo, che potremmo definire egoistico. La differenza è riconducibile al fatto che questo tipo di senso di colpa ha poco a che fare col senso morale che, seppur in modo diverso, caratterizza gli altri due. Nel modello intrapsichico (deontologico) il sentimento di colpevolezza nasce da un conflitto interiore tra le istanze pulsionali dell’Es e l’impronta morale e censoria del Super Io; in quello interpersonale (altruistico), dalla consapevolezza di un tipo di trasgressione diversa, stavolta nei confronti del mondo esterno da noi danneggiato. È in questo secondo caso che entra in gioco il rimorso. Ma l’Io, che secondo una definizione dello stesso Freud è servitore di tre padroni, oltre che operare da equilibratore tra Es e Super Io deve fare i conti con la realtà esterna; e deve farlo non solo per regolamentare i propri comportamenti dal punto di vista morale, ma anche per orientare i suoi scopi di autorealizzazione valutandone i rischi e le opportunità.

    La società in cui viviamo, altamente competitiva, pone i suoi obiettivi di performance e si aspetta che l’Ego dell’individuo, preposto a tale lavoro, si adegui. Laddove tali obiettivi introiettati dall’Io non vengono raggiunti, possono esserci due conseguenze: o scaricare le responsabilità del proprio fallimento sul mondo esterno, oppure dare la colpa del risultato mancato a se stesso, per la propria inadeguatezza, fragilità emotiva, debolezza di carattere, ecc. In questo caso si può parlare di senso di colpa egoistico.

    Ora, quello che si sta progressivamente imponendo nella nostra civiltà, pare proprio il dominio, pressoché incontrastato, del senso di colpa egoistico a scapito degli altri due. Il senso di colpa deontologico era certo diffuso maggiormente in epoca vittoriana (l’età in cui Freud operò e visse) nella quale la repressione delle pulsioni sessuali da parte dell’autorità morale rappresentata dal Super-Io era più rigida e forte rispetto alla società di oggi, dove una certa liberazione dei costumi sessuali ha contribuito già da molti anni ad attenuare la potenza censoria della morale comune.

    L’attenuarsi del senso di colpa altruistico – su cui si fonda essenzialmente un’etica del rimorso – è ovviamente il risultato dell’affermarsi di un’epoca marcatamente individualistica e contribuisce a chiarire perché nel nostro mondo ci si ostina a inseguire un progresso che incarna solo la promessa della felicità. Un progresso che coincide con il perseguimento di valori come l’edonismo e l’utilitarismo e ha smesso di cercare il bene comune, la soddisfazione della condivisione, la più ampia felicità della giustizia sociale, porta come naturale conseguenza lo svilupparsi proprio del senso di colpa egoistico. Questo perché ciò che sembra davvero contare, di questi tempi, è l’ego con la sua narcisistica volontà di potenza, contraltare di una debolezza e di uno smarrimento forse senza precedenti, che dimostra quanto l’ambizione sfrenata sia già un sintomo di fallimento esistenziale. Dappertutto sembra scatenarsi la corsa all’efficienza e alla performance comunque sia, dove la meta conta infinitamente più del percorso

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