Disagiotopia: Malessere, precarietà ed esclusione nell'era del tardo capitalismo
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Per orientarci in questa terra desolata, abbiamo chiesto a otto autrici e autori di provare a disegnare una mappa del disagio. Otto tra storici, filosofi, architetti, urbanisti, sociologi, psicologi per raccontare il nostro “tempo fuori di sesto” e immaginare delle forme di resistenza.
Con interventi di:
Pier Vittorio Aureli
Federico Chicchi
Umberto Galimberti
Maria Giudici
Loretta Lees
Guido Mazzoni
Saskia Sassen
Raffaele Alberto Ventura
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Anteprima del libro
Disagiotopia - Florencia Andreola
Ringraziamenti
Che cos'è questo disagio?
Prefazione di Raffaele Alberto Ventura
Nel 2017 eravamo in tanti a parlare di disagio, ed è così che alcuni di noi si sono incontrati. Florencia Andreola aveva organizzato un ciclo di conferenze al Politecnico di Milano e, in mezzo a nomi ben più prestigiosi, era capitato pure a me d’intervenire: il tema del ciclo aveva proprio nel riferimento al disagio
qualcosa in comune col titolo di un libro che avevo pubblicato da poco [1] . Una coincidenza, in qualche modo. Mi è parso quindi naturale proporle di raccogliere in un’antologia alcuni di questi interventi, limitandomi da parte mia a una brevissima premessa. In effetti se questo libro è nato da un incontro, anzi da una serie d’incontri tra studiosi di vari campi, e se questi incontri si sono fatti attorno a una semplice parola, allora di questa parola sarà utile dire qualcosa.
Nella tradizione psico-sociologica di lingua italiana, la parola disagio
è indissolubilmente associata alla pubblicazione nel 1949 del Disagio della civiltà di Sigmund Freud, scritto vent’anni prima in tedesco. Ma la parola disagio
, nell’Italia dei primi – già venti – anni Duemila, ha anche goduto di un'imprevista fortuna entrando di peso nello slang giovanile: la si è sentita nei testi delle canzoni e vista persino su certe magliette. Come a esorcizzare, rendendolo cool, un sentimento che dovrebbe essere di pena, fastidio e imbarazzo. Da Bugo a Calcutta passando dagli youtuber più disimpegnati, la Diesagiowave è un’operazione estetica che in fondo ricapitola, con molta più leggerezza, la moda esistenzialista degli anni 1940-1950.
Questo è dunque oggi il disagio: un termine di uso banale, perennemente a rischio di essere inflazionato e svuotato del suo senso, eufemizzato, che pure porta con sé una tradizione più alta, senza mai essere riuscito a imporsi davvero come termine tecnico né in psicanalisi né in sociologia. Il disagio è un malessere sfuggente e indefinito, un je-ne-sais-quoi alla ricerca di una diagnosi più precisa, un non-concetto costruito secondo la logica apofatica della negazione. Eppure, il termine per quanto vago sembra indicare una problematica comune: comune tra di noi, comune tra studiosi e cantanti indie, ma comune anche con quello di cui scriveva Freud quasi un secolo fa.
Lo stesso titolo del suo libro, d’altronde, ha subito varie vicissitudini: nella prima edizione era Das Ungluck in der Kultur, cioè sfortuna, e solo dalla seconda si fissa come Unbehagen, infelicità, mentre in inglese si preferisce una non felicissima perifrasi, Civilization and Its Discontents, che al massimo evoca l’insoddisfazione. In francese si parla di Malaise, malessere, mentre la traduzione polacca Kultura jako źródło cierpień rovescia i termini indicando la civiltà come fonte di sofferenza
, in ciò fedele allo spirito di Freud. Districandosi tra queste diverse terminologie, gli editori italiani riusciranno a creare una continuità con un successivo libro del 1991 di Charles Taylor dedicato al Disagio della modernità [2] e uno di Zygmunt Bauman del 2000 che spingeva fino al Disagio della postmodernità [3] . Altre associazioni di idee sorgono da combinazioni: così, rovesciando la classe agiata
di Thorstein Veblen (in originale leisure class
[4] ), è possibile immaginare, come ho fatto altrove, una specifica classe disagiata
schiacciata dalla coazione al consumo vistoso.
Ma che cos’è questo disagio? Per Freud si trattava di descrivere il paradosso per cui all’interno della società moderna sorge una particolare forma di malessere associata all’abbondanza e alla sicurezza, poiché ci viene richiesto in cambio di rinunciare al libero esercizio delle nostre pulsioni. Per Taylor, il problema sembra essere invece nel conflitto tra certe aspirazioni tipicamente sociali (come il bisogno di riconoscimento) e la fredda ragione strumentale che regola la nostra esistenza. Da parte sua Bauman insiste sulla rottura storica che ha reso obsolete le preoccupazioni di Freud sulla repressione del desiderio, in quanto vivremmo oramai in una società individualista ed edonista nella quale il principio di piacere
ha definitivamente preso il potere: per il sociologo sarebbe proprio questo eccesso di libertà la causa del disagio postmoderno.
Insomma, la logica paradossale del disagio, per quanto sia vago il concetto e per quanto differenti siano le cause individuate dai diversi autori, indica in ogni caso un effetto collaterale
degli sforzi umani per governare il mondo. È l’impronta dolorosa lasciata dal progresso, il prezzo esistenziale che dobbiamo pagare per il benessere. Il disagio non è soltanto la negazione dell’agio ma il suo correlativo. La sua ombra, sempre più invadente.
Piuttosto che risalire su fino ai precursori del disagio – che potrebbero essere Seneca, Amleto, Rousseau, Kierkegaard… – la nostra antologia inquadra la questione riducendo ulteriormente la finestra temporale: invece della modernità o della postmodernità, i saggi qui riuniti descrivono le diverse forme del disagio associate non più alle fasi trionfanti del capitalismo ma a quella fase di crisi permanente, disfacimento del mercato del lavoro, precarizzazione, declassamento, crescita delle diseguaglianze che alcuni autori (da Ernest Mandel in avanti) hanno chiamato tardo capitalismo
. Questo è il mondo che sorge dalle rovine del collasso della modernizzazione e che dobbiamo imparare ad abitare: le pagine che seguono propongono una piccola cartografia di questa Disagiotopia.
L’epoca dei malesseri
Introduzione di Florencia Andreola
La chimera dell’imprenditorialità nutre l’illusione che chiunque possa essere un Alan Sugar o un Bill Gates, senza considerare che dagli anni Settanta è molto più improbabile che qualcosa del genere avvenga. […] Le tossine del capitalismo egoista più velenose per il benessere sono racchiuse nelle idee per cui la ricchezza materiale è la chiave per il successo, solo i ricchi sono vincenti e l’accesso alle sfere più alte della società è consentito a chiunque voglia lavorare abbastanza sodo, a prescindere dal suo background familiare, etnico o sociale (se non ci riuscite, c’è solo una persona cui potete dare la colpa: voi stessi) [5] .
Nel passaggio citato, contenuto in Il capitalista egoista, Oliver James mette in luce alcuni aspetti essenziali del momento storico che stiamo attraversando: l’illusione che un futuro di benessere economico sia ancora possibile, la nostalgia di un passato tanto opulento quanto irripetibile, la convinzione che solo la ricchezza possa realizzare le nostre aspirazioni, il dramma legato alla responsabilizzazione individuale di fronte al fallimento e alla mediocrità delle nostre vite. In questo breve paragrafo sono contenuti alcuni dei nodi più significativi che danno origine al malessere diffuso che caratterizza la società contemporanea.
A sua volta, Christian Marazzi apre il saggio Il posto dei calzini [6] facendo riferimento al «cambiamento epocale» che ha investito le società occidentali e il cui lascito ha, evidentemente, dato vita a una struttura differente dal punto di vista economico e, conseguentemente, da tutti i punti di vista. Più precisamente l’autore si riferisce alla natura del lavoro, ma si può dire che sia proprio intorno a questo tema che ruotano tutti gli aspetti della vita quotidiana nella nostra società: welfare, tempo libero, prospettive sul futuro, potere d’acquisto, accessibilità ai servizi, riconoscimento/discriminazione, realizzazione di sé, eccetera.
Disagiotopia parte da questi presupposti e, attraverso una serie di saggi ognuno dedicato a un sotto-tema differente, prova a fare luce su questo cambiamento epocale, su ciò che tale trasformazione ha determinato nelle nostre vite, individuali e collettive, nei nostri spazi e nelle nostre città, nella nostra quotidianità e nella proiezione verso il futuro.
Sono ormai diversi anni che alcuni dei malesseri endemici della società contemporanea sono trattati dagli studiosi (le prime indagini sui problemi relativi alla vita online, per esempio, risalgono almeno al 2003 [7] ); le tesi di Byung-Chul Han espresse in Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere [8] sul panottico digitale dei social che domina tutti noi, che si nutre delle nostre vite private, che ci costringe a fare uso degli smartphone 2.617 volte al giorno in media, ne sono certamente prova efficace. Questo tipo di trattazione si può dire però che abbia spesso dato luogo a letture semplificatrici, limitando l’interpretazione dei problemi della contemporaneità alla supposta pericolosità di internet e della vita digitale in generale, ai like che aumentano la dopamina, che gratificano a breve termine, che producono innumerevoli psicosi. Non che si vogliano qui sminuire queste argomentazioni, tuttavia è difficile non considerare che la rete e tutto ciò che ruota intorno ai social media siano aspetti sovrastrutturali rispetto a ciò che ha determinato la loro esistenza e alla ragione per cui ne facciamo l’uso che ne facciamo.
Questo libro nasce dalla convinzione che – al fine di evitare inutili generalizzazioni e banalizzazioni – il problema del disagio individuale e collettivo necessiti di essere scorporato in varie parti, affrontato da molteplici punti di vista, alla ricerca delle origini che hanno condotto a questa nuova struttura psico-sociale che ci fa soffrire, che ci ha deprivato di prospettive solide sul futuro, che ha trasformato il nostro modo di vivere le città e gli spazi più in generale. La ricerca delle origini come percorso risolutivo di un problema nasce come pratica psicanalitica utile a sciogliere i nodi che impediscono il superamento dei traumi rimossi: il tentativo qui è di applicare lo stesso tipo di processo ai fenomeni collettivi della contemporaneità.
Disagiotopia si pone dunque questo obiettivo: provare a fare luce sulle cause del malessere generalizzato che ha travolto le società occidentali a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso [9] (e ben prima nelle sue radici), e che oggi la mia generazione e le successive stanno attraversando nella sua fase di piena maturazione.
Si tratta di un disagio nuovo, destabilizzante, che si nutre della mancanza di certezze, dell’assenza di riferimenti solidi, della decostruzione dei pilastri stabili delle società che ci hanno preceduto (la religione, la politica ideologica e/o di partito, la famiglia, la garanzia del lavoro); un disagio che Bauman [10] prova a inquadrare nell’epoca postmoderna (non a caso definita da Jameson la «logica culturale del tardo capitalismo» [11] ) attraverso una lettura che vede ribaltati gli originali presupposti freudiani [12] , e che si fonda sull’incontrastata predominanza della libertà individuale. Tutto questo non è che il frutto di una condizione ormai radicata, che Mark Fisher definisce Realismo capitalista, vale a dire l’impossibilità di immaginare un’alternativa coerente all’unico sistema politico ed economico oggi percorribile. «Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale» [13] , sostiene Fisher, e aggiunge: «il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine». Un panorama non certo confortante, e tuttavia piuttosto convincente.
È intorno a molteplici temi, dunque, che diventa necessario concentrare l’attenzione per poter impostare un quadro comprensivo di dinamiche sociali e individuali. È tuttavia necessario considerare che le questioni generali trattate in questo volume possono variare nel loro sviluppo più approfondito da paese a paese, per fare un esempio, nei paesi anglosassoni rispetto ai paesi sul Mediterraneo. Cercherò qui di fornire una sintesi dei temi a cui mi riferisco, cercando di dedicare maggiore attenzione a quelli non trattati nei saggi – rimandando soprattutto a testi specifici –, in modo da ovviare, almeno in parte, all’inevitabile incompletezza di questo lavoro. Ciò che intendo si può articolare in alcuni punti che qui elenco:
le condizioni di lavoro precarizzate e mal retribuite, per mestieri sempre meno precisi nelle mansioni e sempre più astratti, generici e soprattutto flessibili [14], intorno a cui si annidano dinamiche individuali legate alla valorizzazione del capitale umano e all’auto-sfruttamento; ma anche il tema della forza lavoro sovraqualificata, di un mercato che non risponde in maniera adeguata ai fornitissimi curriculum dei giovani alla ricerca di lavoro, che li costringe a emigrare o a erodere i patrimoni familiari accumulati negli anni del boom economico [15];
il costante aumento dell’ansia, della depressione, dei sintomi causati da stress [16] negli individui delle società occidentali – in particolare nei giovani [17] –, a causa del momento storico «nichilista» nel quale ci troviamo, che determina la richiesta performativa dei social media con le sue molteplici distorsioni, le difficoltà relazionali in real life, le trasformazioni del rapporto genitori-figli con le sue aspettative, le sue mancanze e le sue dipendenze economiche;
il divario economico sempre maggiore tra le potenze
economiche e i paesi del Terzo Mondo, i quali vivono una costante strozzatura a base di debiti internazionali, forniti dalle banche occidentali, a cambio dell’imposizione di nuove culture e nuovi mercati e dello sfruttamento delle risorse locali [18];
la cosiddetta gentrification [19] di ampie parti di città, con la conseguente espulsione dei ceti meno abbienti verso le periferie e la riqualificazione
di luoghi un tempo accessibili e popolari, oggi sede di nuovi insediamenti residenziali di lusso (stabili o temporanei, dentro alle dinamiche di airbnbizzazione delle città [20]), laboratori creativi
, ristoranti/bistrot hipster, rigenerazioni
di intere aree che tendono a far aumentare esponenzialmente il valore immobiliare e al contempo a snaturare/devitalizzare gli spazi pubblici dei centri storici;
la narrazione relativa all’era della post-verità [21], della crisi di fiducia nei confronti della scienza, della politica e del giornalismo, con il conseguente pervasivo fenomeno delle fake news [22]e delle teorie del complotto;
la crisi economica che ha investito la nostra generazione – i nati tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso – e alla quale si potrebbe dire che ci siamo abituati, se consideriamo che il nostro potere di acquisto (si noti che si tratta di un fenomeno prettamente italiano) si è ridotto del 3,8% in venti anni [23].
A questo quadro va sommato l’effetto di alcuni processi di lungo corso:
il vuoto di riferimenti e princìpi dovuto alla secolarizzazione della religione e all’uscita di scena del ruolo di guida dei partiti politici, entrambi pilastri ideologici che non sono stati sostituiti con alcuna struttura ordinatrice [24];
il quasi superamento della famiglia tradizionale – e le conseguenti difficoltà dei precursori di nuove forme relazionali (dai divorziati alle coppie omosessuali, dai misconosciuti bisessuali ai poliamorosi), in una società che ancora fa i conti con profondi rigurgiti conservatori e patriarcali; e dunque le mai tramontate discriminazioni di genere e di orientamento sessuale. Al contempo il profondo disagio relativo all’ isolamento genitoriale, dove i sostegni familiari nell’allevamento dei figli – non solo economici, ma soprattutto pratici ed emotivi – sono sostanzialmente venuti meno, insieme al fatto che entrambi i genitori sono oggi tenuti a produrre salario [25];
il cambiamento climatico, qui in ultima posizione a sottolinearne la centralità nel momento storico che stiamo attraversando. Su questo tema il dibattito è corposo e in costante aggiornamento