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La vigna
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E-book243 pagine3 ore

La vigna

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Info su questo ebook

Tra un settembre e il successivo gennaio, Michele Marino, avvocato penalista single, poco più che cinquantenne, si concede un semestre sabbatico nel convento dei liguorini a Lettere, nei monti Lattari. Era stato in questo paese in vacanza da ragazzo. Passeggiando per la vigna del convento, si confessa e dialoga con padre Francesco Buonocore, giardiniere e uomo saggio, e qui fa un incontro inatteso con Rita Taddeo. Costei, diversi anni prima, era stata difesa da Eugenio, padre di Michele, per il delitto del suo promesso sposo. In Michele riaffiorano antichi ricordi e in particolare il giovanile innamoramento per Lucia, una ragazzina a lui coetanea e sorella di Rita, di poco più grande. Michele proverà per Rita, nel giro di pochi mesi, compassione, simpatia, tenerezza e in fine forse amore. Il romanzo, attraverso un’analisi dei ricordi e dei coinvolgimenti sociali del protagonista, dall’appartenenza alla massoneria, ai problemi di camorra, e di quelli personali, dalla fede, ai rapporti famigliari, si conclude con l’attesa che Michele, che ha trovato un suo equilibrio interiore, sposi Sara.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2019
ISBN9788832547719
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    Anteprima del libro

    La vigna - GENNARO MARIA GUACCIO

    © 2019 Lupi Editore

    Via Roma 12, 67039 Sulmona (AQ) 

    Tutti i diritti riservati 

    www.yndy.it

    Stampato presso Universal Book srl - Rende (CS)

    per conto della casa editrice Lupi Editore

    LA VIGNA

    di

    Gennaro Maria Guaccio

    Homo sum, humani a me nihil alienum puto

    Terenzio

    Sors de l’enfance, ami, réveille-toi!

    J.J.Rousseau

    Io sono la vite

    e il padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto lo taglia

    e ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto.

    [Gv 15,1]

    1

    Barbara, che subito ribattezzai Barbarella, per dannunziana memoria, era una ragazza meravigliosa, carina, sensuale e molto dolce. La conobbi due mesi or sono in occasione di un party all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, dove ero stato invitato da Paul Gary Rossi. Paul era il pm nel processo per l'assassinio in via Piave a Napoli di Carmela Esposito, vittima innocente, l'undici giugno del novantotto, di un agguato di camorra tra i Cimmaruta e gli Alfano. Per puro caso, la donna, casalinga e madre di una bambina, si era trovata sulla traiettoria di un proiettile sparato tra le due bande rivali. È questa una guerra all’ordine del giorno che, come ogni guerra, ti coinvolge e ti travolge e che, in buona sostanza, io combatto in prima linea ma ormai sono stanco di combattere. Non solo non la si può portare a termine ma non sai mai veramente dalla parte di chi stai. Dalla parte della giustizia, ovviamente, ma nemmeno questo è banale. Intanto, per l’attuale circostanza io sarei stato, di lì a poco e da parte avversa rispetto al Rossi, il nuovo difensore del pentito Giovanni Romano, detto Faccia di Pecora, che fece luce su quella vicenda. Nonostante le opposte posizioni giuridiche, Paul ed io eravamo diventati amici anni prima e ogni tanto ci s’incontrava per eventi mondani, meritato riposo del guerriero, per cui ecco che si era data questa nuova simpatica occasione.

    Mi fu presentata Barbara, una biondina snella, solare e un matrimonio andato male alle spalle. Lei mi fece un tale grande sorriso, che, da quel momento, vi trascorsi appiccicato tutta la serata. Con lei dimenticai ogni altra pena.

    -Ma davvero scrivi versi, Barbarella?

    Le chiesi.

    -La poesia è la mia passione.

    Lei dichiarò.

    Tuttavia, da lì a poco mi resi conto che, per esempio, la mia Barbarella non conosceva D’Annunzio. Invece, cominciò a parlare appassionata della Dickinson e di una certa presunta tesi della poetessa circa la lotta tra Giacobbe e un angelo, cose queste ignote a me, che al più avrei saputo collocarla nel suo luogo d’origine e nel suo tempo. Ma qui Barbarella mi disse, lasciandomi basito, che le sarebbe piaciuto andare in America a visitare i luoghi dove viveva la Dickinson per parlarle da vicino, visto che lei si esprimeva abbastanza bene in inglese. Oh Dio, rammentai che la Dickinson visse nel secondo ottocento e non poteva essere ancora viva. Avrebbe avuto minimo centocinquanta anni.

    -Davvero vuoi conoscerla e parlarle?

    Le feci tra il serio e il faceto.

    -La Dickinson mi piace tanto … l’amore è tutto ciò che sappiamo dell’amore.

    -Ecco, mi dispiace dirtelo, ma è morta.

    -Chi? La Dickinson?

    -E già.

    -Oh Dio, no. Quando?

    -Eh… da un po’. Non lo hai saputo, immagino -feci divertito, con falsa pietà-. Dimmi, in che modo la conosci?

    -Me ne parla sempre Melania.

    -Chi è Melania?

    -Un’amica dell’agenzia che compone versi come me.

    -Un’agenzia di poeti?

    -No, che dici? Un’agenzia di viaggi.

    -Ah, ora capisco. Beh, ti ha mentito. La Dickinson è morta da un pezzo.

    -E la Aganoor… morta anche lei?

    -La Aganoor… io non faccio il poeta, può darsi. Non so chi sia.

    E allora Barbarella imperterrita si mise a parlarmi dell’Aganoor e del suo spirito inquieto, del desiderio di morte e della ricerca di libertà dalle regole.

    -Lei, sai? È di Castiglione del Lago. Lì si maritò...

    In effetti, ora parlava con una certa titubanza, come se avesse avuto paura di sbagliare. Aveva perduto un poco della sua fiducia nella storia letteraria di cui poco prima andava fiera.

    -La Aganoor -mi raccontò ancora per rifarsi- scriveva a una sua amica, La nostra casa è dinanzi al Trasimeno, tutta circondata da colline folte e sul lago tre isolette di sogno… ti risulta?

    -Non lo so ma è verosimile.

    -Oh, quanto mi piacerebbe viverci sul Trasimeno.

    Beh, confesso che mi stavo divertendo e che stavo al gioco. Il Trasimeno, a mia memoria, è sicuramente più vicino che non il Massachusetts, l’America della Dickinson.

    -Potremmo andarci insieme, qualche volta.

    Ci provai.

    -Sì, mi piacerebbe tanto. Andiamoci.

    Non vi andammo, s’intende, ma intanto, complice il cielo sereno che man mano si fece striato di rosso fuoco all’orizzonte e le lucine che si accendevano tra la collina di Posillipo e il lungomare di Pozzuoli, Barbarella mi apparve sempre più incantevole. Quella sera, si era ai primi di luglio, lei indossava un abitino tubolare rosso che le teneva scoperte le spalle da omero a omero e su di esse ricadevano i capelli lisci color oro. Gli occhi in quelli chiari di lei, io stavo ad ascoltarla pressoché silenzioso mentre lei parlava e parlava. Devo riconoscere di essere rimasto incantato dalla sua voce e dalle conoscenze letterarie, tuttavia pindariche, che dimostrava di possedere, sia pure, per giunta, con molte evidenti imprecisioni storiche. Quando però mi disse che si era sposata a diciassette anni e che aveva una figlia da mantenere che era tutta la sua vita, pensai che, più che l’interesse alla poesia, stesse cercando un padre per sua figlia. Sarei stato guardingo, anche se questo allora non mi scoraggiò perché, se hai una ragazza vicino che ti piace, il tuo cinico problema è solo quello di conquistarla, non importa quali possano essere gli scopi reconditi di lei. Così, continuai a starle accanto, a bere insieme alcuni drink e non trascurai di aggiustarle una fila di capelli che le scendeva lungo il viso per infilarsi nella bocca. Mi confessò che si era separata perché il marito era un uomo aggressivo, geloso e poco sensibile alla poesia. Un troglodita, insomma.

    Ballammo. C’era un’orchestrina che suonava dal vivo alcuni lenti e così ebbi modo di tenerla tra le braccia. Lei sembrò volersi appendere al mio collo e la lasciai fare. Alla fine del ballo la sollevai tenendola stretta per la vita e la baciai sulle labbra fuggevolmente. Non se ne ritrasse.

    -Posso rivederti?

    Le chiesi.

    -Mi farebbe piacere.

    Fece lei molto dolcemente.

    Così ci rivedemmo. Intanto, a luglio di quello stesso anno Giovanni Faccia di Pecora fu arrestato mentre era in vacanza a Marina di Cetrara. Aveva sulla coscienza una trentina di omicidi e, forse anche lui stanco di se stesso, si disse pentito e fece arrestare quelli che erano stati implicati nella sparatoria a via Piave. Ebbi il tempo di assumerne la difesa, infatti ogni imputato ha il diritto di dire le sue ragioni dinanzi a un giudice, anche se è reo confesso, e alla fine del mese, come mio solito, mi concessi una vacanza dal venticinque luglio al dieci agosto. Vi invitai la bella Barbarella e ce ne andammo in costiera a Praiano con la mia GT decapottabile.

    In questa splendida località sulla Costiera Amalfitana mio padre aveva acquistato, diversi anni addietro, una villa a picco sul mare che, nella cornice della profumata ombra di un glicine, mostrava all’orizzonte una vista mozzafiato sull’infinito del mondo. La mia famiglia prese ad andarci da quando io avevo circa sedici anni e ancora adesso ci si va ma non più tutti insieme. Facciamo a turno io e i miei fratelli. Mia madre, dalla morte di papà, non v’è più andata. Sul posto, un guardiano sorveglia la casa e ogni tanto fa le pulizie e tiene in ordine gli interni e il giardino. In qualunque momento basta telefonargli e lui provvede ad aprire le finestre per arieggiare e rendere ospitale il nostro soggiorno, di solito brevi periodi, a causa del lavoro che ci tiene tutti impegnati.

    Barbarella non stava nella pelle quando ve la condussi e diventò quasi euforica, che non si aspettava tanta bellezza. Alla villa si accede dall’alto, nel senso che il cancello d’ingresso sta sul ciglio della strada e, varcatolo, bisogna andare subito giù per una scaletta in cotto tra agavi e arbusti mediterranei e si arriva sul primo livello della casa. Ne seguono altri due e sotto un breve giardino e poi ancora più sotto la roccia e il mare. Però non si possono fare bagni da quella parte, è troppo pericoloso a causa della roccia scoscesa, ma a me e a Barbarella questo non diede alcuna preoccupazione, dal momento che fummo occupati a fare l’amore notte e giorno. Trascorremmo così buona parte del tempo che restammo alla villa e prendemmo il sole sulle sue terrazze.

    Barbarella, che, in fondo, credo, amasse veramente la poesia, si era portata una raccolta di versi dell’Aganoor e si addormentava sulla sdraio con quelli in mano.

    -Leggi le prefazioni, mi raccomando -le suggerii scherzoso-. E stai attenta, almeno, a quando sono nate le tue poetesse.

    Trovavo che Barbarella fosse davvero una bella donna, dai lineamenti sottili, sebbene con qualche dramma nell’anima che dava ai suoi occhi una luce malinconica. Ogni tanto mi leggeva qualche verso, Se ho scritto è per pensiero/perché ero in pensiero per la vita. Era passata all’Anedda ed io la baciavo e così riprendevamo a fare l’amore.

    Un paio di volte lei decise di scendere alla marina. Effettivamente, a Praiano ne vale la pena, sparso com’è il paese tra la costa e la montagna, e poi feci conoscere a Barbara il fiordo di Furore e la spiaggia della Gavitella, dove lei non era mai stata. Ma era poco intimo per noi che sembravamo aver perso la testa entrambi l’uno per l’altra e tornammo alla villa, rinunciando a goderci il sole in spiaggia fino al tramonto.

    - Ho preso un sorso di vita

    Lei mi disse una volta.

    -Cioè?

    Le feci.

    -È un verso della Dickinson…

    Mi confidò, guardandomi tuttavia con occhi incerti. Della Dickinson per lo più taceva, ancora condizionata da quella grossa gaffe sulla sua morte.

    Le sorrisi e mi sembrò di esserne innamorato.

    Barbara era stata tanto cara e amabile ma a settembre cominciò a fare strani ragionamenti circa la famiglia e a darmi urgenze e a impormi situazioni, tipo mi accompagni lì, mi aspetti qui. Però, io, che sono uno spirito libero, non mi adatto facilmente alle situazioni oppressive. Amo la bellezza, amo le donne ma non la prevaricazione e l’imposizione. Non l’anello al dito.

    No, non ne ero innamorato fino a questo punto.

    Così, mentre lei tentava di propormi una più stabile relazione, io cominciai ad allontanarmene, mentre m’immergevo nei problemi legali e le negavo incontri. Già sentivo la delusione, né era questa la prima volta che dovevo allontanarmi da una donna, ma, ribadisco, in fondo non ne ero innamorato. Una sera, dopo una scenata di Barbara proprio sotto il mio studio, me ne tornai a casa angustiato e durante il viaggio meditai sulla nostra relazione, trovandola assurda e impropria. Nemmeno cenai e stetti sulla terrazza di casa a fissare le scoscese pendici del Vesuvio, in parte buie e in parte illuminate da una candida luna nell’imminente autunno. Quanti anni sono passati da quando, ragazzino, fissavo sorpreso da quello stesso luogo quella medesima luna che cercava di illuminare, già allora, la montagna e il mio cuore. Ok, decisi, dovevo troncare con Barbarella. Eravamo giunti a metà settembre e ci chiarimmo e ci lasciammo definitivamente. Lei non ne fece una tragedia e si accomiatò con dei versi, credo dell’Aganoor, Mesti, come i tramonti di autunno in mezzo ai monti, sono i congedi!

    La baciai e finì lì.

    2

    Settembre. Io non sono un idealista e nemmeno un pragmatico ma solo uno spirito inquieto. Passo gran parte dell’anno solare con la testa tra le carte, codici alla mano, e mi organizzo da me il lavoro. Non dipendo da altri, là dove altri dipendono da me. Percorro ogni giorno metodicamente la Ottaviano-Napoli e viceversa, statale 268/162, circa sessanta chilometri tra andata e ritorno. Mentre viaggio ho la mente occupata nelle pratiche in corso e uso il cellulare per comunicare sui fatti più urgenti con i miei collaboratori. Tutta burocrazia, tutta routine, come se la vita fosse solo questo tran tran. Parcheggio nel largo dietro lo studio, dove lascio la GT nelle mani di Gennarino, che è abusivo ma efficiente e non mi fa perdere tempo. Eh, il tempo, ho sempre bisogno di tempo. Non c’è mai abbastanza tempo. E quella mattina, festa di san Gennaro, si era fatto troppo tardi perché Gennarino si era preso la giornata di festa per il suo onomastico. Tutti così questi napoletani perdigiorno. Ben diversamente dal giudice Campanella, di origini bresciane, che ci aveva eccezionalmente convocati nel suo studio al Tribunale, giusto il giorno della festa patronale.

    Ecco, erano circa le nove e mezza di una bella mattinata solare quando Lucio ed io stavamo in piazza Garibaldi a Napoli. Lucio è il mio segretario. Per la verità Lucio, cinquantaquattro anni, un po’ oltre la mia età, è stato uno dei primi praticanti fattorini allo studio di mio padre in via Pietro Colletta, nella chiassosa capitale campana, Studio Legale associato Marino & Rosamosca, penalisti. Ora, sebbene in questa metropoli io vi abbia vissuto a lungo, vi abbia compiuto gli studi e vi abbia lavorato, in effetti non mi ci sono mai trovato a mio agio. Napoli è solo per i napoletani.

    -Avvocato -mi stava dicendo Lucio- ci conviene prendere un taxi per raggiungere il tribunale, non ci vorrete andare a piedi?

    Il fatto è che mentre anni fa avevamo lo studio a due passi da Castel Capuano, adesso bisogna spostarsi in macchina fino al Centro Direzionale della città, trasportare ogni volta plichi e fascicoli e cacciarsi nel traffico urbano e sperare di arrivare in tempo alle udienze. Invece, il giudice Campanella considera reo chi si presenti con scarsa puntualità, sfuggendo così all’articolo quarantanove che configura il reato putativo. Ma lui lo sa bene e lo dice per disciplinare noi avvocati ritardatari. Quel mattino, dunque, eravamo scesi a piedi per servirci di un mezzo pubblico e così eravamo giunti fino in piazza Garibaldi. Stavamo giusto sotto la statua bronzea del presunto eroe dei due mondi e c’era un caos di pullman, automobili, motocicli e tram. Avremmo preso questo, il numero uno. Lo preferivo perché aveva una sua corsia preferenziale, almeno in certi tratti, e faceva prima lasciandoci in via Poggioreale, alla fermata subito dopo l’omonimo carcere e proprio in prossimità della torre alta del tribunale. Una struttura avveniristica quest’ultima, tutt’altro che Castel Capuano, quel vecchio palazzo semi fatiscente, angusto e umido, sebbene carico di storia fino alla memoria normanna, che ha ospitato per circa cinquecento anni la Corte d’Appello e il Tribunale di Napoli. Intanto, Lucio aveva le sue ragioni a suggerire il taxi sia perché i tram erano bloccati nel traffico, sia perché, se fossimo andati a prenderlo all’altro capo della piazza, quello avrebbe svicolato più facilmente alla volta della nostra sospirata meta. Attraversammo perciò a piedi, ciascuno con un grosso faldone sotto braccio, tutto quel lungo campo di Marte strombazzante e vociante, saranno almeno trecento metri, tra imprecazioni rozze e gente colorata. Passammo in mezzo alle auto, per fare prima, tanto, erano praticamente ferme, e puntammo di faccia alla stazione centrale dinanzi alla quale parcheggiano i taxi. Ed ecco che sulla destra, rammentai all’improvviso, si accede per il Corso Lucci all’autostrada del Sud, quella che porta giù fino a Reggio Calabria, quella che non riescono a completare ancora, dopo quasi quarant’anni che l’hanno iniziata, se si esclude la tratta Napoli-Salerno. Vi pensai come a uno sbocco verso la libertà. Sì, ripensai per un momento anche a Barbarella.

    -Lucio, sali -gli feci, quando bloccammo il primo taxi disponibile-. Sali e vai in tribunale, che l’avvocato Osvaldo aspetta i documenti. Io vi raggiungo dopo.

    Mi resi conto che, contrariamente al mio sensato e ponderato agire, mi fosse balzata in mente un’idea vaga e stravagante che stavo cercando di attuare ma non mi era ancora ben chiaro che cosa volessi fare. Io so bene che è fondamentale che in ogni azione valga il principio dello jus naturale, cioè del diritto naturale da parte di ciascuno di usare del suo arbitrio per salvaguardare la propria natura. Ma so pure che in qualche misura a questo diritto si oppone la lex naturalis secondo la quale nessuno dovrebbe compiere atti che minaccino in qualche modo la vita, in generale, e anche la sua stessa vita. Nel conflitto tra jus e lex si trova un punto di equilibrio che è alla base delle regole di ogni Stato, le quali limitano il diritto che ognuno possa fare ciò che gli piace e questo tende a eliminare i conflitti di tutti contro tutti. Ed ecco, ora il mio problema vedeva me in conflitto… con me. L’attività di studio m’impegnava molto, è ben vero, e mi teneva concentrato abbastanza, sebbene ogni tanto pure mi prendevo uno svago, tipo con la bionda Barbara. Ma da qualche giorno, forse proprio a causa di quell’ultimo svago, era cresciuta in me un’irrequietezza che mi procurava disagio. Un disagio che si accentuava quando la sera mi ritrovavo solo e rientravo a casa dove ad attendermi ormai c’era unicamente mia madre, sempre più mesta, sempre più antica. E per strada mi sovveniva di mio padre e rivedevo con i suoi occhi i luoghi che anche lui aveva percorso a suo tempo e si velavano i miei fino alle lacrime. Com’è brutto perdere le persone care.

    Mio fratello Osvaldo, invece, si è sistemato già da qualche tempo a Napoli con sua moglie e ha due bambini, mentre Paolo, il più piccolo di noi, che non ha voluto saperne di fare l’avvocato, se n’è andato a Firenze a insegnare lingue, credo inglese. Perciò, in casa viviamo soli mia madre ed io. A dire il vero, mia madre ha trovato ragioni di vita tra la parentela, una sorella un poco più giovane e una cerchia di amiche che si

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