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L'oro delle Bijagos
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E-book236 pagine3 ore

L'oro delle Bijagos

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Info su questo ebook

Deserto del Mali, primi anni '70: un'intera carovana carica d'oro, rimasta sepolta per secoli sotto una grande duna sabbiosa e riportata casualmente alla luce ad opera del vento, viene scoperta e depredata da una tribù Tuareg. 1974: l'implosione dell'Impero Coloniale Portoghese coinvolge nel caos anche la Guinea Bissau. Ne approfittano i narcos colombiani per stabilire una base nel ridente e in gran parte disabitato Arcipelago delle Isole Bijagos. Sono queste le premesse della trama nella quale viene irretita una giovane coppia veneziana, approdata con una barca a vela in quelle isole per cercare libertà e fortuna. In un thriller sentimentale, incontreranno invece l'Avventura e l'Amore disperato. Troveranno ospitalità presso una locanda dal nome enigmatico, Pergunta para saber (Domanda per sapere), gestita da un meticcio portoghese e dalla sua strana figlia.
LinguaItaliano
Data di uscita16 ago 2023
ISBN9791221483765
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    Anteprima del libro

    L'oro delle Bijagos - Mauro Cortella

    Viejo hotel de mis ensueños y alegrias que acunò el idillio de un loco amor

    (Vecchio hotel dei miei sogni e delle mie gioie che cullò l’idillio di un folle amore) (Hotel Victoria - tango -

    Angel D’Agostino - 1945)

    CAPITOLO I VENEZIA

    (primavera 1999)

    Ho conosciuto Muriel qualche anno fa a Venezia, in Riva dei Giardini, una limpida mattina di aprile.

    Era seduta al Bar Paradiso, sotto il pergolato di glicine nel pieno della sua fioritura, davanti ad una tazza di cappuccino, e indossava abiti leggeri color lillà, come se avesse voluto confondersi tra i fiori. Portava occhiali da sole e sembrava assorta, guardando la laguna e le isole di fronte. Confesso che fin dal primo istante fui attratto dal suo aspetto romantico e misterioso. Mi sedetti non lontano da lei e ordinai anch'io qualcosa. Poi, avendo notato che oltre a noi due sulla terrazza sotto la pergola non c’era nessuno, esibendo il sorriso più accattivante possibile, le dissi:

    «Mi perdoni signora, buongiorno… Mi sento solo. Posso sedermi al suo tavolo?…»

    Si voltò verso di me, muta, schiudendo le labbra per lo stupore; e dopo qualche secondo, mi rispose con un sorriso sostenuto:

    «Be’… è una richiesta piuttosto insolita, ma visto che è posta in modo così gentile… prego, si accomodi!»

    Si tolse gli occhiali scuri, non so se per una forma di riguardo nei miei confronti o per mostrarmi degli splendidi occhi azzurri. I capelli castani, ondulati sulle spalle, un filo di rossetto chiaro sulle labbra, la pelle leggermente ambrata da mattinate passate all’aperto. Una donna affascinante, all’apice di una splendida maturità (ma c’è un apice di splendore per una donna?…).

    Ci presentammo. Poi, per sciogliere il ghiaccio le chiesi se conosceva i nomi delle isole che avevamo di fronte.

    «Certo! - Le conosceva bene per averle visitate tutte, in barca, e le indicò con il dito: - S.Servolo, S.Clemente, Poveglia, Santo Spirito, gli Armeni…»

    Avevo notato nella sua voce una sfumatura di accento francese, che aggiungeva al suo charme un che di esotico, e gliene chiesi la ragione.

    «Sono nata nel Congo Francese, dove ho trascorso l’infanzia...»

    La sua persona mi attirava, mi incuriosiva sempre di più, e non resistetti alla tentazione di chiederle se fosse o meno single. Mi guardò con la stessa espressione stupita di prima, attese qualche attimo, e scoppiò in una sonora risata:

    «Ma lo sa che lei è un bel tipo!… E’ sempre così immediato nelle sue relazioni?…»

    Io sorridevo senza parlare, così proseguì:

    «Sono impegnata, anzi molto impegnata. Ho due amanti maschi e un’amante femmina, uno più geloso, o gelosa, dell’altro…»

    La sua risposta aveva tutta l’aria di essere chiaramente uno scherzoso bluff, come in seguito ebbi modo di verificare, ma l’espressione ironica non fece che aumentare la mia curiosità. Poi con un tono esageratamente risentito, continuò:

    «Senta… La mia vita è già abbastanza incasinata. Vengo qui apposta, al Paradiso, per trovare un po’ di quiete… e lei… non solo mi abborda, ma, mi pare che lo faccia in modo abbastanza esplicito…»

    Ad ogni modo sorridevamo entrambi, sia della mia domanda che della sua risposta. Poi, decisa a cambiare argomento, mi chiese:

    «Di cosa si occupa?...»

    «Scrivo.» risposi prontamente, a mia volta bleffando poiché per me lo scrivere in realtà altro non era che un’aspirazione, maturata con l’età, dopo aver raggiunto alcune libertà vitali tra le quali il termine dell’attività lavorativa. Lei, sorpresa, proseguì:

    «Oh, ma guarda! E’ il volere del Destino. Attendevo giusto uno scrittore che accettasse di mettere insieme i pezzi di una storia, una vicenda di vent’anni fa. E’ solo lo spazio di un anno nella mia vita, ma talmente cruciale e denso di misteri...»

    «Che tipo di storia?…»

    Si era fatta seria, come per l’emergere di ricordi dolorosi, e proseguì:

    «In effetti… una storia d'amore, intricata e insolita, della quale ho vissuto solo la prima parte... e l'ultima, forse. Il resto è ancora avvolto nell’oscurità. Se accetta, dovrà anche indagare e viaggiare, rintracciare persone che ho conosciuto vent’anni fa. Naturalmente le indicherò le strade da percorrere.»

    Oltre alla curiosità per una trama dalla quale avrebbe potuto nascere un libro, il mio primo romanzo, la prospettiva di poterla incontrare ancora mi fece accettare immediatamente.

    Mentre parlavamo, la radiolina che la ragazza del bar aveva posato sul bancone trasmetteva sommessamente un mix di brani musicali, quando andò in onda un appassionato motivo che riconobbi alle prime note. Era un tango, Hotel Victoria, nella versione di Angel d’Agostino, quella che amavo di più. La guardai negli occhi, e le dissi:

    «E’ un tango… Balliamo?»

    «Ma… non so ballare… un tango, poi!… qui?...» Non feci caso alla sua incerta difesa… Sentivo solo quanto il mio corpo desiderasse seguire la musica e avere lei vicina. La mia mano si posò sulla sua, mi alzai e la guidai in un piccolo spazio vuoto, fra i tavoli. Non oppose alcuna resistenza. La circondai con le braccia sussurrandole:

    «Abbandonati e lasciati condurre.» Mi obbedì e la musica ci coinvolse. La melodia struggente di quel tango, il suo viso così vicino, l’odore del suo fiato e dei suoi capelli, mi fecero capire in quell’attimo, solo in un attimo, che non l’avrei lasciata mai più.

    Cominciò così, nello spazio di un mattino, il nostro percorso, in fondo, la storia di due persone che attendevano solo d’incontrarsi. Complice il bel tempo, ci trovavamo tutti i giorni al Bar Paradiso, e mi raccontò la parte da lei conosciuta di una vicenda complessa che avrei dovuto dipanare, per metterne insieme i pezzi. Avvertivo in lei un tale bisogno di confidarsi, come se veramente in tutto quel tempo mi avesse atteso. Iniziai a prendere appunti, ma compresi subito che la vicenda da lei narrata mancava di tutta la parte centrale .

    Decisi così di fare un viaggio nei luoghi dove si erano svolti i fatti (Senegal, Guinea Bissau, Isole Bijagos) sulle tracce dei personaggi di quella storia, se mai li avessi trovati. Sarei partito più presto possibile.

    Le chiesi se mi avrebbe accompagnato…

    «Meglio di no. - rispose - In quei luoghi ho passato i momenti più belli e i più terribili della mia vita. In entrambi i casi, troppo dolorosi da evocare. E poi, - con un sorriso di intesa - come potrei spiegare questa fuga ai miei amanti?…»

    All’aeroporto ci abbracciammo e mi posò un bacio sulle labbra dicendomi: «Ti aspetto...»

    L’indagine

    A Dakar la breve stagione delle piogge si stava annunciando con un cielo grigio uniforme e un piovigginare quasi impalpabile, poco più che una nebbia tiepida.

    Il taxi mi lasciò al porto vecchio, davanti al bistrot La belle creole, sotto i portici. Mi guardai intorno… Lo spazio acqueo, che Muriel mi aveva descritto, all’epoca quasi vuoto, ora si presentava ingombro di imbarcazioni da pesca e vetusto naviglio da lavoro. Fermento e vociare di uomini.

    Entrai nel locale. Era di primo mattino e mi trovavo ad essere l’unico avventore. L’anziano gestore, un pied noir della belle époque (cioè un francese nato in Africa, come lui poi mi confidò), pallido e obeso, la barba trascurata e i capelli grigi, lunghi e appiccicosi sulla nuca, era curvo sul banco appoggiando i gomiti. Aspirando voluttuosamente la sua prima Gauloise, guardava distratto verso l’uscio, chiedendosi quali sarebbero state le novità di quel mattino piovoso.

    Lo invitai a sedersi con me ad un tavolino per bere un pastis ghiacciato. Acconsentì volentieri, e incuriosito dalle mie domande, prese di buon grado a rispondermi, per quanto ne poteva sapere.

    «Sì, è successo proprio qui, sotto i portici… - e faceva segno con il pollice - Ne parlarono i giornali, ma non si è mai saputo… Lei insiste, mio caro amico, ma son passati vent'anni... Sì, allora c'ero, ma come posso ricordare tutto?... Dovrebbe sentire all'Ufficio di Polizia… avranno un archivio... però ci vorrebbero almeno dei nomi, delle date… Ernesto? Ernesto della Somone?... Certo che l’ho conosciuto!… Anche questo un fatto che all’epoca aveva destato scalpore. Era ossessionato dall’oro dei Tuareg, ha voluto mettersi in combutta con loro e, come altri incauti venturieri di quegli anni, è tornato dal Mali con le orecchie mozzate e la mente completamente sconvolta. Era già vecchio, morì poco dopo in un ospizio.

    Un giovane italiano che comprò una barca da un meticcio?… Quest’ultimo era certamente papà Philippe, gestiva lui allora la darsena, ma è morto da tempo. Se ben ricordo era amico di Ernesto, o almeno trafficavano insieme. Poi ci furono dissapori, regolamenti di conti, storie di coltelli... Ernesto ne portava ancora le cicatrici delle quali si vantava perché, diceva, causate da mariti gelosi.»

    Dopo l’incontro con il gestore del bar, mi recai all’Ufficio di Polizia, ma non seppi niente di più di quanto Muriel mi aveva già raccontato. Anzi, il buio si faceva sempre più fitto, e la ricerca ben presto si rivelò più difficile di quanto pensassi, ma altrettanto avvincente.

    Presi una macchina a noleggio e andai a La Somone. Il piccolo stabilimento di allora era diventato un grazioso villaggio turistico, ma il personale, tutto recente, non poteva darmi alcuna informazione utile. L’ambiente era talmente ameno che mi fermai due giorni, occupando quello che era stato il loro bungalow, l’ultimo della fila, tra le palme, sfiorato dall’alta marea. Le telefonai descrivendo l’ambiente, ed ebbi l’impressione che mi parlasse con il pianto in gola.

    Due giornate di riposo, scorpacciate di pesce, tuffi nell’onda frangente. Ne approfittai per mettere in ordine gli appunti e iniziare a scrivere.

    Il mio viaggio proseguì in aereo, con un comodo volo Dakar-Ziguinchor. Qui il taxi mi condusse ad un alberghetto, vicino al Club Nautique, in riva al fiume Casamance: clima amichevole, accattivante ambiente africano. Il giorno seguente chiesi di Gérard ad un gruppo di francesi seduti sotto la tettoia del Club. Mi rispose un anziano, dicendomi che lo aveva conosciuto e qualche volta anche accompagnato per la pesca d’altura alle Isole Bijagos:

    «Bei tempi!... Tutti amavano Gérard, una persona squisita... poi... un incidente banale.. E’ successo sulla strada della segheria... Dicevano che, per evitare un bambino uscito da casa correndo, il pick-up si è capovolto ed è finito nel fiume. L'auto è stata trovata qualche giorno dopo, trascinata più a valle dalla corrente, ma di lui mai più nessuna traccia. La moglie?... Ha venduto tutto e non so ora dove viva. Era medico e lavorava al Consultorio Pediatrico. Perché non chiede lì?...»

    Presentandomi come amico del suo defunto marito, chiesi al personale dell’Istituto come avrei potuto rintracciare la Dottoressa Isabelle. L’anziana segretaria, visibilmente stupita, mi chiese:

    «E’ tanto che non la vede?»

    «Non la conosco personalmente, ma gradirei parlarle, se possibile.»

    «Vive ancora qui. Non ha mai voluto andarsene dal Dispensario, dove ha lavorato per tutta la vita, e dove noi la ospitiamo da anni in una stanza. Passa tutta la giornata seduta nella poltroncina a dondolo, sotto la veranda del giardino. Ma prego… venga.»

    Trovai un’anziana signora, avvolta in uno scialle di cotone dai vivaci colori africani. Si dondolava sulla sedia, guardando davanti a sé le aiuole fiorite. La salutai con un sorriso, aggiungendo: «Mi manda Muriel...»

    «Muriel!… Quanto tempo!… Come sta?...» E fece gli occhi rossi.

    Mi sedetti accanto, presi con tenerezza tra le mie, le sue mani ossute che teneva in grembo, e le spiegai lo scopo della mia visita. Ascoltò attentamente e mi riferì tutto quanto sapeva delle due ragazze che in tempi diversi aveva ospitato in casa, come delle figlie. «Ah, quel matto di Fosco!...» I suoi ricordi si rivelavano fondamentali per tessere una parte della trama del mio racconto. Dovetti prometterle che le avrei inviato una copia del mio libro, e salutai con affetto sincero quella persona così dolce.

    - Restava Mariano. Giunsi in taxi a Bissau, dove, dopo il recente colpo di stato dei militari, persisteva ancora un clima da guerra civile. Prudenzialmente passai all’Ufficio di Polizia dichiarando il mio viaggio alle Bijagos, come giornalista.

    Il traghetto per le isole partiva tutti i giorni, e, secondo le indicazioni di Muriel, mi feci condurre a Bubaque. Lì un tempo Mariano gestiva una locanda dal nome intrigante: Pergunta para saber, Domanda per sapere. Se era ancora vivo, il vecchio mulatto doveva avere tra i settanta e gli ottant’anni.

    Trovai le isole come lei me le aveva descritte: verdissime e selvagge; Bubaque, grazie a un turismo ancora primitivo, in vent’anni aveva avuto un certo sviluppo. Lungo la strada che portava al pontile del ferry, trovai una modesta pensione, non lontana dalla piazzetta sulla quale un tempo si affacciava la locanda. Lì infatti, sopra l'ingresso di una bassa costruzione, chiusa e all’apparenza disabitata, si poteva ancora intravvedere parte della vecchia scritta: Pergunta.... Accanto, la chiesetta di legno, ormai fatiscente, conservava ancora tracce dell’antica pittura celeste. Decisi di fermarmi qualche giorno in quel paradiso sperduto a riordinare le idee, e dato che nell’isola sembrava funzionare una specie di servizio postale, scrissi a Muriel, riferendole quanto fino a quel momento avevo appurato, ma a dire il vero solo perché desideravo inviarle una lettera.

    La fortuna mi sorrise e non ebbi difficoltà a trovare Mariano. Abitava ancora nel fabbricato della vecchia taverna, della quale teneva chiuse le imposte che davano sulla piazzetta, servendosi solo di un ingresso posteriore.

    Quasi cieco, gli occhi gonfi e arrossati, era assistito da un'anziana immigrata dall'Angola, che lui affettuosamente chiamava la mia negressa, termine con il quale, come mi spiegò più tardi, gli ospiti francesi della bettola erano soliti chiamare la bottiglia di vino rosso. Aveva l’aria di essere sopravvissuto a sé stesso, o alla propria vita. Lo invitai a pranzo alla locanda dove ero alloggiato, e ne parve felice. Sedutosi a tavola e avvicinando agli occhi la bottiglia che avevo fatto portare, la riconobbe, e prendendola delicatamente tra le mani come fosse un pargoletto, sospirò con tenerezza: «Vinho verde… oh, vinho verde!...»

    Appariva cordiale, ma sospettoso e poco loquace. Quando mi presentai, esponendogli il motivo della mia visita e precisando che Muriel stessa mi aveva inviato per indagare su tutta la vicenda, mi parve spaventato: «Muriel?… Non ho mai sentito questo nome…» Incominciò a balbettare dicendo che lui di queste storie non sapeva nulla. Ricordava solo un bianco, tanti anni prima, partito per i Caraibi con una barca a vela... Quando gli chiesi di Malaika, sua figlia, rimase stupefatto, e con voce alterata mi rispose che abitava molto lontano, in un paese dell'Africa, ma non ricordava quale: «Voleva che andassi ad abitare con lei, ma non ho mai avuto il coraggio di lasciare la mia isola, la casa e la mia negressa...»

    Gli chiesi anche dei narcos colombiani, ma parve terrorizzato come se avesse visto dei fantasmi:

    «Não senhor, perigoso, muito perigoso, proibido!...»

    Avevo l’impressione che sapesse molto, ma non voleva dirmi niente. Oppure era semplicemente confuso, o spaventato. Sì, avevo trovato un vecchio confuso, pieno di ricordi e di paure. Non ne cavavo fuori nulla di importante. Quando andai a salutarlo dicendogli che ero in partenza, sembrò sollevato, lieto di questa notizia, ma indugiava, esitante. Forse stava per dirmi qualcosa. Come se vedesse qualcuno oltre le ombre che lo attorniavano, faceva l'atto di guardarsi intorno e mi parlò sottovoce:

    «Malaika, la mia bambina... Non vorrei che le accadesse qualcosa... Non le faccia del male. Se la incontra, la abbracci da parte mia...»

    Il giorno dopo presi il traghetto per Bissau.

    A bordo, cercavo di riordinare le idee. Secondo Mariano un bianco era partito in barca per i Caraibi. Si riferiva a Fosco?… Ne aveva parlato direttamente con lui?... Anche Muriel infatti mi aveva accennato a questo suo progetto. Il vecchio temeva per la figlia: chi avrebbe voluto farle del male?… Confrontando le scarne notizie avute da Mariano con le testimonianze di Isabelle, mi convincevo sempre di più che era Malaika la depositaria dei tasselli mancanti in questa storia, l’unica in grado di svelarne l’enigma.

    Il piccolo e pittoresco naviglio che faceva servizio tra le Isole e la terraferma, non poteva contenere più di tre o quattro auto e una ventina di persone allineate su panche di legno all’interno di un abitacolo disposto lungo la fiancata destra. All’altro lato, una struttura sulla quale torreggiava la piccola cabina di comando.

    Prima dell’arrivo a Bissau fummo sorpresi da un violento temporale. Si preannunciò da ponente con l’avanzare rapido di un cielo basso, gravido di nuvoloni scuri che in pochi minuti lo coprirono tutto come un manto. Era solo il primo pomeriggio, ma sembrava calata la notte. Lampi apocalittici, seguiti subito dall’esplosione del tuono, squarciavano quel buio quasi totale, illuminando in quell’attimo un’impenetrabile muraglia di pioggia che il vento faceva turbinare quasi orizzontale di traverso alla prua. L’imbarcazione avanzava lenta, sbandata paurosamente a destra, e i passeggeri fissavano con orrore le piccole onde che scorrevano sottovento, vicinissime e nere, minacciando di debordare dalla fragile finestratura. In tale situazione mi tornavano in mente i racconti del vecchietto di Ziguinchor, compagno di pesca del povero Gérard, e i suoi riferimenti alle dimensioni mostruose che potevano raggiungere gli squali nelle acque delle Bijagos. Nell’incombere del momento fatale ero però confortato dal vedere, lassù nella piccola cabina, alla fioca luce di una lanterna, le figure del comandante e dell’unico marinaio di bordo, palesemente ubriachi, darsi manate sulle spalle e sbellicarsi dalle risa, bevendo a garganella da una bottiglia che probabilmente non era di acqua minerale.

    All’improvviso fu la luce e la quiete, grandi cumuli bianchi verticali, e il sole. Nuovamente un sole ardente sopra Bissau, l’assenza di vento, vapori di marciume e un’afa da togliere il fiato.

    Sbarcato al porto di Bissau e trovata una sistemazione per la notte, il mattino dopo mi feci portare da un taxi all’Ufficio di Polizia. Messo un biglietto da cento dollari

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