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Il Sogno e la Realtà
Il Sogno e la Realtà
Il Sogno e la Realtà
E-book164 pagine1 ora

Il Sogno e la Realtà

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Info su questo ebook

Il Sogno e la Realtà è un’opera letteraria composta da Giuliana De Gaetano Capizzi, fitta di particolari che delineano un passato nel quale gioie e preoccupazioni hanno invaso il vissuto della nostra bravissima Autrice.
Scritto in età matura, e nella piena consapevolezza delle sue capacità emotive ed espressive, Giuliana De Gaetano Capizzi ha portato alla luce i suoi ricordi adolescenziali intrisi di quella dolcezza e colorati da quelle tinte cipriose che hanno saputo offuscare le difficoltà di quei momenti; attimi che hanno cambiato il destino degli uomini e deviato il percorso della Storia.
Giuliana si rivede adolescente, tra i suoi cari, nella sua città, inserita in un contesto epocale incredibile, denso di bellezza, di fascino e di armonia. 
La sua è una testimonianza autentica, rivelatrice di capacità introspettiva e di una sensibilità accorta e profonda. Emozioni e sensazioni hanno inciso per sempre il suo animo provocando ferite insanabili attestanti l’orrore da lei visto e respirato con tutto il suo essere.
Il racconto presenta una struttura sintattica essenziale, netta, nella quale il ritmo della narrazione è cadenzato da pause che scandiscono il tempo che si lega inesorabilmente al mondo e a tutto ciò che ruota intorno.
LinguaItaliano
Data di uscita15 ago 2023
ISBN9788830688490
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    Anteprima del libro

    Il Sogno e la Realtà - Giuliana Di Gaetano Capizzi

    I

    Il bellissimo bosco

    Il bellissimo bosco che noi chiamavamo nostro, e nostro non era, aveva altissimi pini e nella bella stagione il sole argenteo, azzurro e verdino appariva e scompariva, quasi giocando a nascondino, ma era sempre lui, il sole che giocava.

    E l’aquilone saliva e si impigliava tra i rami.

    A terra, piantine di fragole mature.

    E gioivamo e ridevamo, perché la vita era bella, la vita era meravigliosa.

    Non sognavamo.

    Eravamo lì, con i nonni, gli zii, noi cugine. I cinque anni della nostra età ci consentivano la visione felice della vita.

    Poi vennero i sette anni.

    Si iniziò ad andare a scuola. Diventammo brave scolarette.

    Scuole in città diverse, diverse abitudini.

    Ma il ricordo fiabesco di quel bosco incantato rimase impresso indelebilmente nella nostra memoria.

    Io vivevo ad Abbazia, papà era un Capitano e comandava, in assenza del Maggiore, il circolo di Volosca, mamma era una bella signora, la chiamavano La Capitana.

    Noi tre fratelli ci discostavamo gli uni dagli altri di due anni.

    Abbazia era una favolosa cittadina, con alberghi dorati e ristoranti, dove potevi gustare portate di diverse nazionalità. Magnifiche erano le patatine fritte, tagliate a fiammifero, dei francesi.

    Dall’alto del convento degli Olivetani scendeva a trovarci don Ramiro.

    Arrivava alla nostra villetta e raramente accettava un uovo al tegamino. Era colto. Lassù, nel convento, avevano delle scaffalature che contenevano antichi tomi, spessi, pesanti ed erano tanti. Le scaffalature ne erano ricolme.

    Ad Abbazia, il mare profondo, che sognava mostri paurosi, agitatissimo, si infrangeva sugli scogli e spumeggiante veniva a lambire la strada, mentre gabbiani e passerotti svolazzavano gioiosi nell’aria.

    Nella vetrina di un negozio troneggiavano stecche di cioccolato e una distesa di cacao scendeva a cascata accanto a una moltitudine di caramelle di diverso gusto e colore.

    Il negozio apparteneva a un vecchio signore olandese che sembrava stesse lì più per passare il tempo che per vendere.

    Un’importante insegna era attaccata al balcone di una sartoria che oltre alla proprietaria aveva una direttrice e una cinquantina di lavoranti. Venivano confezionati i più ricercati abiti da ballo. Anche mamma ne possedeva uno e quando lo indossava aveva un’aria di sogno.

    II

    Mi condussero all’Opera

    Il cartellone batteva sul muro a seconda degli scossoni del vento.

    Era il 12 dicembre 1938. Il cartellone avvisava che quella sera avrebbe cantato Beniamino Gigli nella Manon Lescaut di Massenet.

    Capannelli di gente parlavano dell’avvenimento che aveva un sapore di rarità, visto che il teatro sarebbe stato chiuso due settimane più tardi.

    Si attendeva la macchina che ci avrebbe condotti a Fiume, ed io ero quanto mai meravigliata dei volti infreddoliti dei miei che battevano i piedi a terra cercando di scaldarsi.

    Presa dall’entusiasmo potevo dire di avere caldo.

    Il percorso fu non breve e non lungo, durò il tempo necessario per percorrere 30 chilometri a 70 chilometri all’ora.

    Avevo dieci anni e, nell’entrare per la prima volta in quell’ambiente, tempio sacro della musica e così fastoso, venni presa da una loquacità insolita.

    Parlavo con gli amici comuni, che soliti al mio silenzio, mi guardavano con mal celata meraviglia e perché no, anche con un po’ di compiacimento.

    Quando poi entrai nel palco di prima fila e mi si spiegò che era uno dei migliori, iniziai a darmi le arie di gran donna che, data la mia età, il mio vestito di velluto rosso sopra il ginocchio e le scarpe basse, poteva solo far ridere, e ciò sarebbe successo se qualcuno mi avesse notato.

    Ma a tutto pensavano fuorché a me.

    L’orchestra iniziò quella lenta nenia che è l’accordo degli strumenti che precede l’inizio e dura sino a quando si alza il sipario. Cosa che avvenne di lì a poco.

    Si spensero le luci, seguì un silenzio di attesa, e nel buio si aprì il pesantissimo sipario molto lentamente, mentre le frange di finitura, particolarmente lunghe, ondeggiavano.

    Notai il direttore d’orchestra alzare la luccicante bacchetta e dare il via ai musicisti.

    Ora, ripensandoci, sento la soavità di quella musica, ma in quegli anni la mia sensibilità musicale era limitata.

    Allora nulla mi interessava se non l’appagare il mio desiderio di vedere il famoso cantante, il grande Gigli.

    Lo immaginavo aitante e pieno di fascino come gli attori cinematografici.

    A un certo punto io chiesi: «E Gigli dov’è?».

    «Sshhh – Mi si fece. – Lì, non vedi?!».

    E dato che c’era un unico uomo sulla scena, capii che era lui.

    Grosso, grasso, basso. Lo guardai e mi sentii infastidita.

    Mi guardai intorno: il commendatore, alla mia destra, alto, serio, rapito. La moglie, piccoletta ed elegantissima, portava un vestito di merletto nero molto aderente e all’inizio della generosa scollatura aveva appuntata una spilla di brillanti. Ricordo anche la sua pettinatura. Aveva i capelli raccolti alla nuca, pettinatura che a quell’epoca era molto chic. Troppo impegnata a non sciupare il rimmel agli occhi, si guardava bene al non cedere alla commozione, cosa che, per altro, era sommamente evidenziata da miss Anna che faceva andare il fazzoletto dagli occhi luccicanti alla borsetta e dalla borsetta agli occhi. Notai che sarebbe stato opportuno sciorinarlo, tanto era bagnato.

    I miei erano completamente partiti.

    Dio mio! – mi dissi – Ma questo non è rapimento, è estasi!.

    Guardai giù in platea.

    Nella semioscurità le mani delle signore sollevavano trine bianche. Ancora fazzoletti. Ma ero pur io una donna, perché non piangevo? Perché non provavo rapimento? Che donna ero?

    Decisi che senz’altro dovevo essere una piccola

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