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La poltrona di sassi
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La poltrona di sassi
E-book197 pagine2 ore

La poltrona di sassi

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Info su questo ebook

“L’amore eterno non è una leggenda,
si può amare per sempre
una donna o un luogo
incantevole come Cuba.”

Marco Fabbri è nato nel 1938 a Bologna, città dove risiede. Ha lavorato nel settore dell’abbigliamento come agente di commercio e poi come imprenditore, ora è in pensione. Dipinge opere olio su tela, scrive testi di fantasia ma anche di vita reale e ama l’arte.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9788830674745
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    Anteprima del libro

    La poltrona di sassi - Marco Fabbri

    cover01.jpg

    Marco Fabbri

    La poltrona di sassi

    Dall’Appennino Emiliano a Cuba

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6930-7

    I edizione novembre 2022

    Finito di stampare nel mese di novembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    La poltrona di sassi

    Dall’Appennino Emiliano a Cuba

    Desidero ringraziare le persone che hanno creduto in me nella creazione di questo libro, in particolare i miei figli, Sammy e Gianmarco per le ricerche a Cuba e in Italia e Marco per la stesura del testo, ma anche chi mi ha voluto bene e amato da sempre nella vita.

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima.

    (Trad. Ginevra Bompiani)

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Qui nell’alto Appennino emiliano, da qualsiasi parte volgi lo sguardo la sensazione che cattura la mente è quella di trovarti in un luogo dove il tempo si è fermato a qualche secolo fa, infatti è più facile imbattersi in un borgo antico con rocche medievali piuttosto che in un paese moderno. Poi c’è lui, il Reno, il fiume amato da tutti gli abitanti locali. Le sue scroscianti cascate le cui acque dopo aver saltellato tra le rocce, come per prendersi un meritato riposo, si diramano in calmi torrenti per dar vita a mulini che purtroppo il futuro cambierà a far sì che diventino sempre più rari.

    Amo fermarmi per godermi questi stupendi panorami che le varie stagioni mi offrono, i mille colori di primavera, i verdeggianti alberi estivi, il giallo dorato dell’autunno e per chi lo sa apprezzare anche l’inverno ha un grande fascino, la prima neve che mulinando si posa silenziosa distribuendo su ogni cosa una coltre bianca che renderà più fertile la terra nelle future semine.

    Questi meravigliosi scenari nei secoli scorsi i più famosi pittori li hanno immortalati sulle tele e molti poeti li hanno decantati nelle loro poesie. Io vivo questo splendore da un’eternità anagrafica, con il Corno alle Scale alle spalle e la valle del Reno sottostante. Tranne periodi di gioventù che mi portarono in giro per il mondo, il resto della mia vita l’ho trascorsa in questo paradiso silenzioso. In cima alla collina che sovrasta la fattoria ho tumulato i miei amati genitori e quando Dio vorrà andrò a riposare godendomi la pace di questa colorata natura. Vengo in questo luogo anche di sera e mi siedo nella poltrona di sassi e roccia che ho costruito, da qui il cielo è così vicino, che dà l’illusione di poter afferrare le stelle e quando c’è luna piena l’ululato di un lupo mi tiene compagnia, ma lo spettacolo si completa nelle notti estive quando un mare di lucciole si accendono e si spengono sui campi di grano. Più di una volta il sonno mi ha sorpreso mentre contemplavo questo miracolo della natura.

    Qui ho vissuto da sempre con mia moglie Giovanna, due figli e le rispettive compagne, poi sono arrivati quattro nipoti, tutte femmine. Nella, Vittoria e Carla da mio figlio Marco e da sua moglie Alessandra, Anna dall’altro figlio Giovanni con la moglie Maria. Il maschio mancava a tutti noi e quando Anna conobbe un giovane di Porretta impiegato nelle famose Terme lo accogliemmo come fosse un altro figlio. Dopo un tempo molto breve si sposarono, Anna era in cinta ma Sergio (quello era il suo nome), non sposò soltanto la ragazza, ma sposò anche la causa partigiana contro i tedeschi. Così oltre alle gioie aumentarono anche le paure, soprattutto quando non avevamo da lui notizie per settimane e il bambino che Anna portava in grembo cominciava a dare i primi calci. Quando venne alla luce e vedemmo che era un maschio, tutti dissero che era uguale a suo padre, in effetti la rassomiglianza era notevole, stessi capelli chiari e stessa fossetta nel mento soltanto gli occhi erano più scuri, però dissero che con il tempo si sarebbero schiariti. Così io e Giovanna diventammo bisnonni di un pargolo di quasi 4 kg, ed è proprio di questo nipote di nome Alex che vi racconterò parte della sua vita ribelle.

    Nacque il 15 aprile del 1944 durante la fine della Seconda Guerra Mondiale. Alcuni mesi prima suo padre, combattente partigiano, venne catturato dai tedeschi e fucilato. Era uno dei tanti giovani che aiutarono gli alleati angloamericani a liberarci dell’usurpatore straniero. La sua vita fu breve, ingiustamente breve. Quell’anno non vide il colore dei fiori di pesco, né quello dei mandorli e neppure le prime margherite. Non sentì il profumo dei boschi portato dal maestrale, ma sono certo che avrebbe barattato queste meraviglie con la gioia di vedere almeno una volta il viso di suo figlio. Cadde in un’imboscata in una fredda giornata invernale, la neve e il ghiaccio avevano ricamato il paesaggio rendendolo magico come una cartolina natalizia.

    Da sempre si disse che a tradirlo, come Giuda, rivelando il suo nascondiglio fu un finto amico che fingendosi partigiano collaborava invece con i fascisti per denaro.

    Quel personaggio di nome Uber abitava in paese e si conoscevano fin da piccoli. Nel periodo che la guerra volgeva al termine e i tedeschi erano in fuga verso il Brennero, Uber, con i genitori per sottrarsi ad eventuali vendette, riuscì ad espatriare rifugiandosi in Argentina dove in quel periodo la cultura fascista era ben accetta. Purtroppo Anna, la madre di Alex, dopo il parto cadde in una forte depressione e si lasciò consumare lentamente come una candela. Anna amava profondamente il padre di Alex, l’amore le aveva dato le ali e la faceva volare sempre più in alto, ma poi qualcuno quelle ali le spezzò, lei precipitò sempre più in basso e non riuscì più a risalire. Così alzai un’altra croce in cima alla collina accanto ai miei genitori e quella di Sergio, suo marito.

    Il ragazzino rimanendo orfano ancor prima di conoscere mamma e papà fu cresciuto nella adorazione di tutti noi, in special modo dalle tre zie Nella, Vittoria e Carla, figlie del mio primogenito Marco, le quali essendo più grandi lo coccolavano come fosse un loro figlio. Per non parlare poi dei suoi nonni Giovanni e Maria, a volte capitava addirittura se lo contendessero. Soltanto in seguito ci accorgeremmo che lo avevamo viziato troppo. Io per primo gli perdonavo ogni marachella che combinava fin da piccolo, invece di insegnargli a lavorare la terra del piccolo podere che un giorno sarebbe diventato suo, gli insegnavo a suonare la chitarra e l’armonica. Lo portavo a pescare trote nelle limpide acque del Reno e lo lasciavo guidare la moto. Il carattere irascibile e puntiglioso, probabilmente lo ereditò da suo padre, anche se con noi si dimostrò sempre gentile ed affettuoso, mentre con i suoi compagni di scuola era tutt’altro.

    Non mancava un giorno che non tornasse con i segni di qualche scazzottata. Un giorno tornò con lividi in tutto il corpo e raccontò che il padre di un suo compagno aveva organizzato degli incontri di boxe con guantoni da pugile, ma quei guantoni erano enormemente pesanti, da pesi massimi non certo adatti a ragazzini di 11 anni, infatti dopo alcune riprese nessuno dei due avversari riusciva a tenere la guardia alta e così si picchiava dove capitava e il risultato era che i corpi sembravano una carta geografica. Mia moglie Giovanna, quando lo vide spogliato e notò che era tutto blu si mise a piangere, ma il ragazzo la consolò abbracciandola dicendole che stava benissimo e che non sentiva più alcun male, anzi gli era piaciuto molto quell’incontro. Suo zio Marco il mattino dopo andò a redarguire quell’uomo, il quale si scusò dicendo che pensava che per loro fosse un gioco, sembrava sinceramente dispiaciuto e la cosa finì lì.

    Erano tempi in cui la boxe era molto seguita e praticata, eravamo nel 1955 e i campioni di allora erano i pesi massimi: Rocky Marciano, Jersey Joe Walcott, Ezzard Charles. Pesi medi: Sugar Ray Robinson, Jake La Motta (soprannominato il toro del Bronx).

    Pur non amando particolarmente gli studi, il ragazzo se la cavava discretamente, noi speravamo che scegliesse di prendere il diploma di perito agrario, anche se eravamo consapevoli che nei suoi obiettivi non c’era certamente la gestione del nostro podere. Onestamente dovevamo ammettere che era un po’ vagabondo. Preferiva la chitarra che suonava in contemporanea alla sua armonica, la pesca, che a volte lo faceva rientrare soltanto all’imbrunire e poi c’erano i motori, amava le Ferrari e le moto MV

    Augusta. Anche nella musica aveva le sue preferenze, gli piacevano i Rolling Stones piuttosto che i Beatles, in seguito si invaghì delle canzoni di Fabrizio De Andrè, al punto di imitarlo alla perfezione.

    Quanto suonava per noi era sempre una festa, ci raccoglievamo attorno al falò se la stagione lo permetteva, oppure al camino di casa e il nostro ragazzo ci regalava serate bellissime di intensa coalizione di gruppo. Sul finire di quelle festicciole non mancava mai la richiesta allusiva di una canzone che piaceva a tutti noi e lui con un sorriso sornione intonava: Vagabondo dei Nomadi, a quel punto anche le ragazze si scatenavano in un canto corale.

    Tramonto sul mulino ad acqua – Olio su tela – Marco Fabbri

    Il tempo stava scivolando verso il futuro ma nel nostro piccolo podere tutto procedeva come nel tempo passato. Le ragazze studiavano con profitto, il mulino rendeva bene, le caprette e la mucca portavano latte che in parte veniva trasformato in formaggio. Le galline non erano avare di uova e i vigneti che mio padre fece crescere con il metodo a terrazze esposte a sud, producevano Cabernet che poi veniva venduto alla cooperativa. Anche la sorgente continuava a sgorgare un’acqua buonissima, un’industria di acque minerali ci aveva offerto di concedergli la concessione, ma per me vederla zampillare rappresentava un ricordo della mia famiglia, quindi non me ne sarei mai separato fino a che fossi restato in questa bellissima valle, la sorgente sarebbe rimasta come la natura l’aveva creata. A interrompere quella serena atmosfera era ancora lui, il ragazzo dai lunghi capelli (a quei tempi venivano definiti cappelloni). La sera non era ancora scesa quando giunse da noi il padre di un ragazzo compagno di scuola di Alex.

    Era abbastanza alterato in quanto sosteneva che il proprio figlio era stato colpito da un sasso in faccia che per poco non era arrivato all’occhio e a tirarglielo era stato Alex, il cappellone appunto. Il fatto di definire in modo dispregiativo mio nipote mi irritò un pochino, in secondo luogo non credevo a quella versione, non era nello stile del ragazzo compiere un gesto simile. Lo chiamammo immediatamente e gli chiedemmo di spiegarci come erano andate le cose e lui prontamente disse che gli aveva dato un pugno perché il ragazzino aveva augurato un brutto male

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