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La Mimma Maia
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E-book512 pagine7 ore

La Mimma Maia

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Info su questo ebook

La volontaria Elisa assiste Maria durante l’ultimo periodo della sua vita. Maria è una donna dal carattere grintoso e un intenso vissuto che sceglie di raccontare proprio a Elisa, anzi fa di più: le affida i taccuini in cui ha scritto di un suo grande amore e le chiede di farne un libro. 
Dopo la morte di Maria, Elisa sistema gli appunti e ne narra la storia in prima persona: sposata con il chirurgo Alfredo, Maria vive a Venezia, è ligia ai suoi doveri di moglie e madre, mentre Alfredo è spesso assente per via del lavoro. Una sera Maria si ritrova da sola a Lugano per presenziare a una cerimonia e s’imbatte nell’ufficiale Andrea che si pone con lei in maniera iraconda, nonostante i suoi occhi rivelino una profonda fragilità – anche Andrea è sposato, ma sua moglie è una donna pestifera.
Tra i due esplode una passione che è impossibile reprimere, il preludio di un amore travolgente che li accompagnerà per sempre e in segreto. Anche un certo “mistero” li accomuna, quello di Mimma Maia, un nome che Andrea pronuncia distrattamente e che a Maria evoca ricordi lontani.  
La vita di Maria è scandita da distanze e riavvicinamenti, sorprese, imprevisti, nuovi incontri, impegni famigliari, ma con Andrea, quell’uomo solitario di cui lei scopre anche il lato più tenero, il legame non si spezzerà mai. 
Miryam Caputo dà vita a una storia appassionante, originale e sorretta da una protagonista coraggiosa che si fa amare.  

Miryam Caputo è nata e vive a Venezia con la sua famiglia. Il suo cuore è sempre stato stregato da questa meravigliosa e unica città. Questo romanzo non ha nulla del suo vissuto. Solo una cosa accomuna Maria all’autrice: la passione per il volo. Miryam, prima da bambina, poi da ragazza, e infine da donna, ha avuto sempre un unico sogno: entrare a far parte dell’Aeronautica Militare per poter pilotare un caccia. All’epoca, però, di donne nell’esercito non ne volevano. Ma il sogno di poter sfrecciare nel cielo, anche per pochi minuti, non l’ha mai abbandonata.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2022
ISBN9788830672550
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    Anteprima del libro

    La Mimma Maia - Miryam Caputo

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    PROLOGO

    Questa storia mi è stata ispirata dopo un’accurata lettura di alcuni taccuini che mi furono affidati da Maria, una dei due protagonisti.

    Nel consegnarmeli mi disse:

    «Io li volevo bruciare, ma tu mi piaci e te li affiderò, leggili attentamente, poi deciderai tu se narrare la nostra storia d’amore o distruggerli.»

    Ribattei che non ero una scrittrice, tutt’altro, sono negata.

    «Leggili, vedrai che ti verrà facile» concluse.

    Quando lei mancò, li lessi e la loro lettura mi appassionò talmente che li finii tutti in una notte.

    Dicono che le storie d’amore siano sempre scontate, ma la loro non lo era affatto.

    Decisi che avrei tentato di descrivere, come meritava, la loro stranissima ma appassionante storia d’amore.

    Essendo troppi gli episodi descritti da Maria ho cercato di scegliere quelli che ho reputato più significativi, quelli che li hanno accompagnati durante il loro legame durato oltre due decenni. Erano due persone meravigliose che hanno sempre anteposto i loro doveri famigliari, con grande senso del dovere, alla loro felicità.

    Ma non per questo si erano negati attimi di paradiso.

    E ora, come diceva Andrea, l’altro protagonista, prima di salire sul suo caccia per una missione, dirò solamente:

    «Diamo inizio alle danze!»

    La frase con cui inizierò la mia avventura come scrittrice è molto usata in letteratura, quasi scontata, però anche le cose scontate, talvolta, possono corrispondere alla verità:

    CAPITOLO 1

    Era una giornata uguale a tante altre, ma mai e poi mai avrei pensato che ciò che mio marito e io decidemmo quella mattina avrebbe cambiato per sempre la mia vita.

    Mi chiamo Maria e faccio la casalinga per mia volontà, mio marito, Alfredo, è un medico chirurgo che presta servizio presso l’Ospedale Civile della nostra città, Venezia.

    Lo fa per undici mesi all’anno poiché il dodicesimo parte per i paesi del terzo mondo con una ONG per aiutare quelle popolazioni bisognose.

    A completare la famiglia ci sono due adorabili giovanotti, Simone e Marco.

    «Amore, puoi venire un attimo in cucina, devo dirti una cosa...»

    Gridò mio marito dall’altra parte della casa.

    «Arrivo al volo» risposi io.

    Quando fui in sua presenza mi disse:

    «Scusami, ma mi hanno cambiato il turno. Domani non posso andare a Lugano al posto di tuo papà per quella cerimonia. Puoi andarci tu?»

    «Uffa! Sai che queste cose non mi piacciono, ma purtroppo qualcuno di noi deve pure andarci e, se non vai tu, dovrò andarci io.» Poi proseguii: «E se si facesse tardi e fossi obbligata a restare a dormire fuori? Tu riusciresti a cavartela da solo con le due pesti?»

    «Come sempre, amore mio!» esclamò lui attirandomi a sé.

    Poi, baciandomi con passione, aggiunse:

    «Maria, ti amo ancora da impazzire, quasi come il giorno che ti ho sposato.»

    «Quasi eh! Vai via che è meglio. Vuoi vedere che il cambio turno l’hai chiesto tu per evitare di andarci? Scommetto che, se ti avessi detto che a Lugano non ci sarei andata, saremmo ancora qua a discutere animatamente...»

    «Già!» ammise lui. Ma poi strizzandomi l’occhio aggiunse: «Ma stasera a letto avremmo fatto la pace!»

    «Meglio che te ne vai. Sai cosa sei, sei un ruffiano. Okay, vado io. Preparerò in fretta quello che vi serve, così non avrai nulla di cui preoccuparti.»

    Mi diede un altro bacio e se ne andò.

    Mi scocciava – e molto – doverci andare. Si trattava di una premiazione per l’assegnazione di borse di studio a tre studenti meritevoli per corsi di perfezionamento all’estero.

    Mio papà, a questo scopo, aveva fatto una cospicua donazione alla Fondazione che le assegnava e qualcuno della famiglia avrebbe dovuto presenziare, visto che le sue precarie condizioni fisiche gli impedivano di viaggiare.

    In fretta e furia riuscii a organizzare tutto per la mia assenza dell’indomani.

    Mangiare. Fatto!

    Nota delle cose necessarie da fare attaccata sul frigo. Fatto!

    Valigia. Pronta!

    Potevo andare.

    Beh, tutto sommato avrei fatto una minivacanza, cosa che a noi casalinghe non capita quasi mai.

    Con me avrebbe viaggiato un senatore, un caro amico di famiglia e, poiché era una persona simpaticissima, almeno il viaggio sarebbe stato gradevole.

    A Padova salirono sul treno alcuni amici suoi. Erano dei generali che andavano ad accogliere un nostro contingente di ritorno da una missione all’estero. Si accomodarono vicino a noi e cominciammo a chiacchierare.

    Così tra una chiacchiera e l’altra arrivammo a Milano.

    Ad attenderci c’era la macchina dell’organizzazione che ci doveva condurre a Stresa.

    Pensai: Fino a qua siamo in orario perfetto! Ed era meglio non l’avessi fatto.

    In quel momento ci annunciarono che c’era un problema, poiché il volo di uno dei premiati portava un’ora di ritardo.

    A questo punto, avrei dovuto pernottare là.

    Trovai posto in un hotel di Stresa prospicente al lago di Lugano.

    Alla reception chiesi se avessero potuto assegnarmi una camera molto tranquilla, perché volevo riposare. Mi risposero che me ne avrebbero assegnata una al quarto piano. Là ve ne era occupata solamente un’altra, da una persona che aveva le mie stesse esigenze.

    Finalmente fummo tutti presenti e potemmo partire alla volta di Lugano. Mentre salivamo in macchina, sussurrai all’orecchio del senatore con tono ironico:

    «Si vede che sono svizzeri! Tutto in perfetto orario.»

    Lui sorridendo mi rispose:

    «Fai la persona seria, almeno per una volta! Ti conosco da quando eri bambina e non sei mai cambiata. Hai sempre voglia di scherzare su tutto.»

    Detto ciò, ci avviammo.

    CAPITOLO 2

    Come da copione, la cerimonia di assegnazione delle borse di studio fu lunga e mortalmente noiosa. Dopo aver stretto mani a destra e sinistra finalmente potemmo rientrare a Stresa.

    «Sicura di non voler venire a cena con noi, signora, sono solamente le venti...» mi chiesero.

    Gentilmente risposi che ero stanca e che preferivo salire in camera a riposare.

    Giuro che, se fossi rimasta con quelle persone ancora dieci minuti, sarei esplosa.

    Mi feci dare la tessera magnetica della stanza, presi l’ascensore e salii.

    Finalmente mi sarei riposata un po’.

    Sbagliato!

    Qui ci fu il coronamento di una giornata partita male che voleva finire anche peggio!

    La tessera entrava nella serratura, ma la porta non si apriva.

    Armeggiai con la maniglia e con la serratura vigorosamente.

    All’improvviso, la porta della camera vicino alla mia si aprì. Ne uscì una persona, un militare, che affermare fosse furioso è dir poco.

    Mi guardò e cominciò a sbraitare:

    «Ma cos’ha lei che non va per fare tutto questo casino, è impedita, handicappata che non riesce ad aprire una porta?»

    A quell’aggressione verbale non ci vidi più e gli urlai contro.

    «Innanzitutto, si dia una calmata e non si permetta di trattarmi così, chi crede di essere? Vuole che le dica io chi è lei? Lei è il classico esempio che dimostra che i militari sono solo dei pezzi di merda boriosi, pieni di sé e cafoni. Adesso si comporti da persona civile e non da animale.»

    Questa mia sfuriata l’aveva un po’ spiazzato, non ribatteva nulla, così aggiunsi:

    «La tessera entra ma non apre la serratura. Grand’uomo, venga lei a provare. Vedrà che mi farà compagnia, in corridoio gli handicappati da uno passeranno a due.»

    Detto ciò, mi strappò in malo modo la tessera dalla mano e provò.

    La porta non si apriva, ovviamente!

    Con aria di sufficienza mi disse:

    «Allora vada in camera sua, chiami la reception e se ne faccia portare un’altra.»

    «Ha parlato Sherlock Holmes...» dissi guardandolo con aria compassionevole: «Genio, mi spiega come faccio a chiamare se non riesco nemmeno a entrarci in camera!»

    «Va bene, lo farò io dalla mia.»

    Feci per avvicinarmi, ma lui mi intimò:

    «Si fermi là, provvedo da solo.»

    Pensai che fosse un gran maleducato e gettai un’occhiata all’interno della sua camera.

    Vidi una cosa che non mi piacque per niente.

    Non erano affari miei, pensai, e non dissi nulla.

    CAPITOLO 3

    Uscì e mi comunicò che un addetto sarebbe arrivato a breve con la tessera nuova.

    Restammo lì, in silenzio, per alcuni minuti.

    Finalmente l’addetto arrivò e mi aprì la stanza.

    Sbuffando alzai gli occhi e lo guardai, nonostante mi stesse abbondantemente sulle scatole, dovevo pur ringraziarlo.

    A vederlo mi si strinse il cuore. Aveva uno sguardo talmente triste e sconsolato che mi fece pena, così gli dissi:

    «Mi scusi per prima, ho un brutto carattere, mio marito mi dice sempre che sono un po’ troppo fumina

    Sorrise debolmente:

    «Anch’io non è che mi sia comportato molto bene, signora, mi scusi, ma ho appena avuto una lite furibonda con mia moglie e sono ancora tutto agitato, mi perdoni. Come vede, anche i ‘pezzi di merda’ hanno un cuore.»

    Arrossii e allungando la mano dissi:

    «Pace?»

    «Pace!» rispose lui.

    Quando le nostre mani si toccarono fu come se nel cielo fossero scoppiati tutti i fuochi d’artificio del mondo. All’improvviso mi parve di conoscere tutto di questo sconosciuto. Mi turbò sentire che stavo cominciando a desiderare che lui mi prendesse tra le sue braccia. Il respiro mi stava diventando un po’ corto e non volevo lui se ne accorgesse.

    Lentamente alzai lo sguardo.

    Anche lui aveva il respiro affannoso e mi stava fissando.

    Restammo così, immobili, senza staccare le nostre mani per parecchio tempo.

    All’improvviso, una folata di vento stava per far chiudere la porta della mia camera. Feci uno scatto e la bloccai. Anche lui fece lo stesso e mi venne addosso.

    «Meno male che non si è chiusa, avevo lasciato la tessera dentro.»

    Non feci in tempo a finire la frase.

    Lui mi girò, mi trasse a sé e mi baciò a lungo, con passione.

    Poi mi spinse dentro la camera e chiuse la porta con un piede.

    CAPITOLO 4

    Appena entrati, la sua espressione cambiò.

    Mi sbatté contro il muro, mi strappò camicia e reggiseno e, dopo avermi fissata per un istante, fece sesso con me. Lo fece con rabbia, con molta rabbia.

    Meno male che tutto terminò in un battibaleno. Lui appoggiò un istante la sua fronte sudata sulla mia, poi mi allontanò da sé bruscamente e andò in bagno.

    Mentre tentavo di aggiustarmi i brandelli dei vestiti, lo guardai.

    Era davanti al lavandino e si stava bagnando la faccia con l’acqua fredda, fissandosi allo specchio.

    Non riuscii a stare zitta:

    «Scusi, ma perché ho dovuto pagare io per tutta la rabbia che lei prova per l’universo femminile? Cosa le avrò mai fatto di male, che colpe avrò...»

    Lui si girò verso di me, stava piangendo. Le lacrime gli scendevano copiose dagli occhi.

    Con un fil di voce mi disse:

    «Signora, mi scusi. Io normalmente non mi comporto così. Sono nato e cresciuto tra le montagne, sono una persona semplice e timida.»

    Poi aggiunse quasi con disperazione:

    «I colleghi mi sopportano a malapena perché sono atipico ed essendo chiuso di carattere, sto sempre sulle mie, non vado a puttane, non gioco a carte e non bevo. Mia moglie poi mi tratta come uno straccio. A proposito di mia moglie, le ho già detto che ho litigato con lei.

    Vuole saperne il motivo?

    Torno dopo sei mesi di missione all’estero e sa cosa mi dice la ‘SIGNORA’? Mi dice di dormire da qualche altra parte stanotte e di tornare a casa l’indomani perché stasera deve andare a teatro con le amiche e che i bimbi sono già piazzati dagli amichetti.

    Capisce! Io ho fatto più di venti ore di viaggio e adesso dovrei essere a casa mia, con i miei figli. Dopo mesi di dura vita militare, invece di avere finalmente un po’ di calore mi trovo qua, in una stanza d’albergo, a quasi violentare una persona che non mi aveva fatto nulla. Farei qualsiasi cosa per farmi perdonare da lei, mi dispiace.»

    Detto questo si asciugò le lacrime con la manica della camicia, mi guardò, mise la mano sulla maniglia e uscì.

    Il suo sguardo era quello di un uomo disperato, di una persona che stava per tirare i remi in barca, faceva paura.

    Per la seconda volta nella mia vita percepii che stava per accadere qualcosa di brutto a una persona, la prima volta fu quando ero bambina, avrò avuto sì e no sette anni. Come allora, misi da parte la ragione e ascoltai il cuore.

    Aprii la porta e lo chiamai.

    Lui si girò con lo sguardo triste.

    Gli dissi:

    «Che ne dice di tornare dentro a farsi perdonare?»

    «Dopo quello che le ho fatto?»

    «Mi ha detto che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di farsi perdonare da me, mi dimostri che diceva la verità!»

    Replicai audacemente.

    Poiché continuava a stare immobile nel corridoio, lo presi per la manica della camicia e lo condussi dentro.

    Lui stava zitto e continuava a guardarmi. Mi inginocchiai sul letto e mi tolsi quello che restava dei miei vestiti, poi gli sbottonai la camicia e gli tolsi la maglietta, finì lui di spogliarsi.

    Fino ad allora avevo avuto solo un uomo nella mia vita, mio marito.

    Per un attimo mi sentii a disagio e mi vergognai per quella situazione.

    Timidamente, alzai gli occhi e lo guardai:

    Dio, quant’è bello pensai. Ha un fisico che sembra un bronzo di Riace.

    Non riuscii a pensare a null’altro perché lui si sdraiò sul letto e tirandomi a sé mi sussurrò:

    «Con la prima non mi farò molto perdonare, la desidero troppo, ma con quelle successive cercherò di fare del mio meglio.»

    Detto questo lasciammo che i sensi e la natura seguissero il loro corso.

    Facemmo l’amore per otto ore di seguito, fu tenero, esigente, appassionato. Le parole che ci scambiammo furono pochissime.

    Il cielo stava perdendo il buio cupo della notte quando andammo a fare l’ultima doccia.

    Mentre eravamo sotto il getto d’acqua, lui, togliendomi un ciuffo di capelli bagnati dal volto e sorridendomi dolcemente, mi chiese:

    «Sono riuscito a farmi perdonare da lei, signora?»

    «Alla grande, lei è stato perfetto, non so come ringraziarla per la splendida notte!»

    «Sono io che devo ringraziare lei, non saprà mai cosa ha fatto per me stanotte...»

    Detto questo vidi che restava impacciato a guardarmi, come se volesse chiedere qualcosa.

    «Dica pure, non la mangio mica, nonostante il mio brutto carattere.»

    Lo incoraggiai io.

    «Volevo chiederle se si potesse fare un’ultima volta qui, sotto il getto d’acqua.»

    Vide la mia perplessità e spiegò:

    «Il getto d’acqua mi ricorda quello di una cascata vicina a casa mia. Era in quel contesto che mi ero immaginato sarebbe stata la mia prima volta con una ragazza che amavo. Ma che purtroppo non tornò mai più da me.»

    La doccia era stretta, ma con un po’ di fatica e di contorsionismo ci riuscimmo.

    Mentre facevamo l’amore, lui mormorava un nome: ‘MIMMA MAIA’

    Quando finimmo, lui sussurrò con gli occhi chiusi e con la mente chissà dove:

    «Quanto ti ho aspettata, finalmente sei tornata...»

    All’improvviso mi venne alla mente dove avessi già sentito quel nome e ne rimasi sconvolta.

    No, non è possibile, sarà una coincidenza pensai.

    E in fretta scacciai da me lo sgradito ricordo.

    CAPITOLO 5

    Lui uscì dalla doccia e andò in camera prima di me.

    Quando lo raggiunsi era in piedi davanti alla finestra, aveva aperto le tende e stava là, immobile, a guardare l’arrivo del giorno.

    Imbarazzata, non sapendo come comportarmi, mi misi di lato in silenzio. Lui avvertì la mia presenza, si girò, mi trasse a sé e mi appoggio sul suo petto in modo che entrambi potessimo ammirare l’alba.

    Mentre mi accarezzava dolcemente i capelli mi sussurrò:

    «Sono molto stanco, non sto in piedi, mi sdraio un po’ a letto a riposare.»

    Io rimasi ancora là, davanti alla finestra.

    La luna e le stelle stavano impallidendo per l’arrivo del giorno e le acque del lago stavano assumendo un colore rosato.

    Non so perché, ma, guardando il cielo, rivelai a quel perfetto sconosciuto una delle mie cose più intime che non avevo mai raccontato a nessuno.

    «Lo sa, io ho sempre amato guardare il cielo, non mi ricordo chi un giorno mi disse: La terra è vita, il mare è forza ma il cielo è libertà.

    Ed è vero, sa. È come quando in montagna si sale sulla vetta più alta e sotto si intravedono tutte quelle più basse. In quei momenti, mentre sopra la tua testa volteggiano solo le aquile, respirando a pieni polmoni senti un’energia che ti ricarica che non ha uguali.

    Poi, però, inevitabilmente, catene invisibili ti riportano a terra. Queste catene si chiamano senso del dovere e responsabilità.

    Io da piccola stavo sempre col nasino impertinente a guardare in alto, mi dicevo che, una volta grande, avrei pilotato i ‘cacci’, così li chiamavo, al plurale. Buffo, vero?

    Quando fui più grandicella mi spiegarono che non avrei mai potuto farlo perché nell’esercito non accettavano donne.

    Allora rispondevo sostenuta che da grande avrei sposato un pilota così la domenica mi avrebbe portato a fare un giretto.

    Che ingenui si è a quell’età!

    Poi ci pensa la vita con quattro schiaffi a riportarti con i piedi per terra...

    Quando ebbi l’età, caparbiamente, presentai domanda all’Accademia. Mi risposero che non avevo i requisiti, essendo una donna.

    Sapesse cosa darei per poter volare, almeno una volta, su di un caccia prima di morire.

    I sogni non costano nulla, guai però a non averne...»

    Sentii il suo sguardo su di me.

    «Scusi, lei vuole riposare e io la sto seccando con i miei pensieri.»

    Senza parlare lui mi fece cenno di sdraiarmi accanto a lui.

    Stava sorridendo e gli si erano illuminati gli occhi.

    Quando mi sdraiai lui appoggiò la testa sul mio petto e chiuse gli occhi. All’improvviso si alzò su di un gomito e, guardandomi teneramente, disse:

    «Signora, io e lei abbiamo in comune molto più di quanto lei creda!»

    Si riaccoccolò sul mio petto. Poco dopo il suo respiro divenne regolare, si era addormentato.

    Poco dopo mi addormentai anch’io.

    Non so quanto dormimmo, ma all’improvviso lo sgradito suono della sveglia telefonica ci riportò alla realtà.

    «Non vorrei più alzarmi, non vorrei più andare via di qua» mormorò lui ancora assonnato «Sto benissimo. Dio che bello, che meraviglia!

    Non mi ricordo nemmeno più quand’è stata l’ultima volta che mi sono svegliato tra le braccia di una donna.»

    Poi, guardandomi sorridendo, aggiunse:

    «Bisogna alzarsi, bella signora, il dovere ci chiama!»

    CAPITOLO 6

    Il mio sconosciuto andò per primo in bagno a prepararsi.

    Mentre attendevo il mio turno pensai che fosse pazzesco il fatto che, dopo quello che avevamo fatto per tutta la notte, continuassimo a darci rigorosamente del ‘LEI’, surreale.

    Era come se avessimo voluto alzare un muro tra di noi. Non volevamo sapere nulla l’una dell’altro, né chi fossimo, né come ci chiamassimo, né da dove venissimo. Dovevamo restare due persone i cui destini si erano incrociati per una notte.

    E che notte! pensai stiracchiandomi. Credevo che queste situazioni si potessero vedere in un film al cinema, non che potessero succedere a una semplice casalinga di Venezia...

    Dal bagno mi stava arrivando la voce del mio sconosciuto che canticchiava.

    Che differenza dalla sera precedente!

    In quel momento lui uscì e mi disse che era arrivato il mio turno. Aveva ripreso il suo atteggiamento scostante, ma lo sguardo non era più quello di una persona disperata.

    Quando entrai nel bagno restai a bocca aperta. Aveva riordinato tutto, non pareva più il campo di battaglia che avevamo lasciato... Mentre pensavo ciò sentii la porta della stanza chiudersi, se ne era andato.

    Sospirai.

    Quando tornai nella stanza, restai allibita, aveva riordinato pure quella!

    Dopo aver messo nella borsa tutte le mie cose, prima di scendere a far colazione, diedi una rapida occhiata intorno per vedere se, per caso, non avessi dimenticato nulla.

    Ai piedi del letto qualcosa luccicava, era una delle sue stellette, caduta, probabilmente, mentre si spogliava.

    La raccolsi, la misi in tasca e scesi.

    Il senatore era già là assieme ai suoi amici generali.

    Poco dopo scese anche lui.

    Uno dei generali lo invitò a unirsi a loro.

    Incredibilmente rifiutò, disse che preferiva restare da solo!

    Allora il generale, un po’ seccato del rifiuto, rivolgendosi al senatore prese a dire:

    «Quella specie di uomo è il migliore dei nostri ufficiali, molto stimato, ma ha un carattere che Dio te lo raccomando. Se fa carriera è solo grazie alla sua bravura, che è notevole. È sempre solo, parla poco e poi circola la voce che sia impotente o omosessuale, nessuno l’ha mai visto accompagnarsi a una donna. Ha una moglie, chiamiamola così, che è un’arpia, un cubetto di ghiaccio, non la sopporta nessuno.»

    Sentirgli dare dell’omosessuale mi fece ridere, gli si poteva dire di tutto dietro, ma proprio omosessuale non mi pareva!

    Il senatore, che mi conosceva bene, vedendo il mio sorriso ironico me ne chiese la ragione.

    «Quel pover’uomo mi fa pena. Dirgli tutte quelle cose solo perché ama la solitudine, magari è timido, non ha voglia di compagnia...»

    Il generale mi interruppe con un lapidario:

    «Signora, lei non può capire, non conosce i fatti.»

    Pensai tra me e me:

    Conosco sì i fatti, e meglio di te! Io i fatti li ho conosciti per tutta la notte.

    Poi a voce alta risposi:

    «Se lo dice lei...»

    Finita la colazione, dissi che salivo in stanza a prendere la borsa. La macchina che ci avrebbe portato alla stazione di Milano sarebbe arrivata a breve.

    Mentre passavo accanto allo sconosciuto, senza farmi vedere da nessuno, lasciai cadere la stelletta che avevo trovato nella tazzina del suo caffè. Fatto ciò, mentre mi avviavo verso l’ascensore, avvertii il suo sguardo su di me.

    Salii e presi il mio bagaglio, mentre uscivo dalla stanza la guardai per l’ultima volta sospirando, ne avrei serbato il suo ricordo per sempre.

    Stavo chiudendo la porta quando due braccia mi cinsero alle spalle. Dopo un primo attimo di paura vidi che era lui. Mi guardava fisso, scrutandomi, quasi volesse imprimersi nella mente indelebilmente i tratti del mio volto, poi rudemente mi trasse a sé e mi baciò con veemenza fino a togliermi il fiato. Mi strinse un’ultima volta.

    Mormorò solo un:

    «Grazie!» E sparì.

    Capii che aveva sentito tutto quanto era stato detto su lui, mentre facevamo la colazione.

    Quando scesi, la macchina era arrivata, mentre vi salivo mi dissi:

    «Maria, giudizio, si torna a casa.»

    CAPITOLO 7

    Ritornai alla vita di tutti i giorni.

    Ogni tanto il mio pensiero, soprattutto alla notte, tornava a quello sconosciuto. Mi chiedevo dove fosse, cosa facesse e se stesse bene.

    A dir la verità provavo vergogna per certi miei comportamenti e arrossivo da sola, là, nel buio della mia stanza.

    Quella della crema di cioccolato, poi, mi toglieva addirittura il sonno, come avevo potuto essere così audace e sfacciata.

    In fin dei conti ero una moglie e una madre di famiglia, per di più timida...

    Avevo trovato nel frigobar due confezioni di crema al cioccolato, me ne ero spalmata un po’ addosso e gli avevo chiesto se ne volesse assaggiare un po’.

    Lui ridendo sonoramente – fu la prima e unica volta che lo sentii ridere quella notte – prese la confezione, si spalmò sul petto ciò che ne restava e mi provocò dicendo:

    «Scusi madame, perché devo ingrassare solo io, ne mangi un po’ anche lei...»

    Che vergogna!

    CAPITOLO 8

    Erano passati circa sei mesi da quello strano incontro quando la storia si ripeté.

    Quel pomeriggio io e Alfredo eravamo stati invitati a un’inaugurazione di non mi ricordo che cosa in un edificio storico vicino a Piazza San Marco. Finita questa, io e lui ci saremmo concessi una romantica seratina a due in un ristorante là vicino.

    Mi stavo preparando quando squillò il telefono:

    Era Alfredo.

    «Maria, è appena arrivata in ospedale un’urgenza. Bisogna effettuare un’operazione piuttosto complicata e il primario ha bisogno di me come aiuto. Mi dispiace, ma dovrai andare da sola. Mi sa che andrà a monte anche la nostra seratina, ci tenevo tanto di stare un po’ solo con te, come ai vecchi tempi...»

    Anche a me dispiaceva – e molto – ma con il lavoro che faceva Alfredo nulla era mai sicuro.

    «Non importa, ci sono abituata. Andrò io all’inaugurazione, in un paio d’ore dovrei cavarmela, poi quando tornerai la cenetta romantica la faremo nella nostra cucina in pigiama. ¿Te gusta

    «Certo che me gusta, e mucho. Sei unica, amore! Invece di arrabbiarti, tutte le volte trovi sempre il lato ironico delle situazioni. A dopo, ti amo. E ricorda che voglio anche le candele sul tavolo della cucina, altrimenti che seratina romantica è... Adesso vado devo prepararmi per la camera operatoria.»

    «Vai, finisco di vestirmi e mi avvio. Non preoccuparti, conosco un sacco di persone che ci vanno, non mi sentirò sola! E poi, come dici sempre, il lavoro è lavoro. Ciao.»

    A dir la verità la voglia mi era passata, ma oramai ero vestita e mi avviai.

    Addio seratina, però! Ci tenevo così tanto...

    Quando arrivai, parecchi amici mi venero incontro chiedendomi il perché dell’assenza di Alfredo.

    Mentre mi intrattenevo con uno di questi, notai che tra ospiti e autorità erano presenti anche molti militari, essendo l’edificio restaurato di proprietà della Marina Militare.

    Vedendo militari pensai allo sconosciuto.

    Alzai gli occhi all’improvviso, come attratta da una calamita, lui era là, appoggiato alla parete.

    Smisi di parlare, sudavo ed era sbiancata in volto. La persona con cui mi intrattenevo mi chiese se mi sentissi bene.

    Risposi che era l’effetto di quella stanza troppo calda e affollata.

    Mentre pensavo se andare via o nascondermi, mi si avvicinò un amico di Alfredo, un ammiraglio suo ex compagno di scuola che mi disse:

    «Mi dispiace che tuo marito non abbia potuto presenziare, salutamelo tanto. Adesso vieni che ti presento uno dei nostri migliori Ufficiali.»

    Mi girai, ma già sapevo chi fosse, il mio sconosciuto, ovviamente!

    Lo guardai e senza tradire nessuna emozione allungai la mano verso di lui:

    «Piacere...»

    L’unica cosa che lui fece fu quella di inchinarsi, battere i tacchi e andarsene dicendo.

    «Scusate, devo andare.»

    L’ammiraglio restò basito e mi disse:

    «Mi avevano riferito che era un tipo strano, un po’ misogino, ma che fosse anche un gran maleducato questo non me l’avevano proprio detto...»

    Il discorso finì là.

    Nel frattempo, le autorità si erano avviate verso il palco per i discorsi di rito. Finiti che furono mi avvicinai al buffet.

    Mentre ero indecisa se scegliere una tartina con il salmone o una con i gamberetti una voce alle mie spalle disse:

    «Buongiorno signora, sono felice di vederla.»

    «Adesso mi saluta, che onore! Bella figura ha fatto prima con un suo superiore! È sempre così educato?»

    «Veramente l’avrei anche salutata. Solo non volevo stringerle la mano. Non si ricorda più cos’è successo l’ultima volta che l’abbiamo fatto? Volevo evitare, il luogo mi pareva un tantino troppo affollato, non crede?»

    Guardammo la stanza intorno all’unisono. Poi i nostri occhi si incrociarono e scoppiammo a ridere.

    Molte teste, soprattutto militari, si girarono a guardarci.

    Ci ricomponemmo.

    «Sono contento di rivederla, ho pensato molto a lei in questi mesi.»

    Volevo rispondere:

    Anch’io, anche troppo ci ho pensato! Ma non lo feci.

    Stavamo chiacchierando del più e del meno quando lui un po’ timidamente mi chiese se potesse raccontarmi una cosa buffa che gli era capitata.

    «Racconti pure, sono curiosa.»

    «Allora, dopo il nostro incontro, tornai a casa. Ero talmente felice che le solite cattiverie che mia moglie mi scaglia contro non mi ferirono.

    Una mattina, mentre stavo facendo colazione con i bambini, mio figlio minore, Giulio, mi guardò e mi chiese:

    Papà, perché quando ti chiedo se vuoi leccare tu il cucchiaino sporco con la crema di cioccolato diventi sempre rosso? Le confesso che il piccolo aveva visto giusto e non serve che le spieghi il perché, vero?»

    Diventai di porpora ricordando e lui se ne accorse.

    Gli feci cenno di proseguire.

    Non è vero, Giulio, ti sbagli, è un effetto della luce gli rispondevo. Ma lui aveva ragione, sa, molta ragione, infatti il mio pensiero era: Sapessi!»

    Arrossimmo entrambi e, per la seconda volta in poco tempo, scoppiammo in una fragorosa risata.

    Questa volta le teste che si girarono furono molte e qualcuno cominciò ad avvicinarsi incuriosito.

    Lui mi spiegò che nessuno dei militari lì presenti l’aveva mai visto sorridere nemmeno una volta. Figurarsi poi ridere così, e con una donna...

    Mi venne spontaneo esclamare:

    «Non mi dica che è vera la storia che raccontano su di lei? Lei e un omosessuale, lo confessi!»

    Terza risata per entrambi.

    «Proprio lei lo dice? Non ho sentito sue lamentele quella notte, anzi... Devo andare adesso, non voglio dare spiegazione a nessuno. Senta, le do il nome dell’albergo dove alloggio. Venga là domani mattina, così possiamo parlare un po’ tranquilli lontano da occhi e orecchie indiscrete. Sarò giù nella Hall ad attenderla già dalle 7:30. Venga, la prego.»

    Lo guardai diritto negli occhi e, sfidandolo, allungai la mano verso di lui:

    «Piacere...»

    Il suo sguardo mi incenerì.

    Ma i suoi occhi ridevano mentre, per la seconda volta, se ne andò solamente battendo i tacchi.

    Senza emettere alcun suono con la bocca, solo con il labiale, prima di girarmi le spalle per andarsene, mi apostrofò con uno:

    «Stronza, questa me la paga!»

    CAPITOLO 9

    Tornando a casa avevo deciso che l’indomani non sarei andata da lui.

    Per tutta la notte mi dibattei nell’amletico dubbio:

    «Vado o non vado?»

    La mattina seguente decisi di ascoltare il cuore, e non la ragione, e ci andai.

    Quando arrivai lui era là, assorto nei suoi pensieri.

    Indossava la divisa, mi vide e mi venne incontro.

    Ci accomodammo sul divano a chiacchierare, c’era troppa gente attorno, mi sentivo a disagio e lui se ne accorse.

    «Senta, se vuole, possiamo salire in camera mia, là saremo più tranquilli... Le giuro che non succederà nulla che lei non voglia, sono un uomo d’onore.»

    Poi aggiunse con aria birichina:

    «Almeno dovrei... Comunque, se cambiasse idea...»

    Mentre eravamo in ascensore notai una cosa che mi colpì sulla sua divisa:

    «Ma lei ha le ali, è un pilota!»

    Esclamai incredula.

    «Sì, sono un pilota di caccia.»

    «Chissà quanto avrà riso di me, mentre le raccontavo dei miei sogni.»

    Nel frattempo, avevamo raggiunto la sua camera.

    Solo dopo essere entrati e aver chiuso la porta lui rispose:

    «Non ho riso, anzi, in quel momento mi sono accorto che mi stavo innamorando. Era così bella, così tenera mentre mi raccontava con ardore i suoi sogni segreti e del suo senso del dovere che glieli aveva fatti mettere in angolino segreto del cuore.

    Mi sono innamorato di lei all’istante.

    Ho pregato giorno e notte di poterla rivedere. E ieri il Signore ha esaudito le mie preghiere, quanto l’ho ringraziato...»

    Senza dire una parola, lo guardai e mi gettai tra le sue braccia.

    Mentre facevamo la doccia, dopo aver fatto l’amore, mi ricordai che lui, a letto, aveva sussurrato più volte il mio nome: Maria.

    Come faceva saperlo se non glielo avevo mai detto?

    Quando tornò in camera lo affrontai e glielo chiesi.

    Lui glissava.

    Gli dissi che se non ci fosse stata sincerità tra noi, tutto sarebbe finito qui.

    Timidamente lui mi raccontò:

    «Un giorno ero a casa, quando all’improvviso mi parve di sentire la sua voce provenire dal televisore. Mi girai di scatto e la vidi, là, seduta accanto a suo marito e lo guardava con occhi adoranti.

    Dio quanto l’ho invidiato!

    Corsi velocemente a prendere il cellulare e scattai alcune foto.

    Ne colsi una in particolare, sembrava che lei mi guardasse e mi sorridesse.

    L’ho fatta stampare e la porto sempre con me quando salgo sull’aereo per andare in missione.

    La bacio prima di ogni decollo, è il mio portafortuna.

    E bacio quella foto anche ogni mattina e ogni notte prima di coricarmi dicendo:

    Buongiorno amore... buonanotte, a domani.»

    Si interruppe un attimo e io mi ricordai che avevano invitato Alfredo in un talk show perché spiegasse il motivo per cui, una persona affermata come lui, ogni anno, per un mese lasciasse famiglia e lavoro per andare con una ONG nei paesi del terzo mondo.

    Lui riprese:

    «Ed è guardando quella trasmissione che appresi il suo nome, chi era e da dove veniva.

    Adesso mi dica pure che vuole andarsene, e che l’ho fatta arrabbiare.»

    Stavo immobile in silenzio.

    «Non dice nulla?»

    «Sì, dico che tra un po’ dovremmo fare un’altra doccia.»

    Detto ciò, mi avvicinai a lui e lo abbracciai.

    CAPITOLO 10

    Mentre tornavo a casa ero felice.

    Eravamo due persone adulte, eppure ci sentivamo come due ragazzini al loro primo amore.

    Camminando mi pareva che tutto avesse assunto un aspetto migliore, insomma tutto mi pareva più bello, le strade, le case, la gente...

    Quando tornai a casa lo notò pure Alfredo.

    «Amore, come sei bella, vieni qui che ti abbraccio, sembri una visione.»

    Stette zitto un attimo. Poi,

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