Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La contessa
La contessa
La contessa
E-book344 pagine4 ore

La contessa

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

L’autrice, Elisabetta Antonella Insolera, di questo avvincente giallo, ci riporta nelle stanze lussuose di una Eyes Wide Shut, romana. Atmosfere nobili ed altolocate intessute nella sontuosità della Roma Imperiale. Ci mostra, così, le meraviglie di questa Città Eterna, tra un rompicapo ed un altro, nel tentativo di farci comprendere cosa si celi dietro delle tende molto spesse di satin e sulle labbra di chi legge certi simboli… 
Aldo Carta, commissario della squadra mobile, è il protagonista di questa storia. Verrà disegnato sia il suo lato professionale che quello umano. La scrittrice, infatti, tenta di mostrare le due facce della medaglia, di ognuno dei suoi personaggi di fantasia.
Il fascino per l’arte trascolora nella tristezza di avventate scelte e si mescola al calore della famiglia e alla dedizione per il proprio lavoro…

Elisabetta Antonella Insolera vive da più di vent’anni in provincia di Venezia con la sua famiglia, cani compresi. Di origine siciliana, le piace preparare dolci per suo marito, suo figlio e per gli amici. Sempre intenta a scrivere, leggere e quando capita vedere qualche serie televisiva. Di solito fa tutto questo, e tanto altro, contemporaneamente nell’arco della sua giornata. La passione per la lettura e le città d’arte, l’hanno portata a scrivere il suo primo romanzo, ambientato nella città che più ama, Roma. Ha iniziato, così, un nuovo capitolo della sua vita.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2021
ISBN9788830655713
La contessa

Correlato a La contessa

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La contessa

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La contessa - Elisabetta Antonella Insolera

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il professore Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London Canino e le vite dei santi.

    Una Vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i quattro volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    ANTEFATTO

    La casa era avvolta in un silenzio assoluto, le luci soffuse illuminavano parte dell’ingresso e del soggiorno. L’assassino sentiva solo il suo respiro ansimante. Tutto si era svolto in modo talmente veloce, da non rendersene quasi conto. Continuava a guardarlo, era lì disteso sul pavimento su di un fianco, ormai senza fiato in corpo. Era morto. Non avrebbe mai pensato di essere capace di compiere una simile azione, ma ormai era tardi per tornare indietro. Era sicuro che nessuno sarebbe risalito a lui. Così dando un ultimo sguardo al cadavere andò via, nell’oscurità della notte.

    PARTE PRIMA - AL BAR

    Le vedeva lì sedute a parlare, mentre prendevano il loro caffè.

    Erano quattro bellissime ragazze, spesso andavano a fare colazione al bar. A volte erano in due, altri giorni erano in tre, quella mattina erano tutte e quattro.

    Ordinavano colazioni diverse, diverse come erano loro. Con lui erano sempre carine, al tavolo se non fosse stato troppo impegnato avrebbe cercato di servirle lui.

    Lui era il cameriere nonché il proprietario, per tutti era il signor Carlo.

    Riusciva ad osservare e ad ascoltare servendo le ordinazioni tra un tavolo e l’altro. Con i suoi modi garbati e il suo sorriso cercava di rendere tutti felici offrendo un gradevole inizio giornata. Gli piaceva servire personalmente i suoi clienti, anche se aveva del personale alle sue dipendenze. Conosceva la maggior parte della sua clientela, i loro gusti e la loro vita. Di molti sapeva anche il nome, ascoltando le loro conversazioni era inevitabile non imparare. Alcuni si presentavano, altri rimanevano più riservati.

    Quella mattina le quattro ragazze, complice il bel tempo, avevano deciso di sedersi fuori dal bar, la giornata assolata le aveva allettate. Parlavano, ridevano, progettavano le loro giornate, a seconda degli impegni dell’una o dell’altra. C’era Sara. Lei aveva ventisette anni, era soprannominata dalle sue amiche riccioli d’oro per i suoi capelli, lavorava in un negozio come commessa ed era prossima alle nozze. Seduta accanto a lei, c’era Elena, più grande di Sara di un paio d’anni. Lei aveva un viso e un corpo da modella, lavorava nella pubblicità, a volte riusciva ad avere qualche piccolo ruolo come comparsa in qualche serie televisiva. Poi c’era Eleonora, anche lei ventisette anni, sempre alla continua ricerca della salvezza del mondo, era in cerca di un lavoro e anche di se stessa. Infine, seduta accanto ad Eleonora, c’era Paola. Lei era la più piccola delle quattro, ormai mancavano pochi esami alla laurea magistrale in lingue, parlava sempre poco per natura. Era sempre accompagnata dal suo inseparabile cane, Sina.

    Il bar era piuttosto pieno, le prime giornate primaverili e le temperature piuttosto calde, invogliavano la gente ad uscire.

    Il signor Carlo faceva questo lavoro da molti anni, in realtà, non ne avrebbe avuto bisogno. Una discreta eredità familiare gli aveva permesso di vivere molto agiatamente. Questo lavoro lo faceva per sua scelta. Distinto signore di una certa età, ormai dai capelli bianchi, amava circondarsi di gente. In un certo senso, rimanendo in loro compagnia, riusciva ogni giorno ad entusiasmarsi, o dispiacersi, a seconda dei casi. Per lui era una specie di famiglia allargata, visto la sua vita vissuta sempre da solo. Riusciva a leggere il labiale delle persone, venendo così a conoscenza dei fatti delle loro vite. E non lo faceva per caso, bensì intenzionalmente. Per il signor Carlo era un Dono.

    Doversi spostare da un tavolo all’altro non gli dava tregua, e seguire le storie intuite era difficile in quel caos.

    Le ragazze, finita la colazione, erano andate via.

    Pazienza, pensò, le avrebbe riviste il giorno dopo.

    In uno dei tavolini occupati c’erano due innamorati che avevano preso un caffè. Uno era un cliente abituale, l’altra, poverina, era solo di passaggio come tutte le altre prima di lei.

    Era una giornata caotica sicuramente. C’era anche il signor Paolo, professore universitario, sempre ben vestito. Come spesso faceva, mangiava il suo cornetto velocemente e quasi scappava via, prima che iniziassero le lezioni.

    Era anche arrivato dalla Questura, lì a fianco, il commissario Carta con l’ispettore Monticino. Il signor Carlo, quando li serviva al tavolo, cercava di carpire cosa si dicessero sempre così fitto fitto. Il bar era pieno di persone: ragazzi in gita, turisti di ogni nazionalità. Quello era lo standard quotidiano e lui amava essere dentro tutte quelle storie.

    I giorni erano un susseguirsi continuo di persone che entravano e uscivano dopo una veloce consumazione. Spesso, di soliti avventori e di avvenimenti in un crescendo di storie personali. A volte intriganti, a volte banali, a volte sorprendenti. Nel via vai quotidiano, quella mattina erano tornate le belle ragazze, che ridevano parlando gioiosamente. L’amante intraprendente, si prodigava in complimenti con la compagna del momento. Per i turisti stanchi era un modo per ristorarsi prima di ricominciare con le loro visite guidate in giro per la città. Il commissario a volte veniva, altre no. Quella mattina era assieme all’immancabile ispettore. Il signor Carlo sapeva che la moglie del commissario faceva l’avvocato ed era una bellissima donna, l’aveva vista qualche volta assieme a lui lì nel suo bar, ma raramente.

    Mentre svolgeva il suo servizio tra i tavoli, non poté fare a meno di notare e sentire il commissario rispondere ad una chiamata di lavoro.

    «Dove? Arriviamo subito» disse il commissario rispondendo alla chiamata, così dicendo andarono via.

    Il signor Carlo pensò che fosse accaduto qualcosa di grave…

    DALL’ALTRA PARTE DELLA STRADA

    «Cosa è successo, commissario? Dove stiamo andando».

    Gli chiese l’ispettore, mentre montavano in macchina.

    «Un omicidio, sembra. Andiamo in via Cavour, 44. Al secondo piano c’è un morto che ci aspetta. E non correre, Antonio, tanto ormai è morto. Io avviso il vicequestore dell’accaduto, così chiama il P.M. Di Manfredi e dico ad Elvira di raggiungerci».

    «Commissario, Elvira torna domani non ricorda? Ha preso due giorni di ferie» rispose mentre si avviavano.

    «Giusto. Vorrà dire che faremo da soli» sottecchi notava la sua espressione irritata.

    Loro erano, Antonio Monticino, ispettore ed Elvira Boccaccini, viceispettore, la sua squadra, come la chiamava il commissario. Riuscivano a stuzzicarsi spesso, dando anche in escandescenza a volte, ma si rispettavano e sapevano fare bene il loro lavoro.

    Quando arrivarono, lasciarono la macchina col contrassegno che li identificava. Si era formata dentro il palazzo la solita confusione che si verifica quando accadeva qualcosa di questo genere, tutti a guardare, a sbirciare, ad ascoltare. Era arrivata anche la stampa.

    «Ma come fanno i giornalisti ad arrivare prima di noi ogni volta» disse, indispettito, l’ispettore al commissario.

    «Anche per loro è lavoro, Antonio» disse il commissario Carta, entrando nel palazzo.

    Andarono a parlare con chi li aveva chiamati al telefono. Un agente li aveva accompagnati dall’inquilino del primo piano, un uomo di mezza età che era ancora agitato per quanto accaduto. Egli aveva spiegato che, mentre faceva colazione, aveva sentito una donna urlare, così era corso al piano di sopra, da dove provenivano le grida.

    «Era la signorina Raffaella, che davanti alla porta aperta di Paolo, piangeva e urlava» disse, l’uomo. Poi, continuò dicendo di essere terrorizzato anche lui, alla vista del morto, così, facendosi coraggio entrambi, si erano spostati nell’appartamento della signorina e da lì avevano chiamato la polizia. Carta chiese subito se fossero entrati o se avessero toccato qualcosa, l’uomo li rassicurò, rispondendo no. A quel punto, il commissario e l’ispettore, si fecero accompagnare nell’appartamento in questione. Nel frattempo, Carta aveva dato ordine agli agenti, di fare allontanare un po’ di gente curiosa, appartata sul pianerottolo, e di rilasciare una deposizione. Chiese anche all’uomo che aveva telefonato, di aspettare fuori dalla porta dell’abitazione, mentre investigavano nell’appartamento. Intanto erano già arrivati la scientifica e il medico legale.

    Carta chiese ad Antonio di andare a parlare con la signorina, che aveva trovato il corpo, nell’appartamento accanto. Mentre lui iniziava a guardarsi intorno.

    Entrando aveva salutato i suoi colleghi al lavoro sulla scena del crimine. Così su due piedi non aveva potuto non notare che non c’era stata effrazione, la porta d’ingresso era integra. L’abitazione si presentava in ordine, a parte la scrivania e pochi oggetti apparentemente fuori posto. Visto che doveva comunque attendere che i colleghi finissero, decise di tornare di nuovo da quell’uomo, con cui aveva parlato poco prima, facendosi dare le sue generalità. Mentre scriveva, gli chiese qualcosa sul defunto.

    «Sa chi era, il signore morto in questione?».

    «Sì», rispose l’uomo, ancora agitato «si chiamava Paolo Carraresi».

    «Vi conoscevate bene?».

    «Mah! Non direi proprio bene, in realtà non lo conoscevo più di tanto, ci salutavamo quando ci incontravamo sulle scale, qualche parola ma niente di più».

    «Sa che lavoro facesse?».

    «So che faceva il professore universitario, ma mi creda non so altro».

    Dopo qualche altra domanda, Carta si trovò a ringraziarlo e a congedarlo definitivamente, dicendogli che sarebbe stato chiamato molto probabilmente in Questura nei prossimi giorni per ulteriori chiarimenti. Così dicendo, raggiunse Antonio nell’appartamento accanto a quello della signorina. Davanti alla porta, c’era un piantone, che alla vista del commissario si spostò per farlo entrare.

    «Ecco il commissario Aldo Carta, signorina Stenti» disse Antonio, mentre il commissario le stringeva la mano per salutarla.

    Era una giovane donna sui trent’anni, bella nella sua semplicità, capelli castani, trucco naturale. Indossava, un completo con giacca e pantalone dello stesso colore, sabbia, con una camicia bianca.

    Antonio, iniziò a leggere i suoi appunti al commissario, ma Carta lo fermò dicendogli di aspettare. Poi, si rivolse alla donna: «Signorina, se la sente di raccontarmi cosa ha visto o sentito?».

    «Ho appena raccontato tutta la storia all’ispettore!» rispose ancora tremante, per quanto accaduto.

    «Se non le dispiace, mi piacerebbe sentirla direttamente dalla sua voce» incalzò Carta, con garbo.

    La signorina cominciò a raccontare che la sera prima era rincasata tardi, per via del suo secondo lavoro, faceva anche l’insegnante di ballo e proprio per questa ragione era tornata tardi. Quella mattina, aveva fatto fatica a svegliarsi, era stata tutta una corsa prima di uscire per andare a lavoro.

    «Sono uscita di corsa da casa, mentre chiudevo la porta, per andare al lavoro».

    «Che lavoro fa?» le chiese, Carta.

    «Faccio la segretaria, in uno studio legale» rispose.

    «Per chi lavora?» continuò Carta.

    «L’avvocato, per cui lavoro si chiama Giorgio Della Valle» rispose la Stenti, guardando sia il commissario che l’ispettore, come per chiedere se esistesse un nesso «dovrei, tra l’altro avvisarlo del mio ritardo».

    Carta, invece, le fece cenno con la mano di continuare.

    «Dicevo, mentre chiudevo la porta di casa mia, mi sono accorta che quella di Paolo era semiaperta, insolito, ho pensato, non è da lui. L’ho chiamato più volte ma non ha risposto. Così ho spinto leggermente la porta e l’ho visto lì, disteso a terra con tutto quel sangue alla testa, non si muoveva».

    Si fermò un attimo, per asciugarsi il naso poi riprese a parlare.

    «Cosa posso dire signor commissario. Mi sono spaventata a morte, non potevo credere a quello che vedevo, mi sembrava di essere in un film. A quel punto penso di aver cominciato ad urlare, qualcuno mi ha portata a casa, ho sentito che telefonava alla polizia, e poi siete arrivati voi».

    «Vuole un bicchiere d’acqua?» le chiese per calmarla un po’. Lei fece cenno di no con la testa.

    «Dove lavorava il signor Carraresi? Il signore che ci ha chiamati ha detto che faceva il professore».

    «Era docente a La Sapienza».

    «Conosceva bene il defunto?».

    Chiese Antonio, che era rimasto zitto fino a quel momento.

    «Sì, lo conoscevo. Eravamo amici».

    «Quanto amici?» insistette.

    Mentre stava per rispondere, un agente informò il commissario, che nell’appartamento accanto avevano finito e che, se avesse voluto, sarebbe potuto entrare.

    «Bene signorina, continuiamo dopo» le disse Carta, mentre si avviava verso l’altro appartamento della vittima.

    Appena entrò venne raggiunto dal medico legale. Simone Prati, era uomo di grande esperienza, stimato nella vita sociale e nel suo lavoro, altamente professionale, non lasciava mai nulla al caso. Prima che Carta potesse formulargli qualsiasi domanda, Prati gli rispose: «Per adesso, Aldo, abbiamo finito con i preliminari, posso solo dirti che, per via del rigor mortis e dalla temperatura corporea, presumo sia morto tra la mezzanotte e le due di questa mattina, per un colpo alla testa, inflittogli con un corpo contundente. Quindi è stato ucciso. Il resto lo saprai ad autopsia effettuata».

    «È stato trovato qualcosa vicino al cadavere, che possa essere stato usato come arma del delitto?» chiese Carta.

    «Al momento sembrerebbe di no» rispose il patologo.

    Lo ringraziò e si avvicinò al cadavere. Venne raggiunto dall’ispettore Monticino, che aveva lasciato l’altro appartamento. Lo informò che la signorina Stenti, ancora agitata, era appena andata via, per dirigersi al lavoro, non poteva trattenersi ulteriormente. Sarebbe passata nel pomeriggio in Questura, per rispondere ad altre domande.

    «Che cosa abbiamo qui?» disse assorto Carta, guardando il corpo, abbassandosi su di esso. Poi continuò «È giovane, sicuramente doveva essere un bell’uomo, nonostante l’espressione grottesca sul viso. Non mi pare ci sia stata colluttazione, non vedo segni di alcun genere che possano portarci a pensarlo. Ben vestito, anche costosi. Non doveva aver problemi di denaro. Le scarpe che indossa sono l’equivalente di due settimane del mio stipendio» aggiunse.

    «Mi sembra di averlo già visto, commissario!» disse Antonio mentre prendeva i suoi appunti «non le sembra lo stesso uomo che vediamo al bar dove facciamo colazione la mattina?».

    «Sì, sembra anche a me» rispose il commissario.

    Diedero un’altra occhiata al corpo e poi fecero un giro per l’appartamento. C’erano due calici con del vino bianco, appoggiati sul banco della cucina, uno era macchiato di rossetto, di un colore rosato leggero. Non sembrava che avessero cenato, non c’erano piatti nella lavastoviglie che lo dimostrassero. La casa era ben ammobiliata con gusto maschile, si vedeva che era da single, mancava la mano femminile, sembrava tutto in ordine, a parte la scrivania e due librerie messe a soqquadro.

    Quando uscì dalla camera attigua, notò che era arrivato il P. M. Laura Di Manfredi. Era una bella donna, sui quarantacinque anni, bionda, alta e magra, già con due matrimoni alle spalle. Da due anni era in Procura. Si salutarono e si avvicinarono entrambi al corpo. Come per confermare l’accaduto, lei continuava ad osservare il cadavere e annuire con la testa. La Di Manfredi era una donna algida, ferma nelle sue posizioni e raramente cambiava idea. Svolgeva il suo lavoro minuziosamente, stava sempre con il fiato sul collo dei colleghi, cercando la verità e la giustizia su ogni caso a lei assegnato, lasciando agli altri le sconfitte. Esordì dicendo: «Mi pare di notare che non ci sia niente vicino al cadavere. Sbaglio o manca l’arma del delitto?».

    Anche Carta l’aveva notato e posto la stessa domanda poco prima a Prati, ma chiese lo stesso al patologo, se avessero spostato qualcosa. Prati rispose che, a parte il corpo, non avevano toccato null’altro.

    Il P.M. Chiese al commissario: «Che cosa abbiamo qui?».

    Il commissario notò l’analogia della domanda, fatta da lui poco prima. Le riferì i pochi dati che avevano acquisito fino a quel momento: chi era il morto, cosa facesse nella vita, chi l’aveva scoperto. Il P.M. dopo qualche altro scambio di vedute diede un’altra occhiata al corpo e l’assenso a procedere.

    Prati fece cenno agli altri di finire le ultime cose e portare via il cadavere. «Bisogna sapere tutto su quest’uomo. Sappiamo che lavorava a La Sapienza. Occorre indagare sul suo lavoro universitario, cosa facesse dentro e fuori l’Università, chi erano i suoi amici e nemici, quali hobby, se ne aveva, insomma tutto» disse la Di Manfredi, autorevole come sempre.

    Carta, sapeva fare il suo lavoro e anche molto bene, non aveva bisogno della sua ramanzina. Spesso la Di Manfredi sapeva essere inclemente.

    Tornati in Questura, andò a parlare con il vicequestore Andrea Castiglione, lui era nel suo ufficio. Lo informò dell’accaduto, confermando, che appena avrebbe avuto delle novità, si sarebbe fatto sentire.

    Nel pomeriggio sul tardi, finito di lavorare, la Stenti andò in Questura. Antonio la fece accomodare nell’ufficio del commissario, una volta seduta, si guardò attorno un po’ agitata.

    Antonio era pronto a prendere appunti. «Come sta?» le chiese Carta per metterla a suo agio. Vedeva la sua agitazione. Per loro, che lì dentro ci lavoravano e quasi vivevano, era normale, erano abituati a quegli ambienti, ma per molte persone non era così, chi non era dell’ambiente provava soggezione a stare dentro la Questura.

    «Non è stata una giornata facile, spesso ho pensato a quello che è successo» rispose con un sospiro.

    Il commissario le fece qualche domanda di routine, anche per rassicurarla, e lei in effetti si calmò molto. Poi passò al caso.

    «Era molto amica del professore?».

    «Eravamo amici sì, ci vedevamo di tanto in tanto. A volte guardavamo un film, altre ci fermavamo solo a parlare. Cose di questo genere».

    «Nient’altro?» chiese incuriosito l’ispettore.

    «Cosa intende?».

    «Avevate una storia o una relazione?» insistette su quella linea, Antonio.

    «No. Non più. Non era una vera storia, all’inizio, circa due anni fa, quando mi sono trasferita in questa nuova casa, per via del nuovo lavoro, lui era sempre carino e presente».

    «Dove lavorava prima signorina?» chiese il commissario per metterla sempre più a suo agio.

    «Lavoravo presso uno studio più piccolo nella borgata, poi ho avuto questa occasione e l’ho presa al volo».

    «E perché non ha funzionato con il signor Carraresi?» continuò Carta, riportandola sul caso.

    «Pensavamo entrambi che potesse funzionare, ma ci siamo resi quasi subito conto che eravamo portati ad essere più amici, che amanti. Abbiamo continuato ad esserlo, amici intendo. Paolo era un brav’uomo, fissato con il suo lavoro, lo amava molto».

    «Sa se, per caso, avesse una relazione o una fidanzata?».

    «Signor commissario non credo sinceramente che ne avesse solo una relazione o una fidanzata. L’ho visto con molte ragazze diverse, ma nulla di serio, come diceva lui».

    «Lo ha magari sentito di recente discutere o litigare con qualcuno?».

    «No commissario, nonostante le nostre pareti confinanti e sottili, non ho mai sentito niente» rispose la Stenti malinconicamente, al pensiero che il suo amico non ci fosse più.

    «Va bene signorina, oggi è stata una giornata lunga per tutti, può andare, ma ci terremo in contatto. L’ispettore le farà firmare la deposizione dopo averla riletta» disse Carta, congedandola.

    Dopo aver firmato il verbale e salutato i colleghi, Carta lasciò la Questura. Era stata una giornata lunga e impegnativa. Tornato a casa, aveva cenato assieme alla moglie e dopo poco era andato a letto stremato.

    Il commissario Aldo Carta era un uomo di bell’aspetto di 54 anni, alto e ben piazzato, forse con qualche chilo in più, ma a vederlo non sembrava. I tanti capelli neri che aveva in gioventù ormai erano solo un ricordo, i capelli iniziavano a diradarsi oltre ad assumere un colore che assomigliava molto al sale e pepe. Prima di andare in ufficio la mattina, faceva una corsa quando gli riusciva. Cercava di liberare la mente e tenere allenato il corpo, puntava a fare bene l’una e l’altra cosa. Provava anche a competere con gli uomini più giovani che gli passavano accanto correndo, ma non era facile, e lui lo sapeva. Faceva quaranta minuti di corsa. Lo stesso percorso nel parco sotto casa. Gli piaceva l’aria fresca del mattino, vedere gli alberi, le piante, cambiare aspetto, forma e colore con le stagioni. Da molti anni ormai avevano cambiato casa andando ad abitare in un appartamento con terrazzo all’inizio di via Flaminia a due passi da Villa Borghese. Un piccolo polmone per una città come quella. Riusciva sempre a completare il giro, non con poca fatica. E anche se cercava di fare di tutto per sgombrare la mente dai casi che lo assillavano al lavoro, non ci riusciva quasi mai. Sembrava che gli avvenimenti sui quali investigava lo inseguissero anche durante la corsa. Come l’omicidio del giorno prima.

    Ripensava al professore ucciso a casa sua, docente a La Sapienza.

    Era proprio in quell’Università, che aveva preso ai suoi tempi la laurea in legge, ed era lì che aveva conosciuto sua moglie, Caterina Belli. Studentessa anche lei in giurisprudenza, voleva diventare avvocato e c’era riuscita. Aveva la sua stessa età. Sempre allegra e carismatica, aveva un sorriso incantevole che contagiava chiunque le stesse accanto. Era la ragazza, dai capelli rossi, più bella che avesse mai visto e conosciuto. La pelle così bianca che sembrava porcellana, quello che lo aveva colpito più di tutto erano state le efelidi sul naso che contornavano gli occhi verdi, così profondi belli e intelligenti. Non era stato facile conquistarla, anzi aveva penato non poco. All’inizio della loro conoscenza, lei neanche lo vedeva, lo salutava appena. Caterina stava assieme ad un ragazzo che frequentava l’ultimo anno. Secondo Aldo, quel ragazzo, si dava anche troppe arie, a suo dire lo trovava poco attinente a lei. Era un pallone gonfiato, pieno di sé, non riusciva a vedere oltre il suo ego. Caterina era sprecata con un presuntuoso del genere. Sicuramente meritava altro, e quell’altro era lui. Motivo per cui lottò per un anno intero per farsi conoscere, con lettere, musica, dischi, con piccoli inviti a prendere un gelato, una pizza o al cinema. Passavano ore a parlare di tutto, con la scusa dello studio si vedevano spesso per studiare insieme e, il più delle volte, si trovavano a discutere delle proprie idee, divergenti o concordanti a seconda dell’argomento. Confrontandosi e raccontandosi quotidianamente, a volte ridevano di loro stessi, prendendosi gioco

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1