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Farley e Divessa
Farley e Divessa
Farley e Divessa
E-book471 pagine6 ore

Farley e Divessa

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Info su questo ebook

A vent’anni dalla guerra tra ventriloqui e umani, i rapporti tra il regno di Nandaren e Illiasil rimangono vincolati al trattato di pace stipulato dal nuovo e più clemente Re umano Alberic McLaughlin e il Capo Villaggio illiasilliano Mel Vora; da allora i due popoli hanno intrapreso strade e destini differenti. Euphorbia, compagna e consigliera del Capo Villaggio, ha deciso di riportare in vita una stirpe magica che si credeva ormai debellata da secoli e di cui lei è discendente diretta: i Maghi Celesti, esseri capaci di debellare l’oscurità nei cuori degli altri e smuovere i sentimenti altrui. Consapevoli di come un simile potere in passato abbia quasi rischiato di distruggere il mondo, i regni circostanti hanno provveduto a stipulare patti tra loro, atti a monitorare la situazione. È in questo panorama carico di possibili tensioni, che un comune ed ignaro ragazzo povero e senza speranza come Farley, abitante dei bassi fondi di Marizia, una caotica città governata da un nobile despota del casato Lewis, farà la differenza. Quando riceve per regalo da sua madre Aletha in occasione del suo sedicesimo compleanno una singolare ocarina in ossidiana, la vita di Farley viene stravolta. Il giovane dovrà fare i conti con una serie di scelte che lo avvicineranno sempre più al suo inesausto desiderio di lasciare la città che lo intrappola e consuma, finanche all’inevitabile incontro con l’energica Divessa, maga ventriloqua appartenente alla Stirpe dei Guerrieri, e il suo timoroso tramite Halafi, una lupa grigia. La figlia quindicenne di Euphorbia, ha abbandonato i suoi compagni nel tentativo di dimostrare a tutti che è in grado di portare a termine la missione da sola nonostante l’ingovernabile potere a cui è vincolata. Entrambi desiderano la libertà, entrambi dovranno pagare un prezzo per ottenerla; disposti o meno, in gioco c’è l’equilibrio stesso del mondo, minacciato dal Campo Magico misteriosamente comparso che succhia la vita dal mondo. I due giovani si trovano e il conto alla rovescia ha inizio.
LinguaItaliano
Data di uscita4 apr 2019
ISBN9788831611794
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    Anteprima del libro

    Farley e Divessa - Susanna Peppoloni

    Indice

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    EPILOGO

    Ringraziamenti

    FARLEY E DIVESSA

    Romanzo

    Susanna Peppoloni

    Prologo

    Tra le chiome di brillante smeraldo degli alberi, soffiava una sottile e piacevole brezza. Il vento, che con un leggero sussurro faceva frusciare le foglie di verde smaltate, disperdeva nell’aria il profumo dei nuovi germogli carnosi, cullandoli ciascuno sul proprio robusto ramo: l’intera foresta odorava di nuova vita che si ridestava dal lungo sonno invernale. Spingendo la vista al di la delle fronde, lassù l’inconfondibile azzurro del cielo si alternava a compatte e candide nuvole che, proseguendo rapide sospinte da un’invisibile corrente, sfiorava quell’idilliaco mondo con i suoi impalpabili banchi gassosi. Seppur fossero passati così tanti anni, quel luogo pareva essere rimasto intatto, esattamente come lo aveva lasciato l’ultima volta che i suoi piedi scalzi si erano posati su quel pavimento verdeggiante e quei fili d’erba avevano sfiorato le sue dita.

    Una fitta nostalgica le travolse il petto quando notò che persino la minuscola casetta bianca dal tetto di paglia, rimasta nascosta fino ad allora nei meandri di quel bosco incantato, non era stata minimamente intaccata dallo scorrere del tempo: le piante circostanti non si erano neppure azzardate a rivendicarla, né gli animali selvatici l’avevano abitata, quasi come segno di rispetto per la defunta proprietaria che a lungo aveva dimorato in completa armonia con loro, proteggendoli da ingerenze esterne.

    Scomparsa per sempre assieme alla vita di colei che l’aveva generata, soltanto la bufera che anni addietro aveva ricoperto la montagna non c’era più. Ciò nonostante, l’assenza di quell’ostacolo turbinante e gelido, non aveva reso meno difficile la scalata della ripida colonna rocciosa che si ergeva in verticale verso il cielo, inaccessibile ad un qualunque comune essere umano: non c’era niente di simile in tutto il mondo.

    Chiudendo e riaprendo le palpebre, per un attimo credette di essere tornata indietro a quand’era ancora giovane ed ingenua, e tutto ciò che si era trovata ad affrontare doveva ancora succedere.

    La porta di legno rosso era già aperta, come se la casa stesse invitandola al suo interno. Con un lungo sospiro, la donna esitò prima di sospingerla ulteriormente ed entrare.

    La sua mano sussultò sul pomello.

    Dentro, la luce penetrava da un’unica finestra lasciata, o forse dimenticata, socchiusa sul fondo della stanza, poco sopra al lindo bancone della cucina dismessa, dissipando l’oscurità dell’abitazione. Un raggio di sole scendeva da un foro che si era creato sul soffitto di assi ove il legno aveva ceduto, permettendo così ad un misero cumulo di fieno di depositarsi sul pavimento di pietra scura. Nella penombra, la donna si accorse che la casa era stata lasciata nel più assoluto ordine: prima di abbandonarla, la proprietaria ne aveva avuto cura sino alla fine, pur sapendo che non avrebbe fatto mai più ritorno.

    La bocca si incurvò tristemente: non ne era per nulla sorpresa. Era proprio da Lasrina dopotutto.

    Compiendo un deciso passo in avanti, la donna sobbalzò quando la sua gamba urtò contro qualcosa di morbido e peloso e, immediatamente, si ritrasse. Ai suoi piedi, l’unica erede di quella dimora era appena accorsa per accogliere l’ospite con un amichevole miagolio rauco e frammentato, come se quelle corde vocali non vibrassero da secoli.

    Il cuore vigile della donna rallentò il battito. Sorrise.

    «Buongiorno Sion» disse lei con voce gentile accovacciandosi sulle ginocchia per accarezzare la candida gatta sulla nuca che rispose allungando il collo. «Anche io sono felice di rivederti… è passato tanto tempo, eh? Forse sarei dovuta passare prima ma, credimi, ho avuto tanto da fare».

    Tra allegre fusa, Sion cominciò a strusciarsi sulle cosce della donna, strofinando il muso umido e roseo sul runico tatuaggio simile ad un sole d’inchiostro nero esibito sul dorso della mano destra che le porgeva.

    Da quella posizione accucciata, la donna si accorse che qua e là sul pavimento erano sparse bianche ossa di topo ed altri piccoli animali, spolpati fino alla radice dalle affilate zanne del felino.

    Regalata qualche carezza all’affettuosa micia, si alzò per proseguire la sua ricerca, evitando di schiacciare quei macabri e minuscoli resti con i suoi stivali di cuoio.

    "Quindi la morte arriva anche in posti del genere" pensò con una amara nota di malinconia, per poi sorridere della propria ingenuità realizzando che, in fondo, la morte è parte integrante e inscindibile della vita: a volte persino lei tendeva a dimenticarsene.

    Prima con la mente e poi con i piedi, ripercorse gli stessi passi che aveva visto compiere all’antica proprietaria di quelle pareti tanti anni prima e, avvicinatasi allo scaffale di fianco alla cappa del camino, con l’indice scorse i dorsi dei tomi polverosi allineati in ordine alfabetico, finché si fermò su quello di suo interesse. Brevemente lesse sottovoce le rune incisevi e leggibili dall’esterno, dopodiché senza indugio l’afferrò prelevandolo dal suo giaciglio, soffiò via la polvere che vi si era depositata e lo aprì.

    Veloce, ne sfogliò le pagine ingiallite dal tempo. Sotto i suoi occhi dorati, il susseguirsi rapido di immagini raffiguranti artefatti magici sembrava unirsi per creare un unico disegno continuo. Non mancò di notare gli appunti aggiuntivi che si ammassavano ai margini, scritti chissà quanti anni addietro e da chissà quale mano ignota.

    È lui? sentì rimbombare la sua stessa voce nella propria testa.

    «È lui» sussurrò con euforia crescente.

    Poco prima di raggiungere la metà del volume, strappata, una pagina mancava e, al suo posto, nel libro non rimaneva che una sottile striscia di carta irregolarmente seghettata e stropicciata, proprio al limitare della rilegatura con le altre pagine.

    A quel punto, la donna tuffò la mano destra con il tatuaggio circolare, nella sacca a tracolla che portava sotto la bianca mantella di lana magica, all’altezza del petto, alla ricerca di qualcosa. Infine fece emergere dalla borsa un foglio di carta, altrettanto ingiallito seppur accuratamente ripiegato e conservato anche grazie ad un incantesimo di protezione. Dopodiché lo dispiegò per confrontarne il bordo sinistro strappato con il margine mancante del tomo pescato dallo scaffale.

    Le due estremità irregolari combaciavano alla perfezione.

    Non c’era più alcun dubbio: l’aveva trovato.

    Sistemandosi dietro l’orecchio sinistro una ciocca di capelli color del grano maturo che le ricadeva sul viso, la donna si sedette sulla sedia a dondolo in vimini lì vicino, mugolando eccitata. Non appena lo fece, la bianca gatta di nome Sion le si accucciò ai piedi, osservandola con i suoi grandi occhi azzurri nella speranza di ottenere il permesso di salirle in grembo. Sorridendo, la donna si diede un lieve colpetto sulle cosce, sussurrando un «vieni» e subito il felino le balzò sopra in cerca delle sue attenzioni.

    La colonna di luce e polvere che entrava dal foro sul tetto, illuminava alla precisione quell’angolo dell’abitazione, quasi come se l’ormai defunta proprietaria avesse previsto il momento esatto in cui lei sarebbe andata lì per leggere quel libro, e per l’occasione avesse di conseguenza creato quella fonte di luce improvvisata, indovinando la posizione del sole.

    Con una stretta al cuore, lei realizzò che probabilmente le cose stavano esattamente così, considerando che Lasrina era una veggente: pure nei suoi ultimi istanti di vita aveva pensato a lei.

    Cautamente, la donna aprì il libro che aveva momentaneamente richiuso tenendo il segno con l’indice, dopodiché cominciò a leggerne avidamente il contenuto, iniziando dall’introduzione. Con la sinistra reggeva il tomo, mentre la destra voltava le pagine e, di tanto in tanto, accarezzava l’affettuosa Sion che con le sue fusa rompeva l’innaturale silenzio di quel paradiso terrestre.

    Quando finì di leggere, non seppe dire quanto tempo fosse trascorso. Senza neppure fermarsi a riposare gli occhi stanchi, si alzò per prelevare un altro volume da quella modica ma valente biblioteca, attratta dai titoli in alfabeto runico, e fece lo stesso con i successivi due libri. Anche dopo che il sole morì passando oltre il buco nel tetto, la donna proseguì la lettura inclinando in svariate angolazioni i libri per sfruttare tutta la luce possibile e avvicinando il viso quanto più ai caratteri neri sulle pagine antiche, quasi nel tentativo di divorarle con gli occhi.

    Sion non l’aveva mai abbandonata se non per consentirle di alzarsi a prendere i tomi, e non le importava di doverlo fare tre, quattro, cinque o sei volte. Imperterrita, tornava sempre a sedersi sul suo grembo per fare allegramente le fusa, felice di avere un po’ di compagnia dopo tanti anni passati in solitudine.

    Una volta terminata la lettura, soddisfatta di realizzare che la ricerca aveva dato i suoi frutti, la donna sistemò i quattro volumi di suo interesse sul tavolo della cucina, l’uno sopra l’altro, dopodiché si distanziò un passo da loro ed allungò il braccio destro distendendo il palmo della mano in linea con i libri. Mentre le sue labbra si muovevano impercettibilmente, con il braccio allungato davanti a sé compì un cerchio in senso orario, lentamente, come nell’intenzione di ritagliare lo spazio attorno ai tomi. Subito quelli cominciarono a brillare, avvolti in un tenue bagliore indaco e, pian piano, i volumi si sollevarono in blocco dalla superfice del tavolo, levitando all’altezza del viso della donna.

    A quel punto non le restava che tornare indietro.

    Sulla soglia della porta, seguita dai tomi, chiese alla gatta che si ostinava a pedinarla: «Vieni con me, Sion?».

    In tutta risposta, il felino emise un miagolio sommesso e la donna rise. «Va bene allora…» poi aggiunse rivolta a se stessa: «Neppure ai gatti piace stare da soli così a lungo».

    La solitudine stanca ribadì la voce della propria compagna nella sua mente.

    Fuori, il cielo aveva iniziato ad imbrunire e le nuvole si erano tinte dell’oro dei raggi scagliati dal tramonto.

    La temperatura era scesa.

    Seguita da Sion e dai libri, la donna attraversò la foresta rigogliosa, proprio come un breve e singolare corteo che gli abitanti silenziosi del bosco osservavano incuriositi, sporgendo il muso fuori dalle proprie tane ed i becchi dai nidi. A poco a poco gli alberi diradarono, fino a quando non raggiunse lo spiazzo verdeggiante ove, mansueti, le mandrie di cavalli bianchi brucavano l’erba.

    Ad attenderla sul limitare del dirupo, distesa pazientemente sul prato, l’aspettava la sua gigantesca tigre, il suo tramite, l’altra metà della sua anima.

    Senza dire nulla, l’imponente felino se ne rimase in silenzio ad osservarla con i suoi fieri occhi smeraldini. Avvicinatasi, la donna caricò i quattro tomi sul paio di sacche che pendevano dalla sella sui fianchi del tramite, poi prese in braccio Sion e montò sulla groppa della tigre quando lei si accucciò per permetterle di issarsi.

    Prima di darle l’ordine di andare, la donna si voltò in direzione dell’alto picco roccioso alla loro destra, dove l’erba non arrivava a crescere. Nella sua mente lampeggiò l’immagine del maestoso drago bianco Sayv e, ancora una volta, teneramente il suo cuore sussultò commosso.

    Immersa in un sentimento di gratitudine, a quell’invisibile figura sussurrò Grazie.

    «Cosa credi che farai d’ora in avanti, adesso che abbiamo trovato quello che cercavamo?» le domandò a quel punto l’essere tigrato.

    Senza fiatare, la donna le rispose nella propria testa.

    «Hm» bruì il tramite, inclinando grave il capo massiccio. «Sei consapevole di quello che potrebbe accadere?».

    Seguì un ulteriore attimo di silenzio in cui la maga ribadì la sua posizione esponendole le proprie ragioni. Ormai aveva preso la sua decisione, e non si sarebbe tirata indietro, non adesso che sapeva cosa c’era in gioco.

    «È una grossa responsabilità. Il mondo potrebbe non essere pronto» continuò il maestoso animale. «E forse non lo sarà mai…».

    «Sai, Valkyria…» disse stavolta la donna dischiudendo le labbra. «Nessuno è mai pronto quando si tratta di affrontare un cambiamento… ma alla fine ci si abitua a tutto».

    Abbassando le orecchie, la tigre inclinò la testa verso la padrona, ponendole un altro quesito all’interno della loro mente.

    «Se dovesse accadere…» rispose la maga sistemandosi sulla schiena del felino gigante. «Sarà meglio che non ci colgano impreparati».

    Con quelle ultime parole, la maga dalle iridi dorate pose fine alla conversazione ordinando al suo destriero di avanzare senza indugio. La belva ubbidì e rapide scesero il percorso artificiale che la donna aveva creato con la sua magia, allungando protuberanze nella roccia che discendevano a spirale lungo tutta la colonna rocciosa, simile ad una scala a chiocciola, e la tigre balzò da una sporgenza all’altra.

    Veloce calava la notte, e mentre un altro giorno si concludeva, le due figure si apprestavano a raggiungere Illiasil. Con l’animo in tumulto tra l’eccitazione per la scoperta appena fatta ed il timore che forse avrebbe dovuto restar tale e non oltrepassare quei territori, Euphorbia non poté fare a meno di chiedersi cosa Lasrina avesse visto nel suo futuro, e invano cercò la risposta nell’espressioni che aveva ricordato sul suo viso, quando si erano incontrate.

    In ogni caso, persino se fosse stata ancora lì non glie l’avrebbe mai svelato, perciò aveva soltanto un modo per scoprirlo: vivere.

    Capitolo 1

    Se solo la città potesse essere così sempre.

    Passando per le narici a riempire i polmoni, l’aria fresca e frizzante del mattino rinvigoriva il corpo e lo spirito, entrambi ancora intorpiditi da un sonno turbolento che fiacca e non riposa. Dall’alto dei tetti, il panorama dell’alba che sorgeva all’orizzonte ancora nascosta dietro i monti lontani, rendeva quella quiete che il caos del giorno gli negava, in un ciclo immortale che regolava la frenetica e fragile vita degli uomini. Nel pallido cielo si inseguivano le rondini mattiniere con le loro chiassose grida, a caccia di insetti da imboccare ai propri piccoli in attesa nei nidi, frementi di fame.

    Sedendo a gambe incrociate, con i suoi vermigli occhi castani Farley silenziosamente contemplava il mare di case sotto i suoi piedi con le loro immobili onde di tegole rosse, e quel cielo azzurro che le sovrastava e che sapeva di libertà.

    «Siete fortunate voi…» sussurrò il ragazzo rivolgendosi agli uccelli stellati che, indifferenti alle sue parole, sorvolavano la sua testa di scompigliati capelli purpurei ed il suo volto costellato di scure lentiggini. «… e non ve ne rendete nemmeno conto».

    Se avesse avuto lui le ali, se ne sarebbe volato lontano, oltre quei monti distanti per non ritornare mai più. E invece era bloccato lì, nella dispersiva ed estenuante città di Marizia, assieme ai suoi abitanti ostili e crudeli, prigionieri e vittime come lui dell’avidità dei signori che dominavano quelle terre, proprio come in quegli incubi in cui una minaccia incombe e non puoi muoverti né gridare. Andarsene non era contemplabile perché non possedeva denaro sufficiente neppure per potersi permettere un nuovo paio di scarpe o vestiti che non fossero usati e pieni di toppe, figurarsi per pagare il costoso pedaggio a sé e sua madre. Non poteva comprare nulla per se stesso: quel poco che guadagnava gli fruttava un tozzo di pane che consentisse alla sua piccola famiglia di avere forze sufficienti per arrivare alla giornata successiva e riuscire a lavorare ancora.

    Rinchiusi in un carcere fatto di fame e miseria.

    Il sole illuminava d’oro le fiancate delle alte case in mattoni e pietra; soltanto il suo cuore si ostinava a restare freddo e buio.

    Farley sospirò. L’alba restava la parte della giornata che preferiva, quando il mondo era calmo e silenzioso e poteva ancora udire distintamente quei suoni che il frastornante chiasso dei mercati e delle botteghe gli negava. Ed il suo animo non sarebbe potuto essere più che in dissonanza con quel clima di rinnovata serenità. Per quanto fosse bello incontrare faccia a faccia il mattino sui tetti di Marizia, Farley non poteva che sentirsi profondamente amareggiato: odiava Marizia ma, soprattutto, odiava il fatto di non avere nient’altro da odiare che quella città. Tutto ciò che vi entrava, marciva alla stessa velocità con cui il sole tramonta nei pomeriggi d’inverno.

    Abbassò gli occhi sulle sue scarpe di seconda mano, logore e sporche di fango incrostato e polvere. Si sfregò vigorosamente nelle braccia quando il suo corpo fu attraversato da brividi di freddo.

    «Un giorno ce ne andremo da qui» disse a se stesso per dare motivo al suo cuore di continuare a battere, ma la verità era che Farley non riusciva più a dormire la notte.

    Il ragazzo prese nuovamente un lungo respiro e le lentiggini assecondarono l’espressione corrucciata del suo volto. Presto, un altro stancante giorno sarebbe cominciato, uguale al precedente, e ancora una volta l’avrebbe trascinato con foga nella brusca e travagliata realtà di quella città, così come un petalo è portato via dal vento in tempesta, senza possibilità alcuna di fuga. E Farley nonostante la giovanissima età, era stanco, troppo stanco per proseguire quell’estenuante e triste gioco, talmente stanco da sorprendersi di come ogni giorno riuscisse a trovare una ragione per andare avanti, sempre negli occhi di sua madre. Nel suo cuore però c’era una voragine scura, una frustrante e insaziabile fame che alle volte diventava insopportabile, tanto da arrivare a pensare al suicidio come unica via di fuga.

    Sua madre gli aveva sempre detto che il segreto per resistere ad una vita di stenti, risiedeva nel riuscire a gioire delle piccole cose, delle magre conquiste che il caso o la provvidenza offrivano loro. Farley, in questo, era diventato davvero bravo; eppure, benché ci riuscisse, non sapeva ignorare la punta di amara tristezza celata dietro quei brevi momenti di felicità.

    Farley adorava il mattino ed il suo profumo, le rondini e gli altri animali, dalle mosche ai cani randagi, ed i monti dorati all’orizzonte, e la danza delle loro fronde. Allo stesso modo amava la luna argentea che vigilava sulla notte ed il suo corteo di luminose stelle, la brezza gentile e l’andare di nuvole leggere, l’odore della pioggia ed il suo scrosciare, e tutte quelle altre cose che erano più grandi di lui, perpetue ed eterne.

    «Farley!».

    Irrompendo nel grigiore dei suoi pensieri, la voce apprensiva e dolce di sua madre lo avvisava che un’altra giornata stava per cominciare.

    E va bene. Diamo inizio alle danze.

    Senza farla aspettare oltre, Farley si alzò muovendosi in equilibrio sulle tegole del tetto e, una volta vicino al bordo, si affacciò disotto alla ricerca degli occhi celesti di sua madre che gli faceva cenno di scendere con il capo a cui lui rispose con un sorriso.

    Quattro piani li separavano.

    Come un acrobata esperto, agilmente Farley saltò da un balcone all’altro, senza interruzione e senza nessuna esitazione riducendo rapidamente la distanza che lo separava da lei. Sebbene detestasse vederglielo fare, la donna era consapevole di non avere i mezzi per impedirglielo, così si limitò come ogni volta ad osservarlo mentre scendeva dall’abitazione, con sguardo colmo di apprensione. Era questo che significava essere madre, dopotutto.

    Nel vicolo buio e stretto, il ragazzo atterrò ad alcuni passi da lei compiendo un breve inchino.

    «Faresti meglio ad avviarti…» parlò la donna a braccia incrociate quando ebbe finalmente suo figlio accanto. Farley era alto poco meno di lei. «… se non vuoi perderti la lezione della professoressa Christie».

    «Assolutamente» rispose il ragazzo mostrandole un sincero sorriso.

    Farley adorava la scuola. Pur di permettergli di studiare, sua madre era stata disposta ad accettare un paio di impieghi in più rispetto ai due che già svolgeva e, per questo, inizialmente lui si era fermamente opposto a quella decisione. Allora l’aveva creduta una scelta insensata: a che gli sarebbe servito studiare ed aspirare a qualcosa di più di quello che era, illudersi, quando era chiaro che sarebbe stato il suo ceto sociale a deciderne il destino? Inoltre, l’idea di doversene restare chiuso tra quattro mura con altri suoi coetanei, con i loro vestiti nuovi e puliti e le loro scarpe tirate a lucido, lo ripugnava e spaventava al tempo stesso. Invece, adesso che la frequentava, aveva realizzato che non sarebbe più riuscito a vivere senza e ringraziava ogni giorno sua madre per quel materno sacrificio. Di propria iniziativa, decise persino di procurarsi un altro lavoro pur di aiutarla con le spese. Tutto questo, non per mantenere degli amici che non aveva, quanto piuttosto per la fame di conoscenza che, in lui, sembrava crescere sempre di più: per ogni cosa nuova che imparava, aspettava di apprenderne altre mille.

    Sua madre l’aveva avvertito fin dall’inizio: non c’era nulla di più potente come la cultura. Più affilata di una spada e appuntita di una freccia, più flessibile di un arco e versatile di un pugnale, più distruttiva addirittura di un archibugio. E a Farley non importava se questa sua smodata sete di sapere lo isolava dagli altri; in fondo lo era sempre stato, solo, ed i libri e le lezioni erano tutto ciò che aveva, gli unici mezzi con cui riuscire a fuggire da quella vuota realtà. Tuttavia, c’erano volte in cui credeva che gli sguardi e le risate indignate e derisorie dei suoi compagni invidiosi potessero farlo cadere. C’erano momenti in cui si sentiva irrimediabilmente solo.

    Quando tornava a casa la sera, aveva la smania di raccontare tutto a sua madre. Come vento caldo, la investiva con le sue parole, e lei lo ascoltava pazientemente, con lo sguardo provato ed il suo instancabile sorriso, rivolgendogli persino delle domande di tanto in tanto.

    Farley amava la scuola, forse più di quanto amasse la quiete del mattino.

    Sua madre gli sistemò amorevolmente i capelli prima che andasse.

    «Buona giornata, mamma» disse lui imbarazzato, salutandola prima di avviarsi ciondolando fuori dal vicolo. Lei invece lo trattenne dolcemente per un polso, obbligandolo a voltarsi.

    Con un sorriso pieno e spontaneo che le sollevò leggermente persino il piccolo neo esibito sulla parte sinistra del mento, gli disse: «Buon compleanno, Farley».

    Chissà se avrebbe mai avuto modo di vederla da vicino un giorno, la luna, con uno di quei grandi telescopi che i saggi astronomi di corte usavano per tracciare la mappa del cielo su pergamene inchiostrate. Se chiudeva gli occhi riusciva persino ad immaginarla con il suo profilo irregolare fatto di crateri scuri e profondi, che si stagliava taciturna su di un compatto sfondo nero brulicante di luminose stelle, proprio come l’aveva descritta la professoressa Christie. Ed il suo valzer di cicli lunari scanditi dal Sole che con i suoi caldi raggi ne baciava la superficie, assistendola nella sua rotazione attorno al pianeta. Se la luna era in grado di influenzare le maree rigonfiando di notte il mare, allora forse in qualche modo, pensò, poteva incidere sull’animo delle persone e così forse anche le costellazioni potevano. Chissà quante cose ancora ignorava il genere umano.

    Mentre rifletteva su questo, di colpo il misterioso operato delle fattucchiere che agli angoli delle strade abbindolavano i passanti per leggere loro la mano e predirne il futuro dietro corrispettivo, non sapeva più tanto d’inganno. Forse era veramente possibile vedere oltre il tempo negli astri, o forse no, o entrambe le cose.

    Avrebbe mai visto il mare?

    «Farley, maledizione!».

    L’urlo del signor Davies, proprietario della locanda per cui lavorava, lo fece di colpo sobbalzare. Come ridestatosi bruscamente da un sogno, allarmato il ragazzo spalancò le palpebre mentre un pungente odore di bruciato gli invadeva le narici. Quando con il batticuore estrasse dal braciere la pagnotta che stava cuocendo, era ormai troppo tardi: il tozzo carbonizzato emanava talmente tanto fumo nero che, infastiditi, gli occhi di Falrey cominciarono a lacrimare.

    Alzando con timore il viso, incrociò lo sguardo furente dell’uomo a due passi da lui, con le mani sui robusti fianchi ed un’inquietante espressione di rabbia.

    «Merda Farley…» incominciò la sua predica, l’oste innervosito avvicinandosi pericolosamente la suo volto. «In due settimane, questa è la seconda volta che rischi di mandarmi a fuoco la cucina! Se tua madre non riempisse ogni notte il mio locale di clienti, ti avrei già cacciato a calci in culo!».

    «Perdonatemi…» bofonchiò il giovane rammaricato, evitando accuratamente di incrociare il suo sguardo. «Non succederà più».

    «Sarà meglio per te, ragazzo!» sbuffò il locandiere mentre se ne andava gesticolando e borbottando esasperato. «Ti ho avvisato!».

    Alle proprie spalle, Farley udì Buddy, il ragazzo nerboruto messo a sbucciare patate, soffocare a stento una risata maligna e per nulla intenzionato a nasconderla. Com’era suo solito lo ignorò e, senza entusiasmo, iniziò subito ad impastare un’altra pagnotta nel tentativo di rimediare al danno appena compiuto. Doveva stare più attento.

    «A volte mi domando come tu faccia ad essere tanto stupido» sogghignò Buddy fissandolo con i suoi occhi verdi da serpente. Farley rimase in cupo silenzio, evitando di accogliere quella banale provocazione. Sapeva che l’altro non si sarebbe arreso, perciò si preparò immediatamente a resistere ad un ulteriore attacco verbale che era certo non avrebbe tardato ad arrivare.

    «Secondo me ti manca qualche rotella» proseguì quello senza deluderlo mentre un angolo della bocca gli si arricciava verso la guancia. «E tua madre…» disse sospendendo la frase per poi scuotere il capo con pungente ironia. «Io lo so in che modo riesce a pagarti gli studi… tutti lo sanno… e magari di notte anche tu vai a farti prostituire assieme a quella sgualdrina, da bravo figlioletto devoto, mettendo il tuo magro culetto a disposizione dei clienti».

    Ogni singola parte del suo corpo vibrò nell’udire quelle parole, ed subito il ragazzo dai capelli rossi si voltò di scatto serrando la mandibola tesa. Con i suoi limpidi occhi scarlatti osservò intensamente il compagno nell’intenzione di scavargli l’anima. Nonostante dentro ardesse di rabbia, nel suo sguardo non c’era alcun odio, bensì soltanto una profonda triste compassione.

    Benché orgogliosamente Buddy tentasse di sostenere la sua occhiata in segno di sfida, dentro di lui qualcosa sembrò tremare.

    «So cosa stai cercando di fare, Buddy…» parlò questa volta Farley cercando di mantenere i nervi saldamente imbrigliati. «Non ci riuscirai».

    «E cosa starei cercando di fare, genio?» proseguì l’altro beffardo, riconquistando la propria spavalderia una volta libero dallo sguardo di Farley che nel frattempo era ritornato con indifferenza al suo lavoro. «Dico soltanto la verità. La tua è una famiglia di perdenti, senza palle… è per questo che tuo padre vi ha abbandonati».

    Farley si riempì di aria i polmoni. Quella tortura non finiva mai.

    «Mio padre non ci ha abbandonati… era malato» rispose tenendo gli occhi bassi sull’impasto appiccicoso. Ma che te lo dico a fare, a te non è questo che interessa aggiunse nel silenzio dei propri pensieri.

    «Si, questo è ciò che credi» proseguì divertito Buddy. «Secondo me è scappato con qualche sgualdrina del nord».

    Ancora una volta, Farley inghiottì quell’amaro boccone e, trattenendo il respiro, inserì cautamente la pagnotta nel braciere.

    «Tu probabilmente non eri nemmeno il suo vero figlio» continuò imperterrito l’altro. Era chiaro che volesse vederlo scoppiare. «Tua madre non sa neppure quale dei tanti uomini che si è portata a letto sia tua padre… e se ne sarà fatta tanti».

    «Buddy…» sussurrò Farley tornando a voltarsi verso il compagno e bloccando ogni fibra del proprio corpo. Le mani gli tremavano.

    «Che c’è?» lo schernì lui. «Vorresti piangere, puttanella?».

    Le labbra del giovane dai capelli rossi si dischiusero. «Mi dispiace, Buddy» scandì lentamente.

    «Per cosa?!» subito domandò irritato l’altro, colpito nel vivo, alzando di colpo la voce come rispondendo al peggiore degli insulti. «Per cosa, Farley?!».

    Evitando di rispondere, il ragazzo dal volto coperto di lentiggini seguitò a fissarlo in silenzio, mentre la sua rabbia lentamente si acquietava. Finalmente vedeva chiaramente il problema di Buddy, e non era di certo lui.

    «Per mio padre che mi pesta o perché ho la mamma puttana?!» gridò lui sempre più infastidito dallo sguardo pietoso con cui l’osservava l’altro. Sul suo collo vene violacee sporgevano gonfie di rabbia. «Perché continui a guardarmi senza dire nulla! Ti credi migliore di me, bastardo figlio di una cagna! Non ho bisogno della tua compassione!».

    A quel punto, le mani di Buddy abbandonarono le patate per afferrare il colletto della camicia logora e sporca di cenere di Farley. Alzò il pugno con l’intenzione di colpire quel viso tempestato di lentiggini; le sue pupille si dilatarono.

    Senza reagire, Farley si preparò all’impatto.

    «Picchiami…» disse allora vedendo l’altro esitare. «… se pensi che possa farti stare meglio».

    Ma Buddy non si mosse. Come pietrificato, restò a scrutare fremente in quegli occhi scarlatti: per una qualche strana ragione, neppure sapendo a quale razza di scontro aveva appena preso parte, sentiva di star perdendo. Infine, con frustrazione lo lasciò andare, si rimise a sedere con occhi bassi riafferrando coltello e patate, e proseguì il suo lavoro senza dire più una parola.

    Farley fece altrettanto. L’ostile vibrazione che Buddy aveva cercato di creare tra loro, si era improvvisamente dissolta e per il resto della giornata, il ragazzo dagli occhi verdi non tentò più d’importunarlo.

    Quando ebbero terminato di pulire il locale, Aletha e suo figlio furono liberi di tornarsene finalmente a casa. Dopo una giornata passata ad impastare farina nella panetteria di mastro Patel alle prime luci dell’alba, a fasciarsi continuamente le ferite sulle dita, inferte dalle spine delle rose rosse nella fioreria dietro casa loro, dopo aver corso avanti e indietro nella locanda a prendere ordini e servire ai tavoli, la donna desiderava soltanto stendersi sul letto scomodo e malridotto della sua modesta abitazione e fare un pasto decente, se così si potevano definire i loro pasti. Dopotutto non aveva mai conosciuto una vita migliore di quella.

    Sebbene avesse in consegna dei vestiti da rassettare per un paio di signore del quartiere, aveva già deciso di rimandare il tutto all’indomani. Quella sera, adesso, era soltanto per loro, sua e di suo figlio.

    Farley, con il viso ancora macchiato di carbone, camminava al suo fianco stringendo sotto il braccio destro un tozzo di pane carbonizzato che, con tutta probabilità, era stato lui a ridurre in quello stato.

    Evitando di fare commenti a riguardo, Aletha sorrise teneramente e, sciogliendosi il nastro usurato che usava per legarsi abitualmente i capelli sulla nuca, le ciocche bionde le ricaddero dolcemente sulle spalle, in un fruscio.

    La notte era ormai scesa e, davanti a loro, la strada si era fatta quasi del tutto buia; soltanto le lampade ad olio sparse qua e là, appese al fianco dei portoni delle abitazioni nell’attesa di qualcuno che ancora tardava a rincasare, illuminavano loro la via. Presto anche quelle fiaccole si sarebbero spente e la città sarebbe sprofondata nelle tenebre più profonde.

    Come suo solito, durante il tragitto Farley non aveva smesso un attimo di parlarle di quanto imparato quella mattina a lezione. Con indosso una camicia tutt’altro che bianca, per giunta con uno strappo sul fianco destro che si era ricucito da solo, e dei pantaloni rattoppati con stoffe di diverso colore, e scarpe polverose e consumate, la donna poteva solo immaginare come lo trattassero i suoi compagni. Di loro, lui non glie ne parlava mai.

    Anche se i ragazzi che frequentavano la medesima scuola non erano tanto più ricchi di loro, almeno i genitori potevano permettersi di mandarli in abiti decenti e non con quaderni e libri di seconda mano. Solitamente, le persone che versavano nelle loro stesse difficoltà economiche preferivano spedire i propri figli a lavorare già dalla più tenere età, piuttosto che investire nel loro futuro. Aletha, invece, non se l’era sentita di precludere quella possibilità al suo unico figlio, e quando lo sentiva parlare di ciò che aveva studiato con così tanto entusiasmo, il suo cuore si alleggeriva, e la rassicurava sapere di aver preso la decisione giusta. L’euforia che illuminava quel suo visino lentigginoso, l’appagava della fatica sostenuta durante la giornata molto più del denaro guadagnato. Eppure Farley continuava a non avere amici, e a preferire la compagnia dei libri a quella delle persone e questo, in parte, la preoccupava.

    Aletha si fermò di colpo, quando si accorse che il ragazzo aveva smesso di parlare. Voltandosi, vide che suo figlio stava silenziosamente scrutando in uno dei vicoli bui e stretti che costeggiava la strada sulla destra, con l’attenzione che sembrava essere stata catturata da qualcosa al suo interno. Allora la donna tornò sui suoi passi per sporgersi a sua volta, alle spalle del giovane, ed incontrò due occhi luminosi e sferici che saettavano nell’oscurità studiandoli.

    «Ciao micia» la salutò Farley con un sorriso sicuro.

    Il felino se ne restò immobile a debita distanza, vigile e privo di paura.

    Nonostante il buio, si potevano ancora distinguere i colori che tappezzavano il suo manto: l’addome era bianco come la neve, mentre il muso era cosparso di macchie di varie forme rosse e nere alternate, così come tutto il resto del corpo, finanche la coda.

    «Vedi mamma…» cominciò Farley con lo stesso fare da mentore con cui iniziava sempre a spiegarle qualcosa che era sicuro lei non sapesse. «Questa è una gatta: soltanto le gatte hanno quel tipo di pelo».

    «Ah, davvero?» esclamò sorpresa Aletha che poggiò dolcemente una mano sul capo del figlio. «E come mai?» domandò orgogliosa.

    Farley salutò la micia da lontano con un gesto breve della mano. «La professoressa ci ha detto che dipende dai loro cromosomi: due colori in uno stesso gene».

    Allora benché Aletha avrebbe voluto chiedere spiegazioni su cosa fosse un cromosoma, si fermò quando intuì che sarebbe potuta cadere in una spirale di argomenti troppo complessi e di termini a lei ignoti e difficili da comprendere, soprattutto con la fatica di un’intera giornata di lavoro sulle spalle e del sonno arretrato da dover recuperare, così lasciò perdere e si limitò a salutare a sua volta la gatta.

    «Buona serata, gattina…» si congedò il giovane con voce zuccherata, tipica di chi si rivolge ad un cucciolo o un bambino, prima di riprendere la marcia verso casa. Dopodiché, rivolto alla madre, aggiunse: «Mi piacerebbe avere un gatto… o anche un cane andrebbe bene».

    Un’altra bocca da sfamare pensò tristemente la donna sospirando. Sarebbe tanto piaciuto anche a lei.

    Vivevano in due nel pianterreno dell’abitazione di un signorotto al quale ogni tanto Aletha faceva da balia ai suoi figli, e che avrebbe dovuto in realtà essere adibito a cella frigorifera, magazzino in cui conservare gli alimenti a lungo termine. Sebbene il termine casa non le si addicesse per nulla, quella era l’unica dimora che avevano potuto permettersi con i loro pochi risparmi. Tuttavia, per quanto scomodo fosse abitarci, era l’unico posto di tutta la città in cui potevano rifugiarsi dalla crudeltà e dalla freddezza del mondo ed essere soltanto loro due, avvolti dal proprio calore familiare.

    Varcata la porta, ci si ritrovava in un’unica stanza impiegata come cucina, sala da pranzo, e camera da letto. In fondo, addossata alla parete umida, era stato costruito un modesto braciere: sopra spuntava la cappa per la fuoriuscita del fumo. Avevano pochi ripiani per i piatti ed altri utensili usurati da cucina. A destra c’erano due letti con lenzuola scolorite e mangiucchiate sugli orli dalle tarme, mentre a sinistra c’era invece la porta che conduceva alla latrina. Era comunque molto più di quanto avrebbero potuto permettersi.

    Appena entrato, Farley poggiò il tozzo di pane abbrustolito sul bancone in legno della cucina, per poi abbandonarsi di peso sul letto che emise un cigolio sommesso. Il giovane sospirò di sollievo: finalmente poteva rilassare i fianchi spossati e la fatica allentò la morsa sulle sue spalle.

    «Farley, le scarpe» lo rimproverò sua madre senza rabbia, intanto che si toglieva gli stivali per adagiarli accanto alla porta d’ingresso.

    «Lo so, lo so» mugugnò il giovane ridrizzandosi a sedere controvoglia e chinandosi svogliatamente per slacciare i lacci che gli stringevano i piedi e sfilarsi così le scarpe.

    Nel frattempo che lui era impegnato

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