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Obalee
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E-book931 pagine14 ore

Obalee

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Nick Fedorov, un antropologo russo e Rebecca Daring, una biologa australiana sono i personaggi principali, ma sono accompagnati lungo la storia da molte figure, perché si tratta di una vicenda complessa. I due s’incontrano in Kamcatka, da dove inizia la storia (e dove essa terminerà).

Il ritrovamento di un bassorilievo indecifrabile li porta nei più remoti angoli del mondo, dalla Kamcatka alla Repubblica di Tuva, dall’Australia all’Africa degli aborigeni con la loro cultura, al Sudafrica, nel deserto del Kalahari in mezzo ai Boscimani, in Cina, nella regione del Lijiang immersi in un’antica cultura con usanze matriarcali e particolari fino in Messico nell’intento di mettere insieme le tessere del puzzle che si legano, man mano e in modo sempre più marcato, alla tradizione sciamanica.

La storia si intreccia con il percorso introspettivo di Nick e Rebecca che, confrontandosi con il loro passato, i loro rammarichi e le delusioni e i vorrei inespressi e mai realizzati, si ritrovano uniti da un destino ineluttabile. Ma soprattutto devono fare i conti con le persone che li circondano, alcune con un passato torbido e misterioso, come il professor Baum, è lui ad ottenere per primo il permesso e i fondi per le ricerche in Kamcatka, alle quali si aggrega, suo malgrado, Rebecca, dando inizio alla vicenda.

Kutcha e Vulkoff sono i personaggi chiave del popolo dei Koryak, etnia indigena della regione nella quale si svolgono le ricerche.

Grigory, fratello di Nick, è un mercenario, un guerriero a pagamento. Terminata la scuola superiore, spinto dal padre Leonid, alto graduato e figura mitica Marina sovietica, si iscrive all’Accademia militare di Vladivostok. Le sue notevoli doti fisiche e di soldato gli consentono l’accesso al corpo degli Spetsnaz, unità speciale a disposizione del servizio d’intelligence militare (GRU).

José Luis Carvalõ, uno stimato studioso di cultura maya con una cattedra all’università di Città del Messico e vecchia conoscenza di Nick si unisce al gruppo, come esperto, per aiutarli nella decifrazione di reperti.

Dominic Wood studente brillante e poi ricercatore alla Cambridge Infectious Disease, una comunità interdisciplinare dell'Università di Cambridge, concentra fin da giovane le sue ricerche soprattutto nel campo batteriologico e nella scoperta di nuovi farmaci e vaccini, motivo per cui è assunto dalla casa farmaceutica Kline inc.

Gerard Wolfstein passa la vita a studiare i fossili e vegetali ed è un pioniere del Dna Antico. Ricopre la carica di capo laboratorio all’Università di Colonia, fin quando è costretto a fuggire in Corea del Nord, minacciato anche lui dalla Kline per i suoi rapporti con il professor Boudoit, mitico ricercatore antropologo francese da cui parte tutta la vicenda.
LinguaItaliano
Data di uscita6 ago 2013
ISBN9788868552336
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    Anteprima del libro

    Obalee - Rydia Baldini

    Sono solo le 6 del mattino e il sole è già caldo, guardo con tristezza per l’ultima volta quella che è stata la mia casa per anni, da questo momento non lo è più, un’altra parentesi di vita che sfuma via, come la notte appena trascorsa. Ai miei piedi, le ultime valigie con le mie cose, il resto è già in viaggio. È un vero peccato che i sentimenti non si possano impacchettare e spedire, potrebbero andare persi o restare chiusi a impolverarsi nel magazzino di un paesino sperduto. Non sei rimasto per vedermi partire, hai preferito dormire in albergo e ci siamo salutati ieri sera, so che non perdonerai la mia scelta ma non potevo più restare, non così, forse se fossi scesa a compromessi, le cose tra noi sarebbero andate diversamente, ma non sarei stata più me stessa, non sarei stata la Rebecca che hai amato e che forse ami ancora. Ormai non serve pensare a quello che avrebbe o non avrebbe potuto essere. Mi volto indietro un’ultima volta, chiudo la porta. In macchina Penny e Yuna, le mie cagnette, sono impazienti, stanche di aspettare. E’ ora di andare. I tuoi occhi m’inseguono a lungo, oltre la città, oltre il confine del giorno, fin quando le prime stelle della notte inghiottono e fagocitano, quasi ferocemente, quel pensiero che sfuma e svanisce…

    I tuoi occhi erano belli, ma non mi hanno mai vista.

    La brusca frenata del bus svegliò Rebecca. Stancamente guardò fuori dal finestrino, i passeggeri intorpiditi dal caldo e dalla stanchezza iniziavano a scendere un po’ pigramente raccogliendo i bagagli. Ci mise un attimo a focalizzare dove si trovava, il viaggio era stato lungo e snervante, quasi senza fine. Si sentiva indolenzita a causa di quei sedili che di comodo non avevano nulla. Per far scorrere il tempo aveva letto qualche pagina del libro che si era portata, un fantasy. Lei, così pragmatica, trovava in quei libri i mondi che aveva sempre sognato, maghi, folletti, terre martoriate da guerre tra il bene e il male, era affascinata dalla descrizione di luoghi e personaggi così misteriosi.

    Aveva anche cercato di mettere ordine tra gli appunti e la documentazione riguardante la ricerca del professor Baum, ma dopo un po’ lo stare al computer le aveva stancato gli occhi, suo punto dolente; a trentasei anni già portava gli occhiali da lettura, anche se con una bassa gradazione, ma questo era sufficiente a farla sentire privata di un qualcosa che aveva sempre avuto e che dava per scontato. Avrebbe voluto viaggiare leggera ma, vista la destinazione, aveva dovuto scegliere un set di abiti invernali, caldi e pesanti, stipati in due grosse valigie. Aveva pensato che, se ci fosse stato bisogno, avrebbe acquistato direttamente sul posto quello che sicuramente aveva dimenticato a casa.

    Lì in piedi, in attesa di scendere, sbirciò fuori per vedere che tempo facesse. Il cielo era grigio e l'aria tersa, fresca: quello che ci voleva per svegliarsi. Era curiosa di scendere per vedere la località nella quale avrebbe vissuto per i prossimi mesi. Prima di partire si era documentata molto sulla penisola della Kamcatka, descritta come un museo ecologico all’aperto e dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Sarebbe riuscita ad ambientarsi? Sperava tanto di sì perché il posto la affascinava molto. Dal punto di vista naturalistico, quella era una regione interessante, vulcani attivi, geyser, nevi eterne, sorgenti calde, ed era impaziente di sistemarsi e bighellonare per qualche giorno giusto per acclimatarsi prima di mettersi al lavoro sulla ricerca. Il clima, freddo per quasi tutto l’arco dell’anno, era l’opposto rispetto a Brisbane da dove lei arrivava, sempre caldo e soleggiato. Le sembrava lontana anni luce l’Australia, aveva la sensazione di essere in viaggio da sempre e sentiva la necessità di fermarsi, almeno per un po’. Si stiracchiò e scese per prendere i suoi bagagli, l’autista molto gentile la aiutò. Stancamente si trascinò dietro le valigie e attraversò il terminal dei bus. Camminando si riprese, l’aria le sferzava il viso e un odore di salsedine portato dal vento le arrivò alle narici. Non voleva subito cercare un taxi. Voleva prendersi del tempo e assaporare con calma la sua nuova dimensione, fotografare e tenere a mente tutti i particolari. Non era mai stata una persona frenetica, aveva sempre preso la vita con calma, le piaceva essere presente in quello che faceva, qualsiasi cosa fosse. Amava guardare i volti delle persone, le loro espressioni, se ridevano, se erano tristi o assenti e questo valeva anche per il paesaggio, le piaceva cogliere ogni singola sfumatura, un colore, un odore, un suono. Respirò a pieni polmoni quell’aria così tersa e così pura, tanto che la testa prese a girarle come se fosse ubriaca. Si sentì euforica, nonostante la stanchezza. Fuori dal terminal si trovò all'imbocco di un lungo viale, non aveva voglia di tirare fuori la cartina per orientarsi e al momento non le serviva. Cercò con lo sguardo un caffè, desiderando bere qualcosa di caldo e riordinare le idee. Vide dall’altro lato della strada un locale dall’aria accattivante: l’insegna di legno dondolava al vento, con il disegno, logorato dal tempo, di una tazza fumante di the. La costruzione era vecchia, con assi di larice scoloriti ma nell’insieme appariva calda e invitante. Entrò e scelse un tavolino appartato che le permettesse di vedere sia il locale sia la strada. Ne scorse uno in un angolino che faceva proprio al caso suo. Trascinò i bagagli e si sedette, si sentiva stanchissima - Viaggiare è veramente sfibrante - pensò. Dopo quasi ventiquattro ore di volo, con scali e cambi di aereo, era arrivata all’aeroporto di Palana, e da lì aveva preso il bus per raggiungere Kakhtana che distava una ventina di chilometri. Si disse che per un po’ non avrebbe viaggiato, aveva intenzione di acclimatarsi e fare ricerche, rilassarsi e al massimo concedersi qualche giro in auto e lunghe passeggiate, nulla più. Il locale era accogliente tutto in legno, con una grande stufa al centro della stanza che mandava un tepore avvolgente. Alle pareti erano appese fotografie scattate in epoche diverse, alcune in bianco e nero altre a colori, che ritraevano paesaggi, di una bellezza struggente e selvaggia. Fanghi ribollenti, vulcani, laghi, e neve tanta neve. Le persone sedute ai tavoli sembravano uscite da un libro dell’ottocento, certo molto diverse dagli avventori dei locali che frequentava di solito, nei dintorni dell’università di Brisbane, per lo più studenti molto rumorosi oppure impiegati e professori sempre di corsa che sorseggiavano qualcosa in piedi e di fretta. Le piaceva questo primo contatto, senza contare che il the aveva un sapore e un profumo unici. Lo sorseggiò con calma e sentì il liquido scenderle nello stomaco e scaldarla, la tensione si affievolì e sentì ritornare l’energia. Aveva gli occhi chiusi come in estasi. Com’era diverso questo punto d'arrivo in confronto all’ultimo. Due anni erano passati da allora. Era un ricordo che cercava di non riportare a galla, riposto in un cassetto piccolo, ben nascosto e chiuso a chiave, di quelle chiavi che si portano in tasca e che involontariamente quando infiliamo la mano continuiamo a rigirare fra le dita nervosamente, come un rituale scaccia guai. I ricordi sono sempre lì dietro l’angolo e aspettano il momento adatto per fare capolino dalla nostra testa, non aveva voglia di ripensare al ritorno a casa. Gli sguardi di amici e parenti che chiedevano risposte o semplicemente la compativano. Era stata dura e c’era voluto del tempo per riavviare la sua vita, si era buttata anima e corpo nel lavoro all’università e il tempo libero lo aveva impiegato facendo le cose più diverse, tutto per non pensare, ed era servito almeno in parte ad alleviare quel senso di vuoto e di fallimento che ogni tanto la assaliva. Cercò di scacciare via i brutti pensieri. Si rese conto che qualcuno la stava osservando, aprì lentamente gli occhi sbirciando da sopra la tazza e vide una signora di mezza età che la fissava e le sorrideva. Posò la tazza e ricambiò il sorriso accennando un timido saluto. Era una bella donna, asciutta, muscolosa, una persona abituata al lavoro manuale, di media altezza, con i capelli corvini e la carnagione olivastra e con occhi scuri, profondi come un pozzo, leggermente obliqui, con fattezze proprie delle popolazioni mongole. La donna vestiva colori vivaci e indossava una specie di costume come ne aveva visti in alcuni documentari. Le sue mani erano colorate e adorne di anelli, forse d’oro, forse di fattura antica, ninnoli le pendevano dalle collane che portava al collo. Osservando bene vide che il suo sorriso era cordiale, la fece sentire a suo agio, non provò nessun imbarazzo a ricambiare, una sensazione strana e piacevole insieme. Non sapeva che pensare. Sicuramente non la conosceva, non l’aveva mai vista ma chissà perché le ispirò da subito simpatia. Un pensiero le attraversò la mente: se le avesse rivolto la parola per un saluto come avrebbe fatto? Non conosceva neanche una parola di russo se non dasvidania o spasiba. Non era la prima volta che si trovava in situazioni del genere ed era sempre riuscita, in un modo o nell’altro, a comunicare, anche a gesti se era necessario. Non aveva neanche finito di formulare il pensiero che la donna si alzò e si diresse verso di lei. Ecco Rebecca, si disse, adesso devi sfoderare tutta la tua gestualità per farti capire o puoi tirare fuori il piccolo dizionario che hai in tasca. La sconosciuta, sempre con il sorriso, arrivò al suo tavolo.

    - Miss Rebecca, ho indovinato?

    * * *

    La pioggia batteva forte sui vetri e sul tetto, il rumore del vento sembrava una mandria di bufali in corsa e scuoteva le imposte facendole vibrare come se avessero vita propria, era un lamento triste e monotono. L’acqua scrosciava come una cascata nelle grondaie, dal rumore sembrava che fosse così copiosa da non riuscire a contenerla tutta. I rumori arrivavano ovattati, dilatati, costanti e ritmati come se avesse la testa in un secchio di latta, vedeva annebbiato e non capiva se era sveglio o se stesse sognando. Il suo corpo non rispondeva a nessun comando, come se fosse addormentato o atrofizzato, sentiva solamente un dolore sordo alla guancia destra, un fastidio, avvertiva una sensazione di umido e viscido, fu preso dallo sgomento. Sentiva anche un soffio di aria calda sul viso, l’unica parte del corpo ancora sensibile. Cercò di aprire gli occhi e vide, sfocato, qualcosa di scuro che si muoveva. Non riusciva a inquadrare bene ciò che aveva davanti forse per via della semioscurità che lo circondava. Pian piano si calmò e il suo respiro tornò regolare, alcune immagini si alternavano nella sua mente, si vedeva seduto al tavolo, elaborava numeri e disegnava e tracciava linee, cancellava e riscriveva, modificava, esaminava mappe e fotografie. Ricordò qualcosa: la telefonata, le urla e la rabbia, l’impotenza e la frustrazione, si era acceso una sigaretta e aveva preso una bottiglia di rum, stravecchio, chissà da quanto tempo era nella credenza, non rammentava neanche il giorno il cui lo aveva acquistato, forse mesi prima. Buio assoluto da lì in avanti. Ciò che era successo era un’incognita. All’improvviso si rese conto di dove fosse, seduto alla scrivania con la testa appoggiata, era rimasto lì come un sacco vuoto senza forma né vita, capì che la massa scura china su di lui, era Black il suo husky che gli alitava in faccia e lo leccava. Si vergognò di se stesso, la sostanza appiccicosa sulla sua guancia era saliva, aveva sbavato come un bambino nel sonno tra i fumi della sbornia. Dolorosamente prese a muoversi, gli parve di essere stato preso a bastonate, tutto il suo corpo urlava vendetta per il trattamento subito, la sua schiena parve spezzarsi quando si raddrizzò finalmente sulla sedia. Tentò di alzarsi e cadde rumorosamente sul pavimento di legno, Black gli saltò addosso convinto che volesse giocare, come facevano di solito. Dopo vari tentativi uscì dal torpore e si precipitò in bagno, senza pensarci si spogliò, fece scorrere l’acqua e si buttò sotto la doccia, ne sentiva la necessità, sapeva che era l’unica cosa che poteva scuoterlo, così all’inizio, aprì l’acqua fredda. Gli venne voglia di urlare dallo shock ma si risvegliò subito, la sferzata funzionò aprì quindi l’acqua calda e si mise sotto il getto con piacere. Restò a lungo a godersi il caldo, s’insaponò e si frizionò con vigore, il sangue riprese a scorrere e la sua pelle assunse un colore vivo. Finalmente tornò alla realtà e buttò un occhio all’orologio sulla mensola, erano le 10 del mattino ma fuori era buio per via della pioggia. Black continuava a girargli intorno, gli passava tra le gambe ancora malferme rischiando di farlo inciampare. Pensò che fosse il caso di fare colazione, mise su un bricco di caffè bello forte, ne sentiva la necessità per riprendersi dalla nottata e diede un paio di biscotti al cane che, scodinzolando, ringraziò. Fece una ricognizione nella dispensa, aveva urgente bisogno di ingerire qualcosa di solido, qualcosa di calorico insieme al caffè. Lì trovò, il classico biscotto danese al burro nella scatola di latta, che prese e nello stesso tempo aprì la portafinestra della cucina per far uscire il cane che mugolava impaziente. Black corse fuori felice sotto il diluvio senza curarsene. Nickolaj pensò a quanto era fortunato il suo cane, senza pensieri e preoccupazioni se non quelli di mangiare, giocare, dormire e divertirsi e soprattutto senza il mal di testa che lui sentì strisciare come un serpente su per il collo verso il centro della testa. Nei suoi trentaquattro anni di vita non si ricordava una nottata come quella appena trascorsa, la sensazione di panico e d’impotenza lo avevano assalito penetrando nel profondo e per la prima volta aveva temuto per la sua vita. Bevve con calma il caffè e guardò fuori dalla finestra, che giornataccia, non aveva nessuna intenzione di uscire con il tempo che c’era, sentiva già dentro casa l’umido e decise di accendere la stufa.

    * * *

    Rebecca ebbe un tuffo al cuore. Stupita, guardò la sconosciuta e iniziò a balbettare e farfugliare cercando negli intrecci del suo cervello di comporre una frase che avesse un senso.

    - Miss Rebecca?

    - Sì, sono Rebecca – rispose incerta - buongiorno, io la conosco?

    La donna la guardò con benevolenza.

    - Oh, certo che no, mia cara scusa il mio inglese non buono. Il mio nome è Kutcha, sono l’aiutante del professor Baum, mi ha mandato a prenderti e ti ho riconosciuto subito grazie alla foto che il professore mi ha mostrato sul computer.

    Iniziò a rilassarsi, anche se in verità non era mai stata preoccupata, sorpresa, perché trovare qualcuno che ti conosce all’altro capo del mondo, più che altro non era cosa di tutti i giorni, almeno non per lei.

    - La prego di scusare la mia maleducazione si sieda qui con me, il tempo di bere il the e sono pronta ad andare in capo al mondo – disse Rebecca, sapendo che i suoi occhi stanchi tradivano la baldanza che cercava di dimostrare.

    - Quant’è distante il villaggio del professore?

    Kutcha la osservò, riflettendo.

    - Ci vorrà un’ora, non di più se non piove. Devi fare acquisti?

    Rebecca ci pensò su e decise che non aveva necessità di nulla per il momento.

    - La ringrazio vorrei partire se non le dispiace, sono veramente stanca e non vedo l’ora di disfare i bagagli e incontrare il professore.

    La donna assentì. Rebecca si alzò prese i bagagli e pagò il conto, fuori tirava un vento freddo, ma il the l’aveva scaldata e iniziava a sentirsi stanca, gli occhi faticavano a rimanere aperti. La macchina era parcheggiata nella piazza di fronte al terminal dei bus, un fuoristrada russo. Mise le valigie nel bagagliaio e salì, partirono senza fretta. Si sistemò sul sedile comodo e avvolgente e si rilassò appoggiando la testa. Non si rese conto di essersi addormentata, aprì gli occhi. Stava piovendo peccato, avrebbe voluto vedere il paesaggio.

    - Devi essere molto stanca per il viaggio – sussurrò quasi Kutcha – povera cara non aver timore, conosco la strada a memoria, riposa serena

    - Oggi sono un asso di simpatia e cordialità, non vorrei sembrarle scortese con il mio dormire ma la stanchezza è salita all’improvviso e non riesco a tenere gli occhi aperti

    - Stai tranquilla, riposa, arriveremo a destinazione in un attimo. Avremo tempo per parlare e conoscerci nei prossimi giorni.

    Kutcha continuò a guidare il tergicristallo al massimo della velocità. Rebecca cullata dal ritmo monotono e dal rumore della pioggia si riaddormentò.

    Si sentì toccare delicatamente una spalla. Erano arrivate. Aveva smesso di piovere. Rebecca scese dall’auto con fare incerto, esausta. Si avviò verso la casa, una costruzione a due piani, dal tetto spiovente. Il legno scolorito dal tempo e dalle intemperie faceva risaltare le venature e gli smerli lungo le grondaie donavano all’insieme qualcosa di fiabesco. Il giardino sembrava fosse trascurato, forse volutamente abbandonato e selvaggio, un larice e una betulla svettavano solitari vicino alla casa come se la abbracciassero per proteggerla. Qualche fiorellino sbucava dall’erba e tutto era inumidito, ricco di colori accesi e scintillanti. Nel portico due sedie sembravano in attesa di qualcuno. L’unico movimento che notò fu quello di un gatto che si leccava i baffi accoccolato dietro a una finestra e la guardava con aria annoiata. Entrarono in casa. Il pavimento di legno tirato a lucido faceva strani giochi di luce, il ticchettio di un orologio risuonava tutt’intorno, c’era odore di buono, di naturale e di pulito. Il gatto le corse incontro e si strusciò contro facendo le fusa. Amava i gatti tanto quanto i cani, in verità amava tutti gli animali. Si chinò e lo accarezzò, la sensazione di morbidezza e di calore le ricordò i suoi cani, quanto le mancavano, erano parte di lei, della sua vita, sperò che stessero bene e che arrivassero presto, aveva dovuto compilare moduli e scartoffie per poterle fare entrare in territorio russo. Pensò quanto era incredibile il mondo, certe volte girava al contrario, le persone potevano spostarsi come volevano, ma per gli animali non era la stessa cosa. Ci era riuscita e non vedeva l’ora di rivedere le sue ragazze, come le chiamava. Avevano diviso con lei i giorni belli e quelli più bui e in loro aveva trovato conforto e quell’amore sconfinato, incondizionato che solo un animale sa donare. Le vennero gli occhi lucidi ma si riprese e incolpò la stanchezza per quell'attimo di malinconia. Si rese conto di essere ferma come una statua sull'uscio della casa e Kutcha la stava aspettando in cima alle scale. Salì i gradini e le parvero fossero altissimi, le sembrava di avere le gambe di pietra.

    - Rebecca questa è la tua camera e il bagno è qui di fianco, spero ti vada bene. Ora ti lascio, mi troverai di sotto.

    Ringraziò con un cenno del capo e si gettò sul letto a peso morto. Non voleva addormentarsi così vestita, sentiva la necessità di un bagno caldo prima di infilarsi sotto le coperte a dormire. Si spogliò con fatica, guardò gli indumenti e le parvero sporchi e stazzonati, come se la mano di un gigante l’avesse presa e schiacciata, le scarpe erano zuppe. Nuda andò in bagno e aprì l’acqua per riempire la vasca. Con la coda dell’occhio colse lo specchio che le rimandò l’immagine di una Rebecca difficile da riconoscere. Vide un viso stanco, tirato, con le occhiaie, pallido e slavato, le labbra screpolate e il naso che colava. I capelli erano arruffati e i suoi ricci erano cascanti e sparavano in tutte le direzioni come dei fuochi d’artificio, senza nessuna forma. Fissò la sua immagine per un po’ con occhio critico, e si chiese se fosse veramente lei quella riflessa. Era lei, nelle sue condizioni peggiori. Solitamente si vedeva così quando era ammalata. Decise di non osservare il resto del suo corpo, si sentiva senza forze e le ultime risorse le servivano per lavarsi e andare a letto. S’immerse e si rilassò, il caldo iniziò a farle pizzicare la pelle che si arrossò, chiuse gli occhi e rimase con la testa appoggiata alla vasca, perfino il suo cervello era fiacco, non c’erano pensieri di sorta, solo il silenzio e il calore del vapore sul viso. Adorava l’acqua in tutte le sue forme, ma quella liquida era la sua preferita, era un elemento nel quale lei si sentiva bene, anche mentalmente. L’acqua le procurava un effetto calmante, avvolgente e sicuro. Lì poteva lasciarsi andare, fluttuare leggera, in un abbraccio confortante, amorevole. Fece forza su se stessa per tornare indietro da dove stava andando, conosceva bene quella sensazione, uscì dall’acqua, si frizionò forte con l’asciugamano e si mise a letto. Eseguì il tutto in fretta come un’autonoma. Le lenzuola profumavano di fresco, di fiori e di muschio. Posò la testa sul cuscino e cadde in un sonno profondo.

    Sentì ronzare un insetto vicino all’orecchio. No. Ascoltò meglio. Erano voci, qualcuno parlava nel suo sogno. Si ricordò dov'era e si mise a sedere nel letto. La stanza era inondata di tinte gialle arancioni, il sole iniziava a tramontare. Guardò l’orologio, segnava le sei. Si mise bene in ascolto, due persone discutevano con foga al piano inferiore, forse Kutcha e Baum, il professore. Non le piaceva origliare, era un vizio che non le apparteneva, così si stiracchiò e poi si abbracciò le ginocchia. Voleva alzarsi con calma. Aprì la valigia e tirò fuori gli abiti puliti, non erano tanto stropicciati, domani li avrebbe stirati e riposti nell’armadio. Si vestì con un paio di jeans e una felpa, infilò un paio di morbide scarpe e si lavò il viso. Sicuramente dormire l’aveva ricaricata di qualche energia. Adesso il suo viso pareva più disteso, gli occhi erano un po’ rossi ma il grigio della pelle ora aveva lasciato il posto a un sano colorito . Si sistemò alla meglio i capelli ribelli. Controllò se qualcuno l’avesse chiamata, ma sul cellulare non vide nessuna chiamata. Dopo cena avrebbe telefonato ai suoi genitori in Australia per avvisarli che era arrivata.

    Iniziò a scendere le scale e gli assi di legno scricchiolarono, vecchi e consumati dal passaggio e dal tempo, lucide di cera. Sentì dei passi affrettati e vide venirle incontro un uomo anziano, di media altezza, con capelli e barba bianchi, occhialini tondi e dorati dietro ai quali si vedevano occhi azzurri, vispi e attenti che la studiarono. Indossava pantaloni di fustagno marrone, una camicia a righe e un gilet, dalla tasca spuntava la catenella di un orologio a cipolla. Il suo passo era svelto e sicuro. Il viso era sereno, forse pensieroso. La mano impugnava e rigirava nervosamente una matita.

    - Buonasera, professor Baum.

    Le strinse la mano, era asciutta e forte.

    - Rebecca, è un piacere. Spero si sia ripresa, il viaggio è sarà stato lungo.

    - Sono lieta di incontrarla – disse Rebecca sorridendo - e sono impaziente di avere notizie sulle ricerche che sta conducendo. Ho gli appunti che mi ha inviato, ma preferirei sentire direttamente da lei le ultime novità.

    Il professore, con fare paterno, la prese sottobraccio e la accompagnò in soggiorno, e si sedettero sul divano. Sul tavolino c’erano due tazze fumanti e un aroma di caffè aleggiava nella stanza. Baum iniziò a illustrarle la natura delle ricerche. Come studioso di mineralogia e appassionato di botanica era stato inviato dall’università del Queensland in Kamcatka, una regione in continua evoluzione e ricca di materiale vulcanico in vari stadi di solidificazione. La catalogazione di minerali e di specie botaniche particolari erano l'oggetto dei suoi studi. Il professore si alzò continuando a parlare e Rebecca lo seguì nello studio, pieno di libri e appunti, la scrivania scomparsa sotto pile di fogli scritti con una calligrafia fine e fitta.

    - Avrà tempo per consultare i miei appunti nei prossimi giorni, non faccia caso al caos, nel mio disordine, riesco a trovare tutto. Venga, la cena è pronta.

    Rebecca lanciò uno sguardo sconsolato allo studio e si avviò verso la sala da pranzo.

    - Che profumo invitante!

    - Ho fatto preparare da Kutcha piatti tipici della cucina della penisola – spiegò Baum illuminandosi in viso e svelando così un particolare amore per la buona tavola - sono molto particolari e buoni, adatti sicuramente al clima di questi posti.

    L’atmosfera era cordiale e Rebecca si rese utile nel servire le pietanze. Poi si sedettero tutti e tre. Fuori era ormai buio, a quelle latitudini il sole tramontava molto presto. Si accorse che aveva appetito. Durante la cena Baum le raccontò delle sue ricerche, della catalogazione che aveva fatto dei minerali e delle piante che aveva ritrovato nell’area che stava analizzando. Da quello che le raccontò, capì che Kutcha,, oltre che a occuparsi della casa e al benessere del professore, era anche la sua assistente. Verso di lui, la donna aveva un atteggiamento protettivo e il suo viso era sempre radioso, trasmetteva serenità. Furono interrotti dallo sbattere della porta e da qualcuno che correva. In soggiorno comparve un ragazzino, non aveva più di otto, nove anni. Trafelato e felice, sul suo viso olivastro risaltavano le guance rubiconde, i capelli neri e dritti ricadevano scomposti nascondendo in parte gli occhi, grandi e curiosi, con ciglia folte. La bocca si apriva su denti bianchi e regolari, aperta in un sorriso contagioso. Portava una giacca a vento rossa sbiadita dai lavaggi, i pantaloni erano logori sulle ginocchia e le scarpe, più grandi di un paio di numeri, lasciavano una scia umida e sporca di terra sul pavimento di legno. Baum lo abbracciò e gli scompigliò i capelli. Kutcha lo osservava un po’ burbera e lui se ne accorse, allora la abbracciò e le sussurrò qualcosa all’orecchio, in una lingua che Rebecca non conosceva. Corse in cucina veloce come un furetto, tornò con uno strofinaccio e pulì le impronte che aveva lasciato. Si sedette a tavola e la guardò con un guizzo birichino degli occhi.

    - Dimitri, è di casa, è un ragazzino ricco di risorse e conosce tutto e tutti.

    Il tono affettuoso del professore colpì piacevolmente Rebecca.

    - Ciao Dimitri, io sono Rebecca, non fece in tempo a finire la frase.

    - So già tutto – gridò quasi Dimitri con uno sguardo saggio che fece sorridere i suoi interlocutori - il professore mi ha avvisato del tuo arrivo, finalmente qualcuno di nuovo!

    Mentre parlava dondolandosi si alzò e iniziò a girare su se stesso come una trottola.

    Consumò con voracità la sua cena e prese a subissarla di domande, da dove veniva, chi fosse, cosa facesse. Cercò di rispondere ma il ragazzino era incontenibile, le chiese dell’Australia, che animali e piante ci fossero, come si viveva e se anche lì era obbligatorio andare a scuola! Pazzesco, le ispirò una simpatia genuina e affettuosa. Si affezionò da subito.

    Stavano chiacchierando quando Kutcha disse a Dimitri che era ora di andare a dormire. Rebecca lo salutò con un bacio sulla fronte.

    Baum interruppe i suoi pensieri.

    - Rebecca le darei questi appunti da studiare e riordinare, per stasera penso possa bastare, domattina andremo in cantiere così potrà vedere come procedono i lavori. Vedrà le piacerà questo posto.

    Rebecca raccolse i fogli, salutò il professore e andò in cucina a salutare Kutcha, si sentiva in colpa perché non l’aveva aiutata a lavare le stoviglie e glielo disse. Lei sorrise.

    - Piccola cara, sei appena arrivata e sei un’ospite, non ti preoccupare. Vai a riposare, ci vedremo domani.

    Si sentì sollevata e si disse che l’indomani avrebbe fatto del suo meglio per rendersi utile, sapeva di essere un ospite ma non le piaceva essere servita e riverita, era sempre stata una donna che faceva tutto da sé, nel limite del possibile, e aiutava sempre. Il ruolo di ospite non faceva per lei. Con questi pensieri salutò e andò nella sua stanza, aveva ancora energie per disfare le valige. Tirò fuori il suo diario, era fermo a due giorni prima, prese la penna e iniziò ad annotare impressioni ed emozioni.

    * * *

    La stufa fece fatica ad accendersi, fumò e brontolò come una vecchia locomotiva. Amava il calore che emanava, l’odore della legna, la vista delle fiamme e lo scoppiettio del fuoco. Lo facevano sentire meno solo. Solo, da quanto tempo si sentiva così solo? Da sempre. La sua era una solitudine interiore, del cuore e dell’anima. Aveva amici e conoscenti ma nessuno era mai riuscito a colmare quel vuoto che percepiva, sembrava avesse vita propria e che se ingigantisse con il passare del tempo, alimentato dai suoi silenzi e dai suoi desideri, così lontani e inarrivabili da non apparire umani. Si riscosse, Black abbaiava furioso, cercò di vedere dalla finestra cosa stesse succedendo. Yan il capo cantiere stava risalendo il sentiero, era paonazzo, l’aria calda del respiro si condensava in nuvolette di vapore e il suo viso era accaldato. Russo autoctono, era un uomo sulla cinquantina ben piantato, alto un metro e ottanta con grosse mani callose. Indossava una camicia a scacchi rossa e blu con un giaccone senza maniche imbottito, pantaloni antivento e grossi scarponi sporchi di polvere. Sul capo troneggiava un colbacco di pelliccia sgualcito e unto che aveva visto tempi migliori. Impugnò un bastone e lo lanciò a Black che corse spedito a riprenderlo. Quando tornò, aveva la lingua penzoloni e Yan lo accarezzò affondando le dita nel pelo caldo dell’animale. S’incamminò verso casa, Nickolaj lo aspettava sulla porta.

    - Ehi, Yan caffè?

    L’omone si accomodò in cucina e come d’abitudine corresse il suo caffè con della vodka. Nickolaj si chiese come facesse a bere caffè corretto a quell’ora del mattino.

    - Come va il lavoro allo scavo?

    - Ci sono problemi Nick è ricomparso il galša. Gli operai spaventati dicono che porta sfortuna. Devi tranquillizzarli, a te danno ascolto.

    Nick si sentì scoraggiato, gli incontri avuti con il galša, e con il suo clan si erano rivelati vani. Anni passati a studiare questa etnia e le loro usanze non erano serviti a rompere la loro naturale diffidenza verso gli stranieri colonizzatori. Antropologo stimato, Nickolaj non si capacitava delle continue difficoltà che incontrava nel portare avanti la sua ricerca sul popolo dei Koryak, etnia aborigena della regione il cui nome deriva dalla radice del nome russo renna, ma che chiamano se stessi Chavchuv.

    Ripensò al colloquio con il clan di due giorni prima, aveva esposto le ragioni della sua ricerca, cercando di coinvolgerli e spiegando loro la natura degli scavi effettuati dal professor Baum, si passò con nervosismo una mano sul viso per scacciare i problemi. Corrugò la fronte come se il movimento gli rendesse più semplice trovare una soluzione. Non era competenza sua preoccuparsi del problema ma Baum l’aveva coinvolto, suo malgrado. Era sempre stato accomodante e diplomatico, non gli interessava la ribalta, amava il suo lavoro tanto da immergersi completamente nelle culture che studiava. S’immedesimava a tal punto da perdere a volte la sua identità di studioso.

    Yan lo fissava in attesa, a suo agio. Il suo sguardo era quasi divertito mentre lo osservava. Black entrò in casa trottando, teneva in bocca il bastone quasi fosse un trofeo, era un bastone nodoso e lungo, appariva levigato ma non dalla natura, piuttosto dalla mano dell’uomo. Quando il cane lo posò a terra Nickolaj notò delle piccole incisioni sull’estremità. Un brivido gli corse lungo la schiena, sentì i capelli rizzarsi sulla nuca e un formicolio gli attraversò le mani. Conosceva quel bastone. Come mai si trovava in casa sua e cosa ci faceva prima nel giardino? Gli spiaceva privare Black del nuovo gioco, ma lo prese e lo sistemò nello studio, in alto, dove il cane non avrebbe potuto raggiungerlo. Tornò in cucina. Yan era ancora seduto e si versò una seconda tazza di caffè.

    - Vedrò cosa posso fare, con lo sciamano e con Baum cercherò di risolvere questo problema prima possibile, sia per lo scavo sia per le mie ricerche.

    Yan si alzò rumorosamente dalla sedia e prima di uscire si voltò.

    - Grazie Nick ah, c’è una nuova arrivata, pare sia un’amica del vecchio. Ridacchiò malizioso e se ne andò.

    Nickolaj era pensieroso e agitato. Pensò al bastone. Da quanto tempo era in giardino? Non era un caso, era un gesto voluto. A che scopo? Intimidirlo? Avvertirlo? Non seppe trovare una risposta soddisfacente. Doveva parlare direttamente con il proprietario del bastone. Lo sciamano.

    Decise di recarsi subito al cantiere, s’infilò una calda giacca con cappuccio e i guanti. Diede un biscotto a Black, strofinandogli con affetto il muso. Il tragitto da casa sua fino al cantiere non era molto lungo. Mentre guidava nella sua testa, si rincorrevano pensieri diversi. La strada era libera e ancora bagnata di pioggia. Il paesaggio dei picchi dei vulcani innevati e il verde delle piante lo mettevano sempre di buonumore, iniziò a fischiettare un motivetto inventato al momento. Si accorse solo all’ultimo minuto di una mandria di renne che attraversava la strada. Procedevano calme, e lo osservavano, ruminando. Animali maestosi e pacifici erano il simbolo della regione del Koryak, mammiferi selvatici solitamente allevati dalle tribù locali, sia come animali da tiro sia per la carne, il latte e la pelliccia.

    A un tratto tutto si fermò, le renne si bloccarono nell’attraversare la strada. I suoni della foresta si fecero muti. Udiva nelle orecchie il suono sordo del sangue pulsante. Sentiva a pelle che stava per accadere qualcosa. Intorno, gli animali erano all’erta, in attesa di qualcosa. Fu questione di attimi. Una violenta vibrazione scosse la macchina come un giocattolo, le renne corsero via spaventate, gli uccelli iniziarono a volteggiare producendo strida allarmate. Il terremoto, in quei luoghi non era una novità, ma la scossa era stata violenta. Trascorse qualche minuto e si sentirono altre piccole e impercettibili scosse. L’auto era spenta, Nick non si ricordava di aver girato la chiave. Aprì il finestrino per prendere una boccata d’aria e ripartì. Arrivò allo scavo dopo mezz’ora. Yan, il capocantiere, e gli operai erano già tutti lì. Facevano gruppo e discutevano con foga, gesticolando. I più giovani tracciavano con i piedi cerchi nella terra tenendo gli occhi bassi. Sembravano a disagio. Nickolaj scese dall’auto e si avvicinò al gruppetto. L’uomo più anziano era alterato e quando lo vide, si rabbuiò.

    - Che succede?

    Il suo tono era preoccupato ma risoluto. Il più anziano del gruppo si avvicinò.

    - Lo sciamano ha detto che è sacrilegio scavare qui. Quando viene, ci manda maledizioni e noi non possiamo lavorare con questo pensiero.

    - Non dovete dar retta al galša. E' solo un vecchio matto. Vado a parlargli, voi continuate il lavoro.

    - Vogliamo la certezza che non venga più, sennò ce ne andiamo.

    - D’accordo. Voi continuate il lavoro io tornerò prima di sera.

    Gli operai si scambiarono sguardi d’intesa e mugugnando tornarono al loro lavoro. Yan tirò un sospiro, sollevato. Gli serviva quel lavoro, non poteva permettersi di perderlo.

    Nella regione arrivavano scienziati da tutto il mondo per studiare le meraviglie naturali del posto ed erano fonte di guadagno e posti di lavoro. Tutta la manodopera era locale e i compensi erano buoni perché pagavano in dollari. Yan faceva quel lavoro da più di vent’anni e conosceva gli umori delle popolazioni locali. Era un uomo abituato a sgobbare e non gli piaceva assolutamente dover rallentare i lavori di un cantiere perché un pazzo in costume tradizionale, con campanellini e bastone, terrorizzava con parole incomprensibili la sua squadra. Il cantiere di Baum era in piedi da cinque anni e non si erano mai registrati problemi come in questi ultimi mesi. Sperò che l’intervento di Nickolaj risolvesse definitivamente le difficoltà.

    Nick pensò a come comportarsi con il galša. Non aveva idea di dove cercarlo. Forse, se fosse andato al suo villaggio, avrebbero saputo dargli indicazioni precise e chissà, forse avrebbe scoperto il perché di quell'atteggiamento. Aveva fatto una promessa a Baum. Avrebbe tenuto lui, come antropologo, i contatti con i Chavchuv era compito suo spiegare loro il valore delle ricerche e degli scavi. Questa veste, gli consentiva di andare avanti con il suo lavoro. Non che lui fosse più gradito del professore, però anni di studi e d’incontri e di vita passata con popolazioni indigene gli aveva dato una chiave di accesso: conoscendo gli usi, le tradizioni e soprattutto, il dialetto locale, riusciva a farsi accettare.

    * * *

    Solo con una persona aveva miseramente fallito nel tentativo di farsi accettare: suo padre. Improvvisamente sentì salire dal fondo del cuore, tutta l’amarezza e la tristezza di quella sconfitta. Non avrebbe più potuto provare a farsi accettare, non da suo padre. Come ripresosi da una sorta di narcosi, riandò alla notte precedente, alla telefonata. Adesso ricordava perfettamente cos'era successo, la causa scatenante della sbornia. Zia Irina lo aveva informato che suo padre era morto. Le sue ultime parole erano state per Nickolaj. Senza rendersene conto finì con le ruote nel fosso che fiancheggiava la strada. In quel momento si sentì come l’auto. Ripiegato su se stesso, preda di un dolore insopportabile, che cercò di bloccare. Inutilmente. Uscì impetuoso e tumultuoso come una colata di fango e lava. Sentì un misto di bruciore e rimpianto nel cuore. Si accorse che stava piangendo. Singhiozzava disperato aggrappato al volante, lo stringeva così forte che le nocche erano diventate esangui. Si malediva per com’erano andate le cose con suo padre, per non avergli detto quanto lo amasse. Diventando adulto aveva capito il suo modo di essere. Quante volte si era ripromesso di spiegargli il perché delle sue scelte. Quanti abbracci non dati per stupidi timori infantili. Lacrime copiose rigavano le sue guance, scorrevano in rivoli scomposti tra la barba. Ripensò a quand’era bambino. Vedeva suo padre come un dio. Quando rincasava la sera, stagliato sulla porta, ai suoi occhi appariva alto, bellissimo e invincibile nella sua uniforme. Persona solitamente dura e rigida, in quei momenti, un sorriso increspava le labbra severe. Nickolaj sapeva che era tutto per lui. Gli correva incontro con le sue gambette tornite e malferme e allungava le manine per farsi prendere in braccio. Ricordava ancora il suo odore, misto di tabacco e menta, la sua barba ispida contro il suo viso di bimbo. Amava suo padre in maniera viscerale. Negli anni a seguire non aveva perso quell’adorazione che provava, si era semplicemente affievolita, smorzata dai dissapori e dalle discussioni. Era orgoglioso, parlava con i suoi compagni di classe e lo magnificava. Quando venne a mancare sua madre, lui era piccolo. Aveva solo cinque anni. I ricordi di quei giorni erano nebulosi, indistinti e frammentati. Ricordava parenti, gente che andava e veniva, tutti erano tristi ed evitavano di guardarlo, o se lo facevano erano sguardi compassionevoli. Solo un’immagine gli era rimasta impressa nella mente: suo padre, in braccio un bambino. Tutto infagottato nelle coperte e fasciato come si usava a quei tempi. Il bambino urlava come un ossesso. Rivide suo padre guardare il nuovo arrivato con occhi felici e tristi. Non sorrideva. Nella sua testa di bambino non riconosceva il dolore del padre. Non sentiva neanche il dolore per la perdita della madre. Solo anni dopo avrebbe elaborato quel lutto così grande e così penoso. Riconobbe lo stesso dolore di allora. Lo stesso sentimento di perdita e di abbandono. Voleva vederlo un’ultima volta, anche se zia Irina gli aveva detto che al funerale ci sarebbe stato anche Grigory, non gli importava cosa pensava suo fratello, lui voleva essere lì per accompagnarlo nel suo ultimo viaggio e stargli vicino.

    Si riscosse dalla sua sofferenza. Ne era talmente intriso che dovette fare uno sforzo sovrumano per scrollarsela di dosso, come fanno gli animali randagi con le pulci troppo fastidiose. Chiamò l’aeroporto di Kakhtana per prenotare l’aereo. Gli restava ancora una cosa da fare prima di partire: trovare lo sciamano.

    * * *

    Il mattino dopo era euforica e piena di buoni propositi. Aveva scorso velocemente gli appunti e si preparò per il sopralluogo al cantiere. La casa era in fermento. Trovò Baum pronto per uscire. Bevve una tazza di the e si avviò.

    Seduta in macchina, senza pensieri, fu in grado di godersi finalmente il paesaggio. Il giorno prima non era nelle condizioni migliori per poterlo apprezzare. La strada si snodava tra boschi di betulle e abeti. Il sottobosco era tappezzato di muschi verdi e morbidi. Il cielo era così azzurro da far quasi male agli occhi. Quando furono sulla strada principale, scorse all’orizzonte le montagne con le cime innevate. Non erano montagne normali, erano vulcani, alcuni dei quali attivi. Era lì che si stavano recando. Il cantiere si trovava nella vallata ai piedi del vulcano Ostry. Rebecca rimase incantata dallo spettacolo che l’ambiente le offriva. Non finiva di stupirsi. La natura, in tutte le sue forme, era la sua materia prima, era la linfa vitale che le permetteva di andare avanti giorno dopo giorno. Non si riteneva una scienziata pura. La sua passione era innata, fin da piccola aveva imparato a riconoscere le piante e gli animali. L’infanzia passata nella fattoria dei genitori l’aveva portata ad appassionarsi a tutto ciò che era legato alla terra, che fossero piante, animali o minerali. Stava riflettendo su cosa avrebbe trovato d’interessante in quella regione quando ebbe la sensazione di essere come l’ultima caramella dentro ad una scatola. L’automobile fu scossa con violenza, Baum quasi perse il controllo, e faticò non poco per rimanere in carreggiata. Le sembrò di vedere gli alberi oscillare paurosamente, quasi a voler frustrare la lingua d’asfalto in senso di sfida. Alcuni massi franarono sulla strada. Il professore scartò a sinistra, fortunatamente dalla corsia opposta non sopraggiungeva nessuno. Queste espressioni della natura selvaggia e di un pianeta ancora in evoluzione erano per Rebecca fonte di stupore. A volte le sembrava di non essere normale. In circostanze come quelle o in presenza di eventi atmosferici violenti, non si spaventava, anzi, rimaneva incantata a osservarli, incosciente di fronte al pericolo. Il rumore del temporale, il vento forte, il terremoto. In alcune situazioni era stata anche sconsiderata. Era più forte di lei, era come se gli elementi della natura la attraessero come una calamita. Si sentiva parte di essa, come se la sua persona fosse una connessione tra la natura e gli altri esseri umani. Queste considerazioni e sensazioni le custodiva per sé. Non aveva intenzione di passare per squilibrata con il rischio di essere guardata male se non addirittura di essere rinchiusa in qualche casa di cura. Il professore imprecò. Un albero era caduto sulla strada ma riuscirono comunque a passare. Il vantaggio di guidare un fuoristrada. La giornata si annunciava movimentata ancor prima di iniziare. I fogli degli appunti erano sparsi per terra. Li avrebbe raccolti appena giunti a destinazione. Nonostante l’età, il professore era un autista esperto, conosceva la strada e procedeva tranquillo. Arrivarono al cantiere senza altri intoppi. Scosse di assestamento si erano susseguite ma quasi impercettibili. Il vulcano era maestoso. Largo e piatto, a causa delle colate di lava che ne avevano ampliate notevolmente le dimensioni.

    Gli operai erano al lavoro. Si tenne a distanza mentre Baum parlava con quello che a prima vista sembrava essere il capo cantiere. Non voleva intralciare il lavoro così iniziò a gironzolare nei dintorni. Gli scarponi sulla terra mista ai grumi di lava delle eruzioni, producevano un suono di biglie che si scontrano. Aveva un atteggiamento sempre rispettoso e reverenziale nei confronti di ciò che la circondava. Cercava di sentire con il corpo, i sensi all’erta a captare ogni minima vibrazione. Annusava l’aria come un segugio. Raccoglieva sassi e ne controllava la forma e il peso. Li rigirava tra le dita. Tutt’intorno crescevano alti alberi, con chiome folte ritte verso il cielo. Molti erano caduti in maniera scomposta, marci e percorsi da tunnel scavati dai tarli. Piccoli mucchi di segatura sul terreno indicavano una fine ingloriosa, e muschi, licheni e funghi crescevano indisturbati su scheletri di legno vecchi di anni. Scoiattoli saltavano da un ramo all’altro come trapezisti di un circo. Suoni e rumori creavano una sinfonia che allietava l'udito e riempiva di serenità e pace il cuore. Da quanto non provava questa sensazione di equilibrio e tranquillità?

    Si sentì chiamare. Era il professore. Tornò indietro perché senza rendersene conto, si era addentrata nel bosco. Gli operai la osservavano, chi apertamente chi con fare nascosto. Baum la presentò alla squadra e a Yan, il capo cantiere, come sua assistente. Si sarebbe recata anche da sola allo scavo quindi doveva farsi conoscere per non avere difficoltà o rimostranze da parte degli operai. Sapeva che il lavoro sarebbe stato impegnativo ma dannatamente interessante. Avrebbe affiancato Baum e nello stesso tempo avrebbe studiato le piante e gli animali. La documentazione che aveva trovato sulla Kamcatka, la descriveva come una terra di follie minerali e biologiche: una vegetazione cangiante dal verde smeraldo al color zafferano. Luoghi affascinanti e incontaminati e una natura veramente selvaggia. Tundra boreale, sconfinate distese di taiga. Boschi di betulle, inframmezzate da pennellate scarlatte di sorbi, di pini nani dai colori grigio-azzurro e salici prostrati. Sul suo viso apparve un’espressione trasognata come quando era bambina e scopriva qualcosa di nuovo.

    Si accordò con Yan e il professore, sarebbe ritornata l’indomani per iniziare a catalogare il materiale che era stato trovato durante gli scavi. Per lo più erano minerali, quarzi dai mille colori e basalti neri come la pece.

    - Si fermerà a lungo?

    Yan la fissò dritta negli occhi, un sorriso bonario lo illuminava.

    - Penso proprio di sì. Il lavoro non manca e sono impaziente di iniziare.

    L’uomo le fece una buona impressione. Emanava vibrazioni positive, le ispirò fiducia. Raccolse alcuni sassi e li mise in tasca. Era più forte di lei non poteva farne a meno, ovunque andasse. I suoi occhi brillarono come pietre preziose. Sentì l’aria pungente sul viso. Si sentiva viva come non le accadeva da tanto. Salutò la squadra e con il professore rientrarono a casa. Aveva tante domande da porgli. Aveva notato che durante la visita, Yan e Baum avevano confabulato appartati. Il professore sembrava contrariato, gesticolava e si tormentava le mani ma il capocantiere gli aveva dato una pacca sulla spalla come a rassicurarlo. Cercò di non pensarci, non voleva passare per ficcanaso.

    Il professore rimase taciturno e pensieroso durante il viaggio e lei si finse impegnata a riordinare gli appunti. Scrivere al computer fu un’impresa difficile, a ogni sobbalzo le toccò correggere quello che aveva scritto. Rinunciò, chiuse il portatile e decise che avrebbe continuato a casa, nella sua stanza o nello studio. Non aveva intenzione di fare il lavoro due volte.

    Si batté il palmo della mano sulla fronte, con forza. Non aveva ancora chiamato casa per avvisare che era arrivata sana e salva. Oltretutto doveva anche tener conto del fuso orario, non sapeva quanta differenza ci fosse tra lì e Brisbane. Cercò il telefono nella borsa, sentì il clacson dell’auto e un altro rispose. Allora non era proprio una landa desolata, qualcuno transitava sulla strada. Sentì il rumore di un'auto che sfrecciava nella direzione opposta alla loro. Ne fu confortata. All’orizzonte nuvoloni neri si addensavano veloci, correvano nel cielo e si accostavano l’un l’altro, danzando soffici e leggeri al suono del vento. Sentiva nell’aria odore di pioggia, di tempesta in arrivo. Non si sbagliava quasi mai.

    Era pomeriggio inoltrato quando rincasarono, lo stomaco emise dei borbottii, segno che aveva fame. Posò le sue cose nello studio e andò in cucina, attirata da un profumo invitante. Kutcha sfornò quello che le parve un dolce. Sentì la necessità impellente di assaggiarlo qualunque cosa fosse. La sua curiosità era preponderante, soprattutto per il cibo. Le piaceva assaggiare tutto. I sapori della cucina di un popolo andavano di pari passo con gli odori, i colori, i suoni che li rappresentavano. Tutto era collegato. Così assorta e immersa nell’aroma non si accorse di essere spiata. Con la coda dell’occhio vide Dimitri che la fissava curioso. Le sorrise e lui corse ad abbracciarla. Profumava di fresco, di bosco e di allegria. Il bambino con la sua spontaneità smantellava tutte le barriere che si era costruita in anni di faticosa sopravvivenza. Lui la afferrò per mano e si sedettero insieme a tavola in attesa. Kutcha li guardò con affetto. Tagliò delle fette e le servì insieme al the. Il dolce era fragrante e caldo, deliziava il palato. Rebecca non riusciva a individuare gli ingredienti. Cannella e burro e mirtilli. Non ricordava di aver mangiato niente di così buono, almeno non negli ultimi tempi, forse la situazione e la compagnia arricchivano il sapore. Kutcha si unì a loro.

    - Avete sentito il terremoto?

    Dimitri rispose di sì scuotendo la testa. Aveva la bocca piena di torta.

    - Sì. Non ci facciamo più caso. E’ la natura che ci parla. Cosa ne pensa del cantiere? Gli operai erano al lavoro?

    Kutcha sembrò interessata e chiese se il professore era tranquillo.

    Rebecca pensò a quello che aveva appena sentito: la natura che parla. Condivideva l'espressione. Denotava un grande rispetto per ciò che ci circonda e ne fu colpita.

    - Ho conosciuto gli operai e Yan. Domani andrò da sola. Spero di ricordarmi la strada.

    Non aveva pensato a questo e non aveva osservato molto la strada né all’andata né al ritorno. Le venne in mente che, tra gli appunti, c'era una cartina con segnato il cantiere e la casa del professore. Fece un sospiro. Dimitri saltò sulla sedia.

    - Io, vengo io con te alla montagna.

    Lei lo guardò non sapeva che rispondere.

    - Certo lui conosce molto bene il posto. Ti farà da guida - disse Kutcha.

    * * *

    Era riuscito a trovare posto sull’ultimo volo della sera che partiva da Palana, sarebbe arrivato a Vladivostok in nottata. Aveva telefonato a zia Irina per chiederle di andare a fare un giro d’ispezione nel suo appartamento. L’ultima visita risaliva a un’estate di tanti, troppi anni fa e sicuramente la caldaia era spenta, l’aveva programmata sull’antigelo ma non gli sembrò il caso di arrivare in un appartamento freddo, anche se non pensava di restarci per molto. Conoscendo la zia sicuramente avrebbe trovato anche la cena pronta, solo da scaldare accompagnata da un biglietto di raccomandazioni e affettuosità. Lo aveva allevato insieme a suo fratello Grigory dopo la morte della mamma, e malgrado fosse ormai adulto e maturo, per lei, rimaneva sempre il piccolo Nicky, le voleva bene. La sua presenza lo aveva aiutato a superare le difficoltà della perdita e si era sentito protetto e amato. Non si era mai sposata. Innamorata di un dissidente, le era stata fedele sempre, anche quando fu arrestato e non se ne seppe più nulla. Ricordava i suoi racconti, gli occhi s’inumidivano quando parlava del suo Misha. Nick sapeva che non si era mai rassegnata alla perdita, sperava sempre che lui fosse fuggito chissà dove e che un giorno sarebbe tornato per portarla via con sé. Non ne parlavano mai e Nick sapeva che nei seppur rari momenti di silenzio, la verità irrompeva nella sua mente con tutto il suo carico di dolore. Misha non sarebbe mai tornato. Da quell’inferno non si usciva vivi. A quei tempi un dissidente non viveva a lungo, gli esempi erano fin troppi. Zia Irina conosceva la verità, ma non riusciva a dirla neanche a se stessa. Aveva riversato su Nick e su Grigory tutto l’amore che avrebbe voluto dare a quei figli che la vita non gli aveva mai concesso.

    Nick passò da casa e affidò Black a una vicina anziana, la signora Motkova, solitaria vedova di un minatore, che settimanalmente gli teneva in ordine le cose. Le donne anziane lo prendevano sempre in simpatia, diventavano chiocce amorevoli, lo coccolavano, lo viziavano e gli davano consigli se non addirittura sgridate e rimbrotti. Con le altre donne, beh quello era un altro discorso. Quasi nessun tipo di connessione. Era come se tra lui e le donne ci fosse una sorta d’incomunicabilità cerebrale, due specie della stessa razza ma diverse nel linguaggio e nel modo di vivere e di concepire la vita. Sapeva di essere un bell’uomo, affascinante, brillante anche se ombroso. Non passava inosservato. Aveva avuto alcune storie ma cose da niente. Nessuna era mai durata più di una settimana. Tutte finivano alla stessa maniera: lui doveva partire per una nuova spedizione di ricerca, un ciclo di conferenze, un corso in un’università lontana. Erano solo fughe. C'era stato un periodo nel quale erano circolate voci poco gradevoli sul suo conto. Chi lo descriveva come donnaiolo o chi come psichicamente instabile o come un burbero insopportabile. Lui non gli aveva dato peso e aveva continuato la sua vita di sempre. La fama che si era faticosamente creata immergendosi completamente nel lavoro gli aveva guadagnato la stima del mondo accademico, per quanto anche questo per lui valesse poco. Conosciuto nell’ambiente dell’antropologia di tutto il mondo, autore di saggi divenuti quasi fondamentali, s’imbatteva costantemente in persone sempre pronte ad adularlo solo per potersi vantare di un’amicizia che lui in effetti, non aveva mai concesso a nessuno e dalla quale rifuggiva con disgusto. Con questi pensieri gettò in una sacca un ricambio d’abiti, e tutto il necessario per la toeletta. Il vestito per il funerale lo avrebbe trovato nel suo appartamento e anche il resto lo avrebbe trovato lì, dove lo aveva lasciato l’ultima volta. Anni prima.

    L’aeroporto di Palana era stato inaugurato di recente e aveva sostituito l’altro, ricordo dei tempi d’oro del comunismo sovietico e non più adeguato al flusso di aerei che giornalmente arrivavano nella regione portando soprattutto spedizioni di studiosi stranieri. Prima della perestrojka la Kamcatka era interdetta agli stessi russi per ragioni militari. Era necessario avere permessi speciali per recarvisi. I visitatori facevano fatica a ottenerli e, ancora oggi, basi militari russe rimanevano stanziate sul territorio. Arrivò al check-in appena in tempo, mancava un quarto d’ora al decollo. Fortunatamente non aveva nulla da imbarcare, solo un bagaglio a mano. Salì sull’aereo mentre l’altoparlante ne annunciava l’imminente partenza. Si sistemò sul sedile e allacciò la cintura. Quando l’aereo iniziò a rullare sulla pista per il decollo Nick, già dormiva. La stanchezza l’aveva vinto, era stata una lunga giornata e non era ancora finita. Il volo non durò molto e dovette fare scalo a Petropavlovsk, la coincidenza arrivò subito, bevve in fretta un caffè e si diresse al gate d’imbarco. Mentre era in volo sul mare, ripensò all’incontro con il galša del pomeriggio. Dopo aver lasciato Yan era andato in cerca dello sciamano. Sperava di non dover cercare troppo e, per prima cosa, si era recato al villaggio. Tutti erano al lavoro c’era chi raccoglieva legna per il fuoco e chi radunava le renne prima della sera. Era sempre stato il benvenuto e tutti facevano a gara per offrirgli qualcosa di caldo. Quel giorno non aveva molto tempo, doveva assolutamente parlare con il galša e poi partire. Non gli piaceva fare le cose di fretta ma in un certo senso era obbligato, date le circostanze. Ebbe fortuna lo trovò in casa, Vulkoff, così si chiamava, lo invitò a sedersi davanti al fuoco e gli porse un bicchiere di linfa di betulla. Sentiva ancora in bocca il sapore della sbornia della notte prima, ma non poté rifiutarsi di bere, sarebbe stata un’offesa. Si sistemò per terra a gambe incrociate e ringraziò. Mentre beveva, l’altro lo scrutava con un sorriso di divertimento. Non riusciva a capire il perché del comportamento di Vulkoff, l'atteggiamento descritto da Yan e dagli operai, al cantiere di Baum. Sapeva che i Koryak erano gelosi delle loro usanze e vivevano in armonia con l’ambiente: faticava a renderli partecipi delle ricerche. Finora non era successo niente di grave. Vulkoff ogni tanto si recava sul posto e con balli, canti e gesti rituali intimoriva gli operai ma nulla di più.

    Passò un’ora, la discussione era accesa. Nessuno dei due ripiegava dalla propria posizione. Nick era esasperato e stava per alzarsi quando si ricordò del ramo che conservava a casa. Chiese spiegazioni e Vulkoff si alzò, ora il suo sguardo non era più divertito ma neanche ostile. Gli mise una mano sulla testa e chiuse gli occhi. Stava cadendo in trance. Nick sentì un calore partirgli dal centro del ventre e salire su fino al plesso solare e poi ancora su, fino alla testa. Si sentì immerso e irradiato dal calore e dalla luce. Gli sembrò di stare in un bozzolo. Non seppe se attribuirlo al fuoco del camino e alla stanchezza o alla mano posata sulla testa. Il tocco era lieve. a un tratto si sentì leggero, sia nel fisico sia nello spirito. Tutte le preoccupazioni e i pensieri erano spariti come d’incanto e perse la cognizione del tempo. Vulkoff tolse la mano, riaprì gli occhi e li fissò in quelli di Nick, nella sua lingua gli disse:

    - Custodiscilo. Sta giungendo il momento. -

    Detto questo, lo accompagnò con fare premuroso alla porta che si richiuse subito dietro di lui.

    Non sapeva se essere stupito o arrabbiato. Frastornato era il termine esatto. Si avviò alla sua auto e tornò a casa. Non aveva pensieri. Sapeva solo che doveva andare.

    Atterrò a Vladivostok in perfetto orario. La città, chiamata la dominatrice dell’oriente, era sorta verso la metà dell’ottocento con l’insediamento di una postazione militare che divenne sede della principale base della marina militare russa. Fino ad allora territorio poco noto, grazie all’esploratore e naturalista Vladimir Arsen’ev, che compilò le mappe con le caratteristiche topografiche e geografiche, e alla sua passione per la botanica e la geologia, la regione divenne rinomata. Fu un viaggio tranquillo, niente scossoni, segno che il tempo era buono e non c’erano perturbazioni in arrivo. L’aeroporto era affollato di gente malgrado fosse notte inoltrata, turisti e russi. Fuori dal terminal cercò un taxi. Salì e diede l’indirizzo all’autista. Il suo appartamento si trovava nel centro della città, la zona vecchia, carica di storia e ricca di palazzi antichi. Lo aveva ereditato da sua madre, l’unico legame materiale che lo tenesse legato a lei. Era un luogo carico di ricordi, dove lei era nata e cresciuta e, dove lui si sentiva a casa. Il traffico era intenso ma non caotico. La città era viva a qualsiasi ora, turisti ne affollavano le strade e i locali tipici e di divertimento non mancavano. Il suo appartamento si trovava in una via poco frequentata e silenziosa. Entrò e lo trovò caldo, un profumo di cibo nell’aria. La luce illuminava l’ingresso e Nick ringraziò mentalmente sua zia. Accese il televisore per ascoltare le ultime notizie e si sedette al tavolo, pronto a gustare il suo piatto preferito. Finita la cena e andò in camera e aprì l’armadio. Controllò il suo abito scuro, quello che teneva di riserva per le occasioni particolari. Avrebbe preferito non indossarlo, non per il funerale di suo padre. Non aveva sonno, quella notte non avrebbe dormito. Sentiva una sorta di agitazione per l’indomani, l’incontro con suo fratello e con i parenti che non vedeva da anni. Immaginava già le domande sulla sua vita, sul suo lavoro. Cercò di non pensarci. Si recò nello studio e si piazzò davanti alla libreria, densa di volumi che traboccavano dagli scaffali come schiuma sull’increspatura delle onde di un mare agitato. Pagine ingiallite dal tempo, vecchi libri che aveva letto e riletto. Un piccolo sorriso increspò le sue labbra, rughe sottili si allungarono ai lati degli occhi, che solitamente grandi, divennero fessure. Trovò quello che stava cercando. Il romanzo di Arsen’ev che lo aveva spinto a studiare antropologia. Lo aveva letto e poi studiato con passione. Con rispetto e interesse. Se avesse esaminato con una lente le pagine, avrebbe trovato impresse sulla carta le sue impronte. Giovani e vitali, entusiaste. Le descrizioni di Arsen’ev sulle spedizioni, la raccolta di materiale geologico e botanico, ma soprattutto l’osservazione degli usi e costumi delle popolazioni che abitavano il territorio del litorale e la zona del fiume Amur, erano stati gli elementi che lo avevano attratto segnando il suo percorso di studio e di vita. Sprofondò nella poltrona e s’immerse nella lettura. Sperava di distrarsi, almeno per un po’. Fu un tentativo inutile. I ricordi d’infanzia iniziarono ad affiorare nella sua mente. Era stato un periodo spensierato. Riusciva a ricordare frammenti di momenti passati con sua madre. Uno in particolare gli era rimasto impresso. Natale del 1981. Era al secondo anno di scuola materna e con la sua famiglia erano andati nella casa di

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