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I Cavalieri di Pian Sec
I Cavalieri di Pian Sec
I Cavalieri di Pian Sec
E-book163 pagine2 ore

I Cavalieri di Pian Sec

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Info su questo ebook

Una finestra del fine ottocento per svelare il mistero di un tesoro e di quattordici lance, il respiro di un paese dalla sua nascita ai giorni nostri. Una intrigante sciamana..."strolga" per i paesani, veglia e protegge una antica leggenda, un piccolo gruppo alla ricerca di un mondo perduto.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ago 2019
ISBN9788831624534
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    Anteprima del libro

    I Cavalieri di Pian Sec - Dalmazio Dallaturca

    Wikipedia.

    Tutte le mattine Dino riusciva a ridestarsi senza che la sveglia potesse intervenire, il suo io biologico era sempre forte e presente anche nel dormiveglia, al buio con gli occhi cisposi, semi chiusi, la disattivava e con cura, piano piano passava alcuni minuti seduto sul letto, poi con un forte sforzo di volontà iniziava la solita giornata. Ciabattando piano per non svegliare il condominio, alle sei e trenta precise in cucina a preparare la colazione: con metodica precisione allineava un numero costante di gallette secche da spalmare di marmellata tassativamente alle prugne, di seguito un cucchiaino e mezzo del caffè solubile nella mezza tazza di latte tiepido. In oltre, rifatto il letto vi stendeva in ordine: calzini, boxer, maglietta, camicia, calzoni, pullover, le scarpe allineate sotto il comodino pronti per di uscire, per ultimo la barba e la doccia. Nel frattempo il televisore a volume bassissimo, solo con lampi azzurri, trasmetteva in silenzio le notizie del mattino: politica, traffico, costume, meteo e non da ultimo l’oroscopo del giorno. Quello fermo innanzi allo schermo lo ascoltava in religioso silenzio, con il fiato sospeso, non perché ci credesse, solo per trovare l’ottimismo per iniziare una nuova giornata. La sua vita trascorreva tranquilla senza sorprese, ordinata e prevedibile nel suo svolgersi un giorno dopo l’altro ma l’imponderabile imprevisto era in agguato per sconvolgere tutta quella perfezione, per alcuni versi, dolcemente monotona. I vicini potevano regolare l’oriolo sul rombo del motore diesel, acceso alle sette e trenta, mentre lento il cancello ad apertura elettro comandata si apriva e lui con rapida manovra usciva dal garage. Ancora musica e notizie alla radio, e il traffico con la solita bolgia infernale, ai finestrini facce anonime ed inespressive di tutti i giorni. Improvvisamente, a lato della statale, una giovane dai capelli rossi, pallida, accennava ad un bisogno di aiuto agitando le mani convulsamente nell’aria allo scopo di attirare l’attenzione. Il povero Dino, preso alla sprovvista all’interno della sua routine, in brevissimi secondi passava dalla assoluta indifferente apatia, ad una improvvisa curiosità, e alla normale voglia di proseguire e di ignorare quella presenza si sostituiva il desiderio di fermarsi. Grazie alla guida estremamente prudente e la non eccessiva velocità del mezzo, l’arresto dell’auto avveniva dolcemente e sicuro, ponendo lo sportello di destra proprio all’altezza della donna.

    La giovane con un sorriso diafano aprì lo sportello e si accomodò sul sedile a fianco; solo a quel punto Dino si accorse che lei, più che pallida aveva una colorazione della pelle bianchissima, con il viso pieno di lenticchie colorate incorniciato da capelli di un rosso acceso, gli occhi erano azzurri, intensi e trasparenti. Lui a stento riusciva a guardali, tanto che fu costretto ad abbassare lo sguardo riportandolo al nastro d’asfalto. Lei al collo portava uno strano amuleto come due serpenti attorcigliati fra loro ed al polso un bracciale in pelle con anelli in rame, sulla spalla sinistra aveva tatuata una testa di lupo che mostrava tutta la dentatura. Mentre timidamente, con lo sguardo sulla strada, raschiandosi la gola tentava di avviare un colloquio il più informale possibile, venne anticipato con sua sorpresa dalla ragazza. Lei posando la mano su quella che innestava la marcia con una voce dolcissima:<< Lo so cosa stai pensando>> lui tentò una risposta ma lei proseguì:<< hai notato la mia epidermide bianca, i miei occhi azzurri che, non mi permettono di restare a lungo alla luce del sole, perché mi procura delle fitte dolorose, per questo, mi perdonerai, se indosso questi scurissimi occhiali>>. Dino fece appena un accenno di assenso mentre lei continuava<< so chi sei, e che passi tutte le mattine alla stessa ora perché lavori in biblioteca, oggi ti aspettavo perché ho bisogno del tuo aiuto per consultare dei vecchi libri>> L’uomo era quasi impaurito da questo anticipare le sue domande, e dentro di se si dispiaceva di aver fatto quella cosa, per lui insolita, di fermarsi per accogliere in auto degli estranei. La sorpresa del povero Dino era immensa, in pochi istanti nella sua mente si affacciavano le più svariate ipotesi: << non mi sono svegliato, dormo ancora?>> << ma questa come mi conosce, non ricordo d’averla mai vista>>.

    Per fortuna il viaggio fu breve e nessuno dei due aggiunse più una parola.

    Appena giunti e parcheggiato nello stallo a lui riservato, il numero otto, cortesemente aprì la portiera alla ragazza porgendole il braccio per sostenerla, lei lo posò lievemente, e con un sorriso, ringraziando, lo salutò con un arrivederci. Ancora stupito da quell’incontro, con due salti sorpassò i gradini dell’ingresso, aprì la porta e con solita precisione timbrò il cartellino alle otto in punto.

    Giunto al suo minuscolo box in vetro a vista su tutta la biblioteca, come prima cosa accese il computer, aprì il cassetto della scrivania e in perfetto ordine sul ripiano pose: le biro di vari colori, le matite e il temperino, il registro, gli occhiali nel caso ci fosse bisogno, fogli per appunti tutti disposti in ordine cromatico, misura ed utilizzo. Seconda operazione del mattino un giro per gli scaffali per riordinare i volumi affinché tutti sporgessero in eguale misura e fosse subito ben leggibile il titolo. Durante il giro gli parve di vedere l’ombra della ragazza che si aggirava fra le corsie, poi con suo disappunto, un tomo scivolò in terra, lo raccolse e guardandolo lo trovò strano e diverso ma soprattutto non lo aveva mai visto. Aveva una copertina in pelle antica, era mal rilegato ed aprendolo lo scritto appariva smunto ed in una lingua incomprensibile che non era italiano, latino o volgo, addirittura sfogliandolo pareva che le parole si componessero al momento. Non vi era specificato l’autore e i dati della casa editrice. Molto stuzzicato prese il libro e chiuso nel suo piccolo ufficio, prima controllò se era nell’elenco, verificato che non era fra quelli posseduti dalla biblioteca, ne iniziò la lettura. La prima pagina enunciava un titolo intrigante e misterioso: Un tesoro di Paese.

    Il racconto iniziava così:

    Il gennaio 1864, annunciava un inverno particolarmente freddo. Il vapore nella piccola cucina sui vetri presto gelava disegnando imprevedibili ghirigori. La signorina Antoinette appoggiata al piccolo davanzale, eretta grazie all’età ancor giovane, aiutata da un paio di occhiali ovali dalla sobria montatura in metallo, leggeva per la seconda volta una lettera. Una lama di luce grigio acciaio penetrava fra i bassi tetti del borgo e facilitava la lettura di quel sottile, quasi ingiallito foglio di carta chiara. La grafia di lucido inchiostro nero, si delineava come uno svolazzante stormo di storni infreddoliti dal gelo. La signorina Antoinette era da alcuni anni la maestra delle scuole locali, non ancora sposata e sempre dedita ad acculturare i piccoli del paese, ed in alcuni casi, ad ore serali, insegnava ad adulti i principali rudimenti di scrittura e di lettura. Nel piccolo borgo era diventata una istituzione come il comandante della guardia nazionale, il prevosto, il medico e quasi pari merito con il farmacista, al quale contendeva la proposta di formulati galenici per i piccoli allievi. In alcuni anni di insegnamento aveva acquisito una notevole esperienza in malattie esantematiche, e le giovani mamme si affidavano spesso agli esperti consigli della maestra. All’inizio, la maestrina che veniva, timida e sola, da un lontano paese fuori provincia, non aveva riscosso molta fiducia, ma anno dopo anno anche gli alunni più renitenti e refrattari si appassionavano, a seconda delle loro inclinazioni, al conteggio di numeri o alla lettura, al bello dell’arte o alla storia. Tutti in paese, compresi i genitori degli allievi, si erano convinti che era in atto un cambiamento epocale e, come continuamente pontificava la signorina Antoinette, l’ignoranza non poteva essere il freno che rendeva le persone schiave e non partecipi ai mutamenti che in quel periodo stavano evolvendo a grande velocità. Di questo argomento, nelle giornate fredde dei lunghi inverni della vasta pianura lungo il grande fiume, parlava al pomeriggio del the delle cinque, con le signore. Appartati nello studio gli uomini più in vista del paese, fumando e chiacchierando, spesso si soffermavano per ascoltare il disquisire della signorina maestra e fra di loro ne discutevano animatamente, contestandone od alternativamente approvandone le affermazioni.

    I salotti dove frequentemente si riunivano, erano quelli dei personaggi colti e facoltosi del paese, e le fazioni di pensiero, pro o contro, poi riflettevano gli interessi dei proprietari terrieri del circondario o posizioni moderate ed acculturate di medico e farmacista, mentre il prelato e molto concretamente il comandante della guardia nazionale, cercavano una ragionevole mediazione fra la misericordia cristiana ed il legalismo istituzionale.

    Di questo suo disquisire rendeva partecipi anche gli adulti che seguivano le lezioni serali e con loro si intratteneva spesso a raccontare specialmente di storia, che riteneva maestra di vita ed importante per riconoscere le proprie radici.

    Sottolineando l’importanza del passato, li intratteneva nel racconto delle gesta Rossiane, indiscussi signori dell’importante castello che dominava il paese. A tale proposito, gli anziani di paese, con il ricordo ancora vivo, le narravano di una leggenda che faceva del vecchio maniero il custode di un cospicuo tesoro in oro.

    Mentre rileggeva la lettera la signora maestra, ricordava visivamente, la sua vita passata e la congiungeva con quella trascorsa nel paese in cui ormai da anni viveva ed era stata adottata. Senza volerlo tracciava un bilancio degli anni trascorsi e rileggendo alcuni passaggi del manoscritto non riusciva a controllare piccoli sospiri di nostalgia. La signorina Chevaux de la Roche era nata nella città di Modena, di famiglia medio borghese con attività commerciali in via S.Trinità. Grazie alle possibilità economiche, la famiglia aveva permesso all’unica figlia di intraprendere un percorso di studi, cosa molto inconsueta in quel periodo, quando alle femmine non era concessa una emancipazione di nessun tipo. Il cognome poi, la diceva lunga di una contaminazione middle Europea, se pure persa nel tempo, ma ancora pregna di valori sui diritti e doveri famigliari e personali. Il non più giovane padre Jean Philippe Chevaux de la Roche di origini francesi era di vedute molto liberali e per il grande amore che provava per la figlia, le aveva concesso di frequentare un corso per l’insegnamento presso il convento di Santa Maria Consolatrice. La madre Maria, di famiglia di commercianti, in occasione di un viaggio in Francia nella capitale Parigi aveva conosciuto monsieur Jean e subito innamoratisi n’è divenne la moglie, e per il grande amore che provava per il suo uomo, in ogni situazione ne approvava e appoggiava le scelte.

    La giovane Antoinette, in seguito, si era profondamente impegnata nell’insegnamento ai piccoli frequentatori delle scuole elementari figli di facoltosi della città. Fin dagli inizi del suo percorso di insegnante si era resa conto che, fra la popolazione meno abbiente era persistente l’ignoranza, perciò si prese l’impegno, e mantenerlo nel tempo, di fornire loro un minimo di cultura. Grazie alla sua passione per gli avvenimenti storici riusciva a catturare l’attenzione degli allievi. Raggiunta maturità e competenza nell’educare le giovani generazioni al suo venticinquesimo compleanno aveva espresso il desiderio di poter esercitare questa sua passione anche fuori dalle protettive mura del convento e della famiglia. Con grande dolore il padre Jean e la madre Maria, avevano accettato questa sua missione educativa presso un minuscolo paese, sperso nella pianura, fra le fredde nebbie del Po. All’alba di una umida mattina di fine agosto del 1859, raccolto il necessario in una capiente borsa di vecchia pelle raggrinzita, dono e ricordo della anziana nonna intraprese il suo primo viaggio lontana dalla famiglia. Il vetturino ricevuto un congruo compenso, aveva caricato con attenzione il bagaglio e promesso di prendersi cura della ragazza lungo il viaggio. Durante il percorso, sfidando una sottile polvere ed un intenso odore di campagna, lei si sporgeva curiosa dal finestrino, ed ai suoi occhi appariva la vastità della pianura padana con casolari e grandi cortili. Uomini con carri trainati da buoi concimavano i terreni ricoperti ancora da stoppie, dalle stalle più vicine alla strada si poteva sentire un coro di muggiti e vedere le anziane contadine, con il fazzoletto in testa, nei cortili a seminare mangime per grassocce galline. Tutto scolorito da un persistente velo di umidità che rendeva le tinte sfumate come acquerelli male assorbiti da vecchie tele.

    Dopo circa quattro ore di viaggio, su una via Emilia ciottolosa e sconnessa, attraversato il greto sassoso del fiume Enza, asciutto per la stagione siccitosa, il vetturino decideva di fermarsi. Un pranzo a base di formaggio ed alcune fette di salame con un leggero lambrusco, annaffiato da un goccio di acqua per la signorina de la Roche fu la loro breve sosta. Il cavallo sapientemente condotto, lento ma con passo sicuro, si era riavviato; la strada ancora lunga, prevedeva l’attraversamento della Parma, e poi verso il Po lungo un ampia pianura, dove i contadini già avanti con i lavori stagionali stavano arando il fertile terreno con lente e possenti coppie di buoi. Ai suoi occhi si snodavano filari di viti alternati da verdissimi gelsi che delimitavano fossi per l’irrigazione e poderi. I colori accesi di un caldo e umido pomeriggio di agosto erano velati da una sottile impalpabile polvere, che nei giorni di pioggia autunnale si sarebbe trasformata in un pesante e viscido fango. La vista del fiume Taro ed

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