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Mèta a metà
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E-book296 pagine3 ore

Mèta a metà

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Info su questo ebook

Le storie di Rachele, Margot e Carmen si snodano attraverso le pagine seguendo tre fili ben distinti, ma destinati, forse, ad incontrarsi. Ciascuna a suo modo sta intraprendendo la propria personale sfida con la vita; ciascuna, per vincere questa sfida, userà le armi che le sono più congeniali. Rachele parte per un viaggio a piedi, con l’intento di scrivere un romanzo nel quale possa essere racchiuso il senso della vita. Margot, appese al chiodo le scarpette da punta, è alla continua ricerca di occhi nei quali specchiarsi per ritrovare il senso di sé e di braccia alle quali abbandonarsi come in un porto sicuro. Carmen, figlia del mare, vive su un’isola utopica, respira al ritmo delle onde e canta facendo vibrare le corde del cuore. Parola, linguaggio del corpo e musica saranno gli strumenti decisivi per raggiungere una meta comune e trovare una sintesi capace di risolvere, o quanto meno di accettare, le molteplici contraddizioni insite nell’esistenza… Con un linguaggio denso e preciso, che quando diventa gioco di parole non è mai fine a se stesso, l’autrice disegna una rete di collegamenti più e meno espliciti ad un universo letterario vasto ed eterogeneo, che spazia dalla mitologia classica agli autori contemporanei, abbracciando suggestioni musicali e artistiche tout court. Mèta a metà si rivela al lettore come un metaromanzo di formazione che non ha mai fine, perché ogni punto fermo può diventare fortunatamente un punto mobile per la penna di chi scrive.

Caterina Pilon è nata a Verona nel 1986, cresciuta in diverse terre e lingue. Una vita composta di scenari e mestieri diversi. Laureata in Lingue e Storia dell’Arte, dottoressa in Glottodidattica, accompagnatrice turistica di viaggi in bicicletta, insegnante di Italiano per stranieri, di Francese per italiani. Andate e ritorni sino a trovare il punto in movimento dal quale continuamente ripartire: il gioco, il rito, il teatro. Nell’arte scoprì che poteva cambiare pelle con un solo gesto e allora si disse: Qui io resto. Nel 2021 la versione inedita è un esordio editoriale di un romanzo-poetico scritto ad una frontiera in riva al mare, cantando nei ristoranti per guadagnarsi il pane. Era il 2015, la prima Metà era compiuta ma dovevano trascorrere altri 6 anni per raggiungere la vera e propria Mèta.
LinguaItaliano
Data di uscita30 lug 2021
ISBN9788830644366
Mèta a metà

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    Mèta a metà - Caterina Pilon

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    Caterina Pilon

    Mèta a metà

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-4056-6

    I edizione giugno 2021

    Finito di stampare nel mese di giugno 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Mèta a metà

    In copertina: Sirena di Mariella Scandola

    Immagini interne di Manikongo Art

    A Lara, la lettrice in riva al mare.

    A Clio, l’uditrice ad alta voce.

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Premessa

    Ogni storia ha una Maiuscola per iniziare e un punto per finire.

    Punto e a capo se poi si vuol ripartire. Ogni volta è quella volta ma non si sa bene quale.

    Quella volta, come tutte le volte, iniziava con "C’era una volta" ma, per continuare passava dal tempo del racconto a quello del raccontare.

    Al presente, siamo nell’attimo in cui chi scrive si rivolge al lettore e scusate l’intrusione ma in queste pagine capita spesso di confondere realtà e finzione quindi aggrappatevi ai tempi, per convenzione, e non dimenticate che in letteratura è lecito barare.

    Chi lo dice sa di essere soltanto uno scrittore che, per gioco e per piacere, si mette a raccontare di ciò che, a immaginarlo, sembrerebbe assai reale. E quel che è verità parrebbe una finzione ma rientra nella storia facendo confusione.

    Così, questa volta, la storia è cominciata e, in fin dei conti, non è mai finita; il circuito è un anello dove al principio vi è pure il finale; un circolo virtuoso dove si parte per poi ritornare; un’isola di terra dove al tramonto succede il risorgere del sole; insomma, e in poche parole, una storia straordinariamente comune.

    PARTE I

    Rachele

    I. Meglio tardi che mai

    "Meglio tardi che mai c’era scritto, su un pezzetto di carta piccolo come il pensiero che conteneva ma di grande valore, il valore di un caro ricordo". Il tratto tremulo, il tempo di farlo, la scadenza dell’età.

    La signora Nobis lo aveva accuratamente piegato e riposto in una borsina cucita a mano color arancio, insieme all’anello. Le tende erano chiuse, fuori c’era un giorno grigio; Jola si avvinghiava agli ultimi bagliori di lucidità che l’effetto delle medicine le concedeva, maledicendo il suo stato. Novant’anni alle spalle, due guerre, un marito ebreo fuggito, un anno a cercarlo, un patrimonio accuratamente spolverato e disposto nel suo appartamento.

    La cameriera fu pregata di lasciarci sole con un cenno della mano; quindi il capo della signora Nobis sbucò, come una tartaruga, dai diversi strati di lana. «La vecchiaia rende più fredda la vita» diceva mentre accusava il destino per averci resi mortali, mediocri e comuni di fronte ai misteri. I denari e gli oggetti preziosi non le erano di nessun aiuto ora che non le rimanevano nemmeno i ricordi. Le medicine cancellavano i dettagli, confondevano gli eventi e le provocavano allucinazioni.

    «Questa notte pioveva prezzemolo nella mia stanza, ti rendi conto? Sto andando completamente fuori di testa

    Evitai di sorridere al suo ostinato umorismo e rimasi in silenzio attendendo il momento in cui mi avrebbe comunicato il motivo dell’invito per quel primo pomeriggio.

    Sul vassoio accanto alla poltrona vi erano le sue pastiglie, un bicchiere d’acqua e un fazzoletto di stoffa. Jola infilò le dita sotto al fazzoletto decorato con le sue nobili iniziali e ne estrasse la borsetta arancione, quindi mi prese le mani riponendovi quel piccolo tesoro. L’anello apparteneva ad una grande scrittrice, "la marchesa Saporiti", zia di suo marito. Offrendomelo mi incitava, non solo a scrivere, ma anche a rendere pubbliche le mie parole; la marchesa non era mai riuscita a farlo. Celata ad una società che non ammetteva l’intelligenza femminile, la zia scriveva sotto falso nome; dei tradimenti del marito e dell’infelicità di un’esistenza trascorsa a sopportare le scelte obbligate dal titolo nobiliare. La marchesa Saporiti si rifugiava nella sola via d’uscita che possedeva: scrivere.

    «Scrivere era il suo salvagente, capisci? Ma non è mai riuscita a trovare un finale. La spaventava l’eventualità di rimanere senz’altro da aggiungere; così cominciava sempre da una pagina bianca senza concludere il lavoro precedente, come un viaggiatore che non vuole raggiungere la destinazione e che scende prima di arrivare al capolinea, solo per il gusto di ripartire.»

    Una storia affascinante di cui non potevo comprovare la fonte perché a Jola capitava spesso di mescolare il passato con la trama di un romanzo avvincente. Eppure in quella storia qualcosa mi richiamava l’attenzione, a cominciare dal fatto che la signora Nobis, nobile d’origine ma intellettuale di sinistra per passione, aveva finanziato e contribuito attivamente alla nascita di una piccola casa editrice, ospitandone la sede in uno degli edifici della sua dependance.

    «Si ricorda come si firmava la marchesa?»

    La signora Nobis mi guardò cercando di mettere a fuoco la situazione, ricordare l’affaticava al punto da farle dimenticare persino il suo nome.

    «Signora Jola?»

    «Sì cara

    «Si ricorda lo pseudonimo della zia di suo marito, la marchesa Saporiti

    «La marchesa?»

    «Sì, la scrittrice

    Un lungo silenzio, il desiderio di conoscere la risposta, il disorientamento di quel volto che aveva perso ogni punto di riferimento.

    «Ora sono stanca, chiama la cameriera per favore

    Ringraziai di cuore la signora e chiusi la porta di casa alle mie spalle con la borsetta arancione tra le dita e la storia che vi si celava dentro ancora chiusa. Attesi di raggiungere la mia stanza mansardata, prima di aprirla e di trovarmi seduta alla scrivania per ritornare a me stessa.

    «Meglio tardi che mai signora Nobis.» Infilai l’anello al dito e cominciai a scrivere.

    II. La Prova di italiano

    Suor Carmela mi guardava dall’alto della sua posizione, in piedi dietro alla cattedra sbiadita leggermente rialzata rispetto ai banchi, con la severità di chi sta sull’altare. Bastava quello sguardo ad esprimere il principio di rimprovero che mi stava rivolgendo in silenzio. Una delle due ore a disposizione per lo svolgimento del saggio era già trascorsa e il mio foglio protocollo accuratamente piegato in due era ancora vuoto. Una sorta di premura le impediva di intervenire manifestando il suo disappunto; non era tanto la preoccupazione che consegnassi la prova in bianco a disturbarla, quanto la certezza che non avrei mai fatto in tempo a riportare il contenuto in bella copia curando minuziosamente ogni gambetta delle A, ogni pancetta delle B, ogni ricciolino delle C ed ogni puntino sulle I. La mia professoressa di italiano era ossessionata dalla calligrafia e particolarmente esigente con l’alunna prediletta dalla sua stima. Riesco ancora a sentire il calore della sua presenza, dietro alla schiena mentre osservava la mia dedizione nel riprodurre l’eleganza del corsivo, raccomandandomi di mirare sempre alla perfezione. Ricordo anche la gioia che provavo nel renderla felice con così poco, semplicemente facendo qualcosa che mi risultava naturalmente piacevole: scrivere. Tenere la penna nella corretta posizione, appoggiandola dolcemente sul dito medio e contenendola nel piccolo spazio adibito per essa tra il pollice e l’indice, per controllarne la direzione. Osservare il movimento della sfera che comincia a tracciare il disegno di un pensiero dipinto di blu, perdendosi tra le linee sinuose dell’italico e la grazia di un’opera puramente estetica, al di là del contenuto: la scrittura.

    Suor Carmela non tollerava che una penna prolifica e una mano artistica come le mie si presentassero al suo cospetto sotto le sembianze di uno straccio pieno di cancellature e di brutte pieghe, cosicché ad insaputa dei miei paritari compagni, era solita concedermi un’ora supplementare per ricopiare.

    «È l’ultima volta» diceva con una severità tradita dalla soddisfazione per il manoscritto splendidamente riuscito e senza macchie. «Devi imparare a rispettare le consegne come fanno tutti gli altri; sarebbe davvero un peccato sprecare un simile talento. Basta fare un piccolo sforzo per cambiare le cattive abitudini, Rachele, e sono certa che tu desideri farlo.»

    Per Suor Carmela era una questione di abitudine, per me invece si trattava di un problema molto più serio che aveva a che fare con l’ispirazione. Ma come spiegarlo a lei che l’ispirazione l’aveva sentita e subito riconosciuta nella chiamata divina? Come dirle che le idee non mi erano arrivate nel sonno e che nemmeno al mattino avevo sentito la voce? Come giustificare il fatto che non bastavano le preghiere e nemmeno le buone intenzioni per scrivere? Ci voleva qualche cosa d’altro, qualcosa di cui non conoscevo il nome.

    Mi piaceva comporre con le parole, quando il pensiero salpava e scorreva sul letto del fiume, quando il flusso non si interrompeva e il tema fluiva, ma la difficoltà si presentava sempre al momento di partire. Se si trattava di un compito per casa non era poi così grave, bastava accettare il compromesso di perdere un’intera giornata a rincorrere l’idea sino a che avveniva il magico incontro e lo sguardo si posava sul foglio, immergendovisi sino all’ultimo punto. Il compito in classe era invece una vera e propria esperienza dolorosa che comportava la notte precedente in bianco, nel tentativo di influire positivamente sulla mente tramite l’auto-convinzione – Arriverà abbi fede –.

    Ad occhi chiusi sotto le coperte e il lucernario, visualizzavo la consegna del foglio, la lettura del titolo e la lampadina dell’idea che si accendeva. Il mattino invece mi trovavo con il consueto vuoto dentro, di fronte alla pagina bianca a vivisezionare lo spazio intorno al titolo. Doveva trattarsi di una sorta di riflesso psicologico dovuto alla scadenza, a quelle due ore di tempo concesso e prestabilito come limite per darsi appuntamento con l’idea e sperare che fosse puntuale. Avevo provato a spiegare a Suor Carmela l’innocenza della mia cattiva abitudine perché, in fondo, le volevo bene e mi dispiaceva vederla peccare di favoritismo in mio onore, ma non ero in grado di trovare le parole esatte per esprimere ciò che sentivo. Proprio come quel mattino, con l’orologio accanto al crocifisso che scandiva ogni minuto trascorso a partire dallo 0.

    Il titolo mi aveva completamente spiazzata, l’avevo letto e riletto più volte senza scovarne un via d’uscita. Breve e sintetico, concentrato come uno slogan pubblicitario: IL SENSO DELLA VITA.

    Ma come le era venuto in mente di sottoporci a tale quesito esistenziale? Cosa potevo saperne io che appena cominciavo ad utilizzare tale pronome personale? E poi in che modo mi era concesso rispondere considerando che il lettore era una donna sposata con il Signore che ogni giorno mi parlava della Vocazione?

    Ero sicura del fatto che la maggior parte dei miei compagni si stava togliendo la responsabilità di pensare, giustificando la questione in modo logico e consequenziale: ossia che nella vita ha senso avere un obiettivo da raggiungere (politicamente corretto, se possibile), una famiglia (perfetta come quella delle merendine), un Dio da pregare (magari della Juve) e qualche sacrificio da compiere per solidarietà con chi muore di fame. In sintesi, mandare giù la minestra cattiva e dire che in fondo non era poi così malvagia. Amen.

    E invece no, quella zuppa non mi andava proprio giù. Avevo provato ad accontentarmi di una risposta che compiacesse la maestra ma non aveva funzionato. Il titolo mi impediva di restare indifferente o di dare un’opinione giocata sulle parole come, ad esempio, "La vita ha il senso che uno le dà oppure La vita non ha senso, è vita e basta o ancora La vita è il senso della vita". Insomma l’argomento era piuttosto complesso, si trattava della vita, della vita stessa, al di là della mia.

    Estrassi anche la carta della fatidica scaletta, cara alla professoressa, per ordinare le idee secondo i canoni di - inizio - svolgimento - fine - ma non c’era stato verso di venirne a capo. La linea retta fatta di passato, presente e futuro non riusciva a convincermi.

    Un’ora dopo il foglio bianco era un quadro astratto di disegni, scarabocchi, frecce, quadratini colorati e soprattutto cerchi che incorniciavano una o più parole isolate dallo sfondo. Posai di nuovo la penna sul pezzo di carta sperando di sbloccare quel traffico mentale; la sfera segnò il punto di inizio attorno al quale cominciai a girare, allontanandomi progressivamente dal centro per poi ritornarvi e ripartire. Una spirale che diveniva un cerchio, tanti cerchi sovrapposti attorno a quel punto che finì per dissolversi nell’insieme. L’occhio si perse nel vorticare delle linee e la visione andò al di là di quel foglio trovando la soluzione. Alzai la testa di scatto, guardai l’orologio e salutai il crocefisso. Avevo trovato! Facile come bere un bicchiere: la parte per il tutto! Un movimento circolare senza avanti o dopo Cristo! Il tempo del mito, della metafora, del simbolo come linguaggio universale per dare un senso a quello che nessuno può sapere. Allo scadere del cronometro martellante che stabiliva i confini dell’immaginazione, decisi di prendermi la libertà di non rispettare la consegna e di uscire dalle righe. Ingoiai il senso di colpa sperando di non fare indigestione di coscienza e infilai la mia brutta copia in cartella senza essere vista, quindi mi alzai e con un gesto rapido lasciai il foglio di bella sulla cattedra, assicurandomi che si mescolasse al subbuglio di mani incrociate che cercavano la mèta.

    Cosa avrei dato per vedere la faccia di Suor Carmela al momento della correzione. Doveva essersi fatta un bel segno della croce, di fronte alla mia candida copia! Una sola linea blu orizzontale attraversava le due facciate interne. La calligrafia era minuscola e pareggiata in altezza per confondere l’osservatore superficiale che, a prima vista, vedeva una semplice retta tracciata con la riga. Suor Carmela aveva invece una lente da detective per questo tipo di cose e un paio di occhiali stile lenti a fondo di bottiglia che le consentivano di decifrare le miniature dei libri delle ore. Per questo non si era sorpresa di trovare le mie parole nascoste in quella sorta di messaggio in codice; il classico indizio di chi aveva delle cose da dire e paura di esprimerle, come coloro che si firmano sotto falso nome.

    La vita è una pagina bianca; macchiata dal senso che l’uomo, in nome di dio, del denaro o di un grande ideale, pretende costantemente di poterle assegnare.

    Andai quindi a rifugiarmi nel silenzio del parco che costeggiava le mura di difesa dai barbari stranieri; mi appoggiai al tronco di un ulivo di fronte al sole e tirai fuori dalla cartella di pelle nera il foglio di brutta copia di cui avevo privato la professoressa. In alto il titolo: IL SENSO DELLA VITA, in basso i cerchi e le spirali dei miei pensieri e all’interno lo spazio bianco per riflettere sulle parole da usare. Non avevo finito, mi serviva più tempo, quello era solo l’inizio ma almeno avevo trovato il punto dal quale far partire il mio viaggio nel romanzo di formazione.

    III. La casa dei libri

    La porta della libreria si aprì facendo tintinnare le campanelle appese all’entrata; Adelfo era in piedi sulla scala a pioli di legno con in mano un pacco di libri da sistemare. Fare ordine lo metteva in uno stato quasi meditativo dal quale usciva come dal sonno. Si voltò di scatto, distolto da chissà quale pensiero recondito, come colto di sorpresa. Uno alla volta i libri caddero nel vuoto andando a sbattere rumorosamente sul pavimento. Adelfo rimase qualche secondo a guardare le mani vuote, come a chiedersi una spiegazione.

    «Guarda un po’ cosa ti combinano se li metti nel posto sbagliato» disse scendendo con cautela dall’alto delle sue metafisiche riflessioni.

    «Mi dispiace averla disturbata, posso tornare più tardi se preferisce

    «Oh non ti preoccupare Rachele, tempo per sistemare ne avrò sempre a sufficienza; piuttosto dimmi che cosa sei venuta a cercare?»

    «In verità non lo so. In pratica signor Adelfo, me ne vado… Parto… Sì, ho deciso. Lascio il liceo per un po’… E, nel frattempo viaggio e scrivo».

    «Allora ti serviranno delle buone metafore. Hai un’idea della rotta che vuoi prendere?»

    «Non direi, al momento non ho una vera e propria destinazione; mi metto semplicemente in cammino per incontrare e ascoltare storie diverse dalla versione che mi hanno dato da leggere. E poi sono stanca

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