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Bacio immortale
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E-book394 pagine5 ore

Bacio immortale

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Info su questo ebook

Penny si trascina indifferente in un’esistenza che non pensa di meritare, gravata da una colpa terribile e determinata a sopprimere ogni scintilla che renda la sua vita degna di essere vissuta, in attesa di una fine quasi agognata.
Negli spiriti di Valo e Atena, la fiamma della vita rischia di spegnersi. I due antichi dèi greci vagano per il mondo da tempo immemore, privando dell’energia chiunque toccano, rassegnati a un destino da assassini; il loro cammino li sta lentamente, ma inesorabilmente, guidando verso l’oblio. Il fato però li conduce fino a una giovane umana ferita nell’animo, la chiave segreta di un mistero perduto.
Oltre lo scintillante sguardo di smeraldo di Valo, che un tempo era il dio Apollo, Penny trova un amore travolgente, un sentimento all’apparenza impossibile che sovverte tutte le leggi degli immortali e riaccende la speranza nei loro spiriti.
Ma un essere millenario, terribile e potentissimo, si è risvegliato su un’isola remota: la sua è una fiamma che potrebbe brillare per poco e poi spegnersi, oppure incendiarsi e divampare fino a inghiottire l’umanità intera. L’incontro di due mondi, di tre anime antiche e provate, potrebbe rappresentare l’unica salvezza.
Un soffio di vita o di morte. Il tocco delle labbra di un amante o di un assassino. Un bacio immortale in grado di cambiare il mondo.

Seconda edizione riveduta e corretta con l’aggiunta di nuovi contenuti e del racconto inedito “Profetesse di sventura”.
LinguaItaliano
Data di uscita22 feb 2020
ISBN9788893126557
Bacio immortale

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    Anteprima del libro

    Bacio immortale - Aurora R. Corsini

    1

    La strada procedeva in lieve discesa fino a un piccolo piazzale circolare con al centro un pozzo. Dalla voragine scura, più scura della notte senza luna, saliva l’odore marcio dell’acqua stagnante misto alla polvere delle ormai sgretolate pietre secolari, che vi cadevano dentro a tratti con tonfi e schizzi.

    Il tanfo raggiunse le narici frementi di un’ombra alla ricerca di notizie. Abbandonò la piazza, disgustata da quel sentore di povertà e miseria. Procedeva lentamente, schivando i rigagnoli delle fogne che scorrevano al centro dei vicoli fangosi.

    Di tanto in tanto allungava una mano, sfiorando con le dita l’intonaco grigio e scrostato che ricopriva i muri delle abitazioni. Dopo si annusava a lungo i polpastrelli, tenendo gli occhi chiusi, accarezzandosi il viso con la polvere che vi si depositava. Respirava attraverso le innumerevoli tracce vitali che avvertiva, assaporando la ricchezza invisibile di quel luogo.

    Aprendo gli occhi, la visione cambiava totalmente: i percorsi tortuosi erano delimitati da casupole cadenti, muri diroccati e cumuli di rocce informi. Non c’era nulla che sembrasse vivo, ovunque si susseguivano baracche a un piano, sporche e maleodoranti. Le costruzioni erano circondate da una distesa grigia e spoglia, dove da decenni non cresceva niente di verde e rigoglioso. Tutto testimoniava la mancanza d’acqua, come se in quel luogo non fosse mai esistita una sorgente o un rivolo di pioggia non ne avesse mai bagnato il terreno.

    Eppure non era così, c’era stato un tempo in cui sterminate foreste popolate di bestie feroci avevano ricoperto la regione fino a dove l’occhio poteva arrivare, e anche oltre. Un potente e vasto impero aveva governato all’epoca quelle terre, abitate da un popolo numeroso e fiero.

    «Non come adesso,» mormorò l’ombra tra sé, guardandosi attorno con l’animo gonfio di tristezza. A quelle persone non era rimasto nulla: cacciate e sottomesse da tutti, costrette a fuggire per sopravvivere, a combattere persino per abitare in quelle baracche fatiscenti. Gli uomini erano sempre stati pronti a uccidersi l’un l’altro per qualche manciata di sassi e sabbia, oppure per il predominio sui propri fratelli.

    «Sei ingiusta,» si disse scuotendo il capo. La guerra accompagnava dal principio l’umanità, incapace di accontentarsi del necessario e bramosa di possedere anche il superfluo. Lei stessa aveva contribuito a scatenarne una devastante, moltissimo tempo prima, quando il mondo era stato giovane e gli uomini ingenui. Sulla piana di fronte alla città di Ilio, intere armate si erano gettate nella battaglia invocando il suo nome, desiderose di morire per soddisfare i folli desideri dei loro condottieri.

    Le sembrava di sentire ancora quelle innumerevoli voci, perse nel clamore della mischia, tra sangue e sudore, che gridavano: «Atena! Atena!»

    Girò d’istinto la testa verso quelle urla, lontane centinaia di chilometri e migliaia di anni, perse per sempre nella follia che era stata la guerra di Troia.

    «Troia,» sussurrò.

    Così gli uomini chiamavano l’antica Ilio, le cui mura possenti non gettavano più alcuna ombra sulla pianura. Era tornata spesso in quel luogo infausto, ma la vista dei resti portati alla luce dagli archeologi le provocava troppo dolore. Quasi quanto la consapevolezza che niente era più come un tempo, sebbene il ricordo si adagiasse leggero su ciò che i suoi occhi vedevano.

    Persa nei meandri della memoria, Atena giunse al limite del cono di luce proiettato da un lampione fioco, che ondeggiava appeso a un cavo teso tra due cornicioni cadenti. Girò la testa per guardarsi intorno, controllando che non ci fosse nessuno oltre a lei a vagare in quel dedalo di strade. Infine, avanzò di un passo e lasciò che quel debole chiarore l’illuminasse, mostrando agli occhi ciechi della notte tutta la sua inumanità.

    Con le palpebre abbassate a nascondere la vista della realtà fisica, alzò il volto verso il cielo e spalancò le braccia, tendendo le mani per tastare l’aria intorno a sé. Dondolò il corpo slanciato, lasciando che una brezza leggera le scompigliasse i capelli e il lungo vestito. Inspirò quell’aria fresca, portatrice di sensazioni che solamente i suoi sensi particolari riuscivano a cogliere. Percepiva scorrere tra le dita correnti di energia calde e vive, alcune più forti di altre, che fremevano sotto il suo tocco e la attiravano in molteplici direzioni contemporaneamente.

    Permise alle onde di calore di sfiorarla e rimase ferma sotto il lampione. Le assaporò senza farsi travolgere dalla loro intensità, rifiutandosi di seguirle verso potenziali prede per il suo crescente appetito. Percepì la presenza di molte vite, chiuse in quelle case pericolanti, intrappolate tra quelle vie all’apparenza deserte. Pensò che, in quella notte di caccia e silenzio, l’istinto di sopravvivenza tenesse le persone lontane dal suo percorso e dalle sue mani bramose. Oppure era soltanto sfortunata.

    Una vampata di calore più intensa le accarezzò lo spirito e la spinse ad aprire gli occhi, guizzi di azzurro nelle ombre. Ruotò su se stessa e imboccò decisa il vicolo alla sua sinistra. Camminava più spedita ora, seguendo senza ulteriori indugi la traccia che sentiva vibrare tra le dita e lungo le braccia, dritta fino al centro del petto, dove palpitava affrettandole il respiro.

    Giunse infine a una casa priva di finestre, per nulla dissimile dalle altre che la circondavano, grigia e mezza diroccata. Si fermò davanti alla porta chiusa e sospirò, poi la spalancò con un gesto rapido e deciso. Varcò la soglia e si fermò dopo solo un passo, lasciandosi avvolgere dall’oscurità all’interno.

    Il buio era totale, ma non rappresentava un ostacolo per i suoi occhi. Era entrata in una stanza angusta, con un focolare spento sulla destra e un basso tavolo al centro. Sul fondo, sopra un piccolo letto spoglio, giaceva una donna, abbandonata in una posa scomposta: una delle gambe pendeva inerte oltre il bordo del materasso e la sua testa era reclinata verso il muro.

    Accanto al corpo c’era l’obiettivo della sua lunga ricerca. Seduto con la schiena addossata alla parete spoglia e lo sguardo rivolto al soffitto, suo fratello canticchiava tra sé dondolando il capo, con un braccio appoggiato mollemente su un ginocchio sollevato.

    «I tuoi gusti non cambiano mai.» Atena lo osservò con una smorfia di disapprovazione.

    Lui scoppiò in una breve risata, poi si raddrizzò lentamente e spalancò gli occhi. Si aprirono due pozze di pura luce e splendore, senza sclera né pupilla, solamente palpitante verde che scintillava nell’oscurità. «C’è bellezza ovunque,» sussurrò muovendo appena le labbra. «Se la sai cercare con pazienza.»

    Atena si avvicinò e girò il viso della donna, avvertendo gli ultimi frammenti di vita disgregarsi sotto la leggera pressione delle sue dita. La fissò per un lungo momento, valutandone la pelle morbida, la bocca carnosa e i tratti marcati. Come sempre, suo fratello sceglieva con attenzione le proprie vittime, avendo cura di saziare sia la fame interiore sia i forti appetiti sessuali che lo muovevano da millenni. «Probabilmente hai eliminato l’unica cosa bella in tutta questa desolazione.»

    In silenzio, lui si alzò e raccolse una maglia dal pavimento polveroso, scuotendola con vigore prima di infilarla. Si avviò verso la porta senza degnare di uno sguardo né il corpo esanime né la sorella, che lo fissava immobile dal centro della piccola stanza.

    Esitò incerto sulla soglia, voltandosi a guardarla in silenzio negli occhi, splendidi e luminosi come i suoi. La sua espressione mutò, abbandonando la studiata indifferenza di prima per diventare assorta. Ritrovò se stesso in quello sguardo serio, si specchiò nell’amore assoluto che lei nutriva nei suoi confronti e le sorrise, ricambiandola con il proprio slancio impetuoso e sincero. «Perché mi cercavi?» le chiese brusco, cancellando dal viso quell’istante di complicità.

    Atena lo seguì all’esterno e si chiuse la porta alle spalle, dimenticando il cadavere che avevano lasciato disteso sul letto. Era abituata a farlo, rassegnata alle attività venatorie del fratello. Chiuse gli occhi e prese un lungo respiro prima di parlare. «Tisifone è morta. È stata uccisa.»

    2

    «U ccisa?» Un sopracciglio biondo si sollevò di scatto. «Non dire sciocchezze. Non esiste nessuno in grado di eliminare quelli come noi.»

    «Sapevo che avresti reagito in questo modo.» Atena spazzò con un piede il suolo polveroso. «Devi credermi, Apollo, ho visto il suo corpo.»

    «Non chiamarmi così.» Arricciò il naso, irritato: non si indentificava da secoli con quel nome antico. «Apollo è il dio del sole e delle arti di cui narrano i miti, in me non c’è più nulla di lui.»

    «È il nome che ti ha dato tuo padre, gli devi maggiore rispetto.» La rabbia per quel suo comportamento che tanto detestava le fece quasi dimenticare il motivo che l’aveva spinta a cercarlo.

    «Non ricominciare.» Avevano già fatto quel discorso migliaia di volte. «Millenni di vita hanno creato me, non Apollo.» Tacque qualche istante, pensieroso, dopodiché proseguì: «Puoi chiamarmi Valo adesso, ha un bel suono.»

    Atena aggrottò la fronte, dubbiosa per l’ennesimo cambio di nome del fratello. Era certa che non sarebbe durato a lungo, come tutti quelli che aveva usato in precedenza. «Valo? Che nome sarebbe?»

    «Il mio nuovo nome, per ora. Quando me ne verrà in mente uno migliore, lo cambierò.»

    Le circondò le spalle con un braccio e la condusse lungo il vicolo, lontano dalla sua ultima vittima. Nel frattempo, una minuscola parte della sua mente pensava che, molto probabilmente, non sarebbe stata ritrovata tanto presto. Nella sua essenza dolce e gustosa aveva percepito una scarsità di rapporti umani insolita per una donna così giovane e attraente. La conosceva bene, avendole succhiato la vita. Letteralmente. Insieme all’energia, infatti, aveva assorbito anche la maggior parte delle emozioni sperimentate dall’umana nell’arco della sua esistenza.

    «Sorellina…» Valo scoppiò a ridere, non amando indugiare troppo a lungo sulle proprie vittime. «Non dirmi che questa è solo una scusa per avvicinarci al Mediterraneo per l’ennesima volta.»

    «Perché scherzi?» lo rimproverò Atena. «Il mare manca a entrambi, da troppo vaghiamo per queste terre assetate.» Suo fratello rideva sempre più forte, facendo risuonare la voce nella notte silenziosa. Lo zittì con uno sguardo ammonitore; le sembrava sacrilego disturbare la quiete, seppure solo apparente, di quel luogo. «E comunque non è una scusa. Ero con Ermes quando abbiamo trovato il cadavere di Tisifone, lui è rimasto là ad aspettare che ti trovassi e tornassimo insieme.»

    Con un sospiro esasperato, Valo la invitò a precederlo. «Va bene, portami a vedere il luogo del misfatto.»

    I due fratelli erano gli unici a camminare sotto la volta stellata, muovendosi veloci senza produrre alcun rumore. Oltrepassarono il confine del centro abitato, inoltrandosi nella distesa sassosa del deserto. Quando le case scomparvero alle loro spalle, si guardarono intorno un’ultima volta per accertarsi di non avere testimoni e iniziarono a correre, con falcate aggraziate sempre più ampie. In breve tempo le loro figure veloci divennero invisibili, mentre compivano balzi lunghi decine di metri.

    Sfrecciarono nella notte, percorrendo in un paio d’ore qualche centinaio di chilometri. Il paesaggio mutò sotto i loro piedi e la pianura lasciò gradualmente posto a dolci declivi coperti di alberi.

    «Siamo quasi arrivati.» Atena rallentò l’andatura, passandosi le dita tra i lunghi capelli, scompigliati dalla corsa.

    «Cosa ti ha spinta fino a qui?» Valo si guardò intorno, studiando la foresta intricata che li circondava. «Oggi pomeriggio, quando ti ho salutata, non avevi intenzione di muoverti.»

    «Ermes è tornato dalla sua battuta di caccia e mi ha proposto di fare una passeggiata,» gli rispose con un sorriso di scuse.

    «Una passeggiata?» esclamò lui. «È così che chiama attraversare quattro stati?»

    Atena inclinò la testa e sorrise ancora. «Non essere geloso, sono stata io a voler arrivare tanto lontano, perché…» Scrollò le spalle con un sospiro. «Non te lo so spiegare. Percepivo un richiamo, un filo di energia affidato al vento in cerca d’aiuto. Penso che fosse l’ultimo sospiro di Tisifone prima della fine.»

    Valo annuì senza contraddirla, si fidava delle sue sensazioni quasi più che delle proprie. «Molti dei nostri fratelli sono svaniti prima di lei, cosa ti fa credere che Tisifone sia stata attaccata da qualcosa?»

    «Non qualcosa, qualcuno. Attorno al suo involucro abbandonato ho sentito i residui di una presenza. Eccoci, è laggiù.» Atena indicò una costruzione soffocata da una muraglia di rampicanti, addossata a una parete rocciosa.

    «Apollo, Atena, finalmente.» La voce suadente di Ermes li chiamò dal folto della foresta che circondava la casa.

    Il profilo affilato di colui che era stato il dio di mercanti e ladri si stagliò nell’oscurità tra gli alberi, i capelli neri stretti in una coda sulla nuca e gli occhi grigio-azzurri ombreggiati da lunghe ciglia. Quando si fermarono di fronte alla porta spalancata, li affiancò con passi aggraziati.

    Atena gli lanciò un’occhiata e sbuffò. «Ha deciso che adesso vuole essere chiamato Valo.»

    «Valo.» Ermes alzò un angolo della bocca sottile in quello che per lui equivaleva a un sorriso. «Bello.»

    Aveva cessato da secoli di stupirsi per la natura volubile di Apollo, che si manifestava spesso con inezie come un temporaneo cambio di nome. Dopo il ritrovamento del cadavere di Tisifone, aveva atteso con pazienza che Atena andasse in cerca del fratello, consapevole di quanto lei dipendesse da lui a livello emotivo. Un particolare che non faceva ingelosire Ermes, superiore a tali debolezze umane, ma che suscitava la sua curiosità. Non comprendeva la loro relazione, il modo in cui la sorella si mostrasse volontariamente debole e bisognosa del supporto costante di… Valo.

    Ermes bastava a se stesso, invece, sin dalla prima volta che il suono del mondo aveva avvolto la sua forma corporea. La visione di un lampo di azzurro in due occhi sinceri gli apparve nella mente, accusandolo di mentire, ma la scacciò con un battito di ciglia.

    «Piace molto anche a me.» Il sorriso che sbocciò sulle labbra piene di Valo eclissò quello del fratello; nessuno poteva competere con lui in quello, nella loro famiglia d’immortali.

    «Se avete finito con i saluti, c’è il corpo di Tisifone che ci aspetta,» li rimproverò Atena.

    Oltrepassarono la porta di legno e si addentrarono nella stanza buia, i loro occhi non avevano bisogno di luci artificiali per distinguere il caos che li circondava. Una catasta di legna era sparpagliata per terra, accanto al camino spento, una poltrona giaceva rovesciata tra i resti di quello che sembrava un tavolo fracassato, la finestra sulla destra era sfondata e i vetri rotti riflettevano la tenue luce delle stelle, sparse nel cielo notturno.

    Al centro dell’ambiente, come un mucchietto scomposto di vestiti, giaceva il corpo ormai vuoto di quella che innumerevoli esseri umani avevano temuto con il nome di Tisifone l’erinni. Un groviglio di capelli bianchi incorniciava il volto aguzzo, deformato da una smorfia di sofferenza resa ancora più terribile dal vuoto che colmava le orbite, dove fino a poco tempo prima avevano fiammeggiato due occhi rossi.

    Valo si inginocchiò e le abbassò le palpebre con gentilezza. «Se n’è andata anche lei.»

    «Ma non senti?» Atena si strinse nelle braccia. «Non percepisci la rabbia e la paura che aleggiano qui dentro? Tisifone non se n’è andata, qualcuno ha lottato con lei e l’ha uccisa.»

    Suo fratello la assecondò, reclinò la testa e socchiuse gli occhi, assaporando l’atmosfera di quel luogo. Dopo qualche istante sospirò. «No, Atena, io non sento niente, solo la pace della notte.»

    «Non c’è pace qui.» Si voltò verso Ermes, che si era tenuto in disparte. «Spiegagli cosa abbiamo sentito quando l’abbiamo trovata, forse a te crederà.»

    «Atena ha ragione, fratello. Qualche ora fa l’aria era densa di terrore e acredine, come se Tisifone avesse cercato di opporsi strenuamente alla propria morte.»

    «Non credo che fosse tanto debole da svanire all’improvviso,» mormorò Atena, prossima a lacrime che non avrebbe mai versato, perché i loro corpi non erano in grado di piangere.

    «Come puoi sapere quanta energia le fosse rimasta?» Valo scattò in piedi. «Non la incontravamo da secoli, per quello che mi ricordo.»

    La sorella lo fissò rassegnata: se aveva deciso di assumere quell’atteggiamento stizzito, non ci sarebbe stato modo di convincerlo. «Trent’anni fa era a Creta e ci siamo parlate, una notte.»

    «E in base a una conversazione vecchia di decenni tu hai deciso che la sua energia vitale non fosse giunta alla fine? Che non abbia esaurito le sue ultime forze lanciando per la casa i mobili, forse per sfogare la rabbia? Tisifone è stata creata come divinità della maledizione, non si può certo affermare che fosse un essere equilibrato.» Le posò una mano sulla spalla e ammorbidì la voce. «So che stai soffrendo, conosco il tuo dolore, ma non lasciare che l’emozione offuschi il tuo giudizio. Se tu smetti di ragionare, che ne sarà di me? Sei la bussola su cui regolo il mio viaggio in questo mondo.»

    Come sempre, la dolcezza del fratello placò l’ansia di Atena, che gli si abbandonò tra le braccia e si lasciò cullare dal suo calore.

    Immobile al pari di una delle statue che rappresentavano la sua antica identità, Ermes li guardava confortarsi a vicenda. Nei periodi che trascorrevano insieme, imbattendosi di tanto in tanto gli uni nell’altro, gradiva molto la loro compagnia, memore del periodo dorato della loro passata divinità, eppure ancora non riusciva a comprendere cosa avesse spinto proprio quei due, tra tutti i suoi fratelli e sorelle, a scegliere di condividere l’eternità. La casta e razionale Atena insieme a quel donnaiolo impetuoso di Apollo.

    Il fatto che quel legame non comprendesse alcuna matrice di natura sessuale era la cosa che più lo stupiva, perché non era in grado di trovare una diversa spiegazione al loro rapporto. La gamma delle emozioni umane non apparteneva veramente agli immortali, almeno non secondo quanto sperimentato dallo stesso Ermes. Nella maggior parte dei casi erano gli istinti primari a prevalere in loro.

    Di nuovo, la parte meno razionale della mente lo accusò di mentire a se stesso, ma come sempre si rifiutò di crederle. Le prove delle sue convinzioni erano ovunque, disseminate nei millenni insieme alle innumerevoli vittime dei loro simili.

    «Cosa preferisci fare del suo corpo?» Il sussurro di Valo si perse nei capelli della sorella.

    «Bruciamo tutto, non voglio che un essere umano la trovi.»

    Lui annuì. «Come abbiamo fatto con quei due satiri?»

    «Quali satiri?» Ermes era curioso, raccogliere informazioni sui membri rimasti della loro famiglia era il compito che si era assegnato nei secoli. Come le utilizzasse, però, riguardava solamente lui.

    Atena si staccò dal fratello e si lisciò il vestito. «Un paio di mesi fa abbiamo trovato i resti di due satiri vicino al Nilo, sembrava che i loro spiriti fossero svaniti da poco.»

    «In Egitto?»

    «Sì, perché?»

    «In quello stesso periodo anche Anfitrite è morta, sulle coste del Mar Rosso.» Ermes chiuse gli occhi con un sospiro. «Le ho donato un funerale nelle acque marine, come avrebbe voluto.»

    «Anfitrite la nereide?» Il volto di Atena si scurì nuovamente. «Mi dispiace che se ne sia andata; l’avevamo incontrata, qualche volta, più che altro tra le isole della Grecia. Non mi sembrava che si stesse indebolendo, il suo legame con il mare la aiutava a resistere.»

    «Continuava a sperare che prima o poi Poseidone uscisse dal letargo e tornasse da lei.» Valo scosse la testa con un sospiro. «Quanta bellezza sprecata.»

    Atena gli allungò una gomitata nel fianco. «Dovresti vergognarti. Anfitrite è morta e tu rimpiangi di non essere riuscito a portartela a letto.»

    «Non l’avrebbe mai fatto, era fedele al suo sposo,» intervenne Ermes.

    La sorella lo fissò, incuriosita. «La vedevi spesso?»

    «Non più di voi, suppongo,» rispose lui. «Cosa volete usare per dar fuoco alla casa?» chiese poi guardandosi intorno, nella speranza di cambiare in fretta discorso. Il peso inerte del corpo di Anfitrite gli premeva ancora sul petto, come se non fosse passato nemmeno un giorno da quando l’aveva stretto a sé gemendo. Non voleva che i suoi fratelli sapessero fino a che punto fosse stato profondo il suo rapporto con lei.

    «Tre morti nella stessa zona e ora questo.» Atena fissò di nuovo il corpo ai suoi piedi. «I satiri erano due esseri deboli, probabilmente allo stremo delle forze; non ne sono rimaste molte di creature come loro, ormai. Anfitrite e Tisifone, però, non erano poi così diverse da noi, sebbene il loro potere non abbia mai eguagliato i nostri.»

    Valo smise di raccogliere i pezzi di legna e le si avvicinò. «A cosa stai pensando?» La concentrazione che emanava da lei frusciava nell’aria, profumandola di un sentimento prossimo alla paura.

    «Mi domando se non siano delle semplici coincidenze.» Alzò gli occhi con un lampo ceruleo. «Credo che qualcuno li abbia ammazzati.»

    «A quale scopo?» Un sospetto che aveva sfiorato anche Ermes, quando aveva trovato Anfitrite. Le notizie che venivano sussurrate dalle acque del Mediterraneo negli ultimi tempi erano fin troppo inquietanti, tuttavia non desiderava condividerle con i fratelli. Non ancora, almeno: prima voleva capire in che modo sfruttarle al meglio.

    Valo, invece, scoppiò a ridere. «Non essere paranoica, quale forza al mondo potrebbe mai farci del male? Non dico arrivare a ucciderci, ma persino danneggiare in qualche modo i nostri spiriti sarebbe impossibile per chiunque.»

    «Escluso uno di noi,» ribatté Atena.

    Due paia di occhi scintillanti la fissarono, ugualmente scettici. I fratelli non sembravano disposti a darle ragione.

    «Ha ragione lui, Atena. La nostra unica debolezza è insita nella nostra genesi.»

    «Volete dirmi che questa serie di morti ravvicinate non vi turba?» Spalancò le braccia. «Che volete restare da queste parti e aspettare di essere i prossimi?»

    «È ovvio che ce ne andremo non appena la casa smetterà di bruciare.» La voce di Valo si fece quasi stridula per l’esasperazione. «Mi darai il tormento finché non saremo arrivati al lato opposto del continente.»

    Con un urlo soffocato, lei si diresse a grandi passi verso la porta e uscì nella notte.

    Ermes trattenne una risata. «Sembrate una coppia di umani sposati.» Fulminato da uno sguardo smeraldino, si affrettò ad alzare le mani. «Scherzavo, non offenderti.»

    Valo riprese a circondare il corpo di Tisifone con la legna. «Ci seguirai?»

    «Preferisco di no, grazie.»

    «Come vuoi. Suppongo che noi andremo in Grecia. Ce ne staremo là buoni per un po’, finché Atena non si sarà calmata.» Lanciò un’occhiata verso la porta e scosse la testa. «Mi passeresti quella lampada?»

    Su un ripiano c’era un vecchio lume a petrolio, residuo di secoli passati e di abitudini differenti. Ermes glielo porse e si scostò, mentre Valo ne spargeva il contenuto sul corpo e in vari punti della stanza. Un fiammifero fu sufficiente a incendiare il tutto.

    I tre fratelli rimasero in piedi sotto un albero fino all’alba. Osservarono in silenzio il fuoco cancellare i resti di Tisifone e della sua casa, controllando che non si propagasse oltre i muri di pietra.

    «Bene.» Ermes gettò la testa all’indietro e inspirò il profumo del giorno imminente. «A questo punto io vi lascio, spero di rincontrarvi in circostanze migliori.»

    Atena gli posò una mano sulla spalla. «A presto.» Avrebbe preferito abbracciarlo, ma qualcosa nel suo atteggiamento le aveva sempre suggerito che quella forma di intimità non gli fosse gradita.

    «Buon viaggio.» Valo chinò la testa in un cenno di saluto.

    Con un ultimo mezzo sorriso, Ermes schizzò via tra gli alberi e scomparve in poco tempo, lasciandosi dietro una scia di placida energia studiata ad arte per ingannare i fratelli. Non voleva che capissero quanto la morte di Tisifone l’avesse turbato, perché avrebbe significato condividere conoscenze che, per il momento, riteneva fosse meglio conservare.

    Essere il detentore di innumerevoli segreti, del resto, era ciò che gli aveva permesso di superare i millenni.

    «Ha una casa in cui tornare,» mormorò Atena, fissando il punto oltre il quale era svanito. «Ti chiedi mai per quale motivo non ne parli?»

    Valo le lanciò un’occhiata e scrollò le spalle. «Nemmeno noi gli abbiamo mai rivelato dove si trova la nostra.» I misteri di Ermes non gli interessavano.

    «Ne possediamo parecchie, in quale dovremmo invitarlo?»

    «Sai benissimo a quale mi sto riferendo.» Le cinse le spalle con un braccio. «Ci spostiamo di continuo, ma c’è un’unica dimora che entrambi chiamiamo casa.»

    Aveva ragione, di tutti i posti in cui vivevano o avevano vissuto, ce n’era solamente uno in cui ritornavano regolarmente, però non era lì che Atena aveva intenzione di recarsi in quel momento. «Dove vuoi andare adesso?»

    «Seguirò te, come sempre,» sussurrò Valo, sapendo che sarebbe stata in grado di percepire le sue parole. Parlò in greco, come non faceva da lungo tempo. Era un loro antico vezzo esprimersi nella lingua del paese che li ospitava o, come presumeva in quel caso, li avrebbe accolti presto.

    Atena sorrise e si slanciò nel folto degli alberi, subito seguita dal fratello. Corsero via insieme, verso la loro meta lontana.

    3

    La luce filtrava dalle persiane chiuse: lame sottili che striavano l’armadio di fronte alla finestra e il lenzuolo gettato ai piedi del letto. Penny si allungò e se ne tirò un lembo sopra la testa, infastidita dal sole del nuovo giorno. Ogni cosa era quieta all’interno del bozzolo sicuro che l’avvolgeva. Nel silenzio non esisteva nessuno al mondo, nemmeno lei.

    Eppure sentiva gli arti sempre più intorpiditi per l’immobilità forzata, segno che il suo corpo esisteva ancora. Niente andava come avrebbe dovuto, come sempre. Si concesse di stiracchiare le gambe, poi si arrese alla necessità di muovere anche le braccia e riemerse sbadigliando dal proprio involucro protettivo.

    Contemplò la polvere che vorticava all’interno della striscia luminosa tracciata dai raggi del sole, davanti alla finestra socchiusa. Sembrava incredibile che quei granelli minuscoli fossero sempre lì, invisibili per la maggior parte del tempo al miope occhio umano.

    Lo specchio appeso alla parete di fronte al letto rifletteva la sua immagine e Penny distolse velocemente lo sguardo. Non voleva incrociare i propri occhi di ghiaccio, spenti e cerchiati da occhiaie profonde. E nemmeno contemplare il viso emaciato o il disastroso taglio di capelli, con pochi riccioli sparsi che spuntavano più lunghi e arruffati.

    Del resto, molto probabilmente su consiglio del medico, era proprio per quel motivo che suo padre aveva appeso lo specchio. Per metterle davanti la sua immagine devastata e costringerla ad affrontarla ogni giorno. Loro non potevano sapere cosa scatenava veramente in lei quell’oggetto, perché si rifiutava di parlare con uno psicologo da mesi.

    Osservava la lucida superficie di vetro e fantasticava di infrangerla con un pugno. Non per cancellare ciò che rifletteva, bensì per impugnare uno dei frammenti e incidersi la carne delle braccia, o del petto. Non aveva un progetto preciso. L’unico motivo che la frenava, ogni qualvolta era colta da quel genere di pensieri, era che sapeva quanto facessero male dei tagli profondi. Non aveva il coraggio di infliggersi un dolore simile, non dopo quello che aveva passato.

    Dei passi nel corridoio la misero in allerta, distogliendola dagli indefiniti progetti suicidi. Penny, pronta allo scontro, contrasse tutti i muscoli del corpo, si rannicchiò trattenendo il fiato e fissò la maniglia, certa che si sarebbe mossa di lì a poco. Il rumore cessò, la persona al di là della porta esitava, forse faticava a respirare normalmente quanto lei. Infine il ticchettio familiare riprese e si allontanò; Penny si rilassò, lieta che anche la madre temesse quell’incontro.

    Guardare le pareti spoglie della camera la calmò. Come sempre, quella piccola stanza bianca e anonima l’aiutò ad annullare ogni pensiero, dato che era l’unica a non scatenarle ricordi indesiderati. Attorno a lei c’era ben poco, oltre al letto incuneato tra l’armadio e la finestra, solamente pile disordinate di libri sparse un po’ ovunque.

    Penny lasciò che la mente vagasse libera. Un suono proveniente dall’esterno catturò la sua attenzione: da una radio stavano annunciando una canzone, un vecchio successo di musica leggera. Il volume era talmente alto da permetterle di distinguere ogni parola, nonostante sapesse che l’apparecchio fosse ad almeno una decina di metri.

    Strisciò fuori dal letto e si avvicinò alla finestra, aprendola a metà e sbirciando tra i listelli di legno delle persiane. Come sospettava, stava iniziando la guerra mattutina tra le donne che abitavano negli appartamenti di fronte al suo, nell’ala opposta del condominio, oltre il cortile interno. Due cognate che si odiavano da tutta una vita e che, rimaste vedove quasi in contemporanea, avevano finalmente trovato il modo di infastidirsi senza doversi nemmeno parlare. Una ascoltava la radio, l’altra accendeva la televisione. Dopo iniziava la gara a chi alzava di più il volume.

    Socchiuse le persiane e contemplò la scena ridacchiando: le due stavano vicine alle rispettive finestre, talmente concentrate da non badare nemmeno a cosa stessero trasmettendo i rispettivi apparecchi.

    Penny era convinta di essere l’unica persona a conoscenza della guerra che si consumava ogni mattina nel condominio. L’appartamento sotto il suo era vuoto e a destra la costruzione terminava, lasciando spazio a un alto cancello chiuso, oltre il quale le case si susseguivano in una confusione multicolore. A sinistra della sua finestra correva un balcone stretto, su cui si affacciavano le altre camere da

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