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Qualche volta non se ne vanno
Qualche volta non se ne vanno
Qualche volta non se ne vanno
E-book186 pagine2 ore

Qualche volta non se ne vanno

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Info su questo ebook

Luciana sta scrivendo questo libro, immersa nella quiete di un piccolo paesino siciliano, ma l'atmosfera da brivido che serpeggia, insieme all'usuale vena umoristica, negli episodi del suo romanzo, la investe anche nella realtà, facendole vivere un nuovo racconto. Chi ama le situazioni incomprensibili, i fantasmi, l’occulto ed un pizzico di “giallo”, leggerà queste pagine in un batter d’occhio. Non vi fate impressionare!
LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2012
ISBN9788866188681
Qualche volta non se ne vanno

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    Anteprima del libro

    Qualche volta non se ne vanno - Nicoletta Niccolai

    A mio padre, uomo colto, retto, intelligente, sensibile, buono.

    Papà, saresti stato orgoglioso di questo libro; eppure... ti sento dietro le mie spalle... lo stai leggendo... è vero?

    la tua Nicoletta

    Copyright © 2012

    YOUCANPRINT EDIZIONI

    Via roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    Tel. 0833.772652

    Fax. 0832.1836533

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Titolo : Qualche volta non se ne vanno

    Autore : Nicoletta Niccolai

    Copertina: Nicoletta Niccolai

    ISBN: 9788866188681

    Prima edizione digitale 2012

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’editore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941

    Nicoletta Niccolai

    Qualche volta non se ne vanno

    Edizioni Youcanprint

    I.

    Luciana saliva ansando lo stretto viottolo che portava a metà della collina. Mamma mia che arsura. Si fermò per l’ennesima volta, sfilò una bottiglia d‘acqua dallo zainetto, che sosteneva sulle spalle, ed intrise i due foulard che portava sulla fronte e sul collo. Il sollievo fu irrisorio: l’acqua era ormai calda. Avvitò il tappo respingendo l’istinto di bere quella brodaglia. Meglio arrivare in cima e dissetarsi con qualcosa di fresco, sua sorella l’aveva informata che non avrebbe dovuto preoccuparsi di alcun problema di sussistenza: il frigorifero era ben rifornito.

    Si guardò intorno. Quella regione era veramente bella, in quel periodo dell’anno primeggiava il marrone, nelle sue tonalità più calde alle volte tendenti quasi al nero, sinonimo di terra grassa e produttiva. Alla sua sinistra si imponeva il verde carico degli agrumeti, più oltre quello variegato d’argento degli olivi. Di fronte a lei l’infinità del mare, con tutte le sue gradazioni: dal verde smeraldo al blu cobalto. Uno spettacolo che le sarebbe rimasto impresso nella memoria così come le visite fatte ai reperti storici ed artistici che testimoniavano la vetustà, la trascorsa grandezza, l’eterogenea cultura di quell’isola. Ma tanti anni trascorsi nel nord Italia facevano cozzare i suoi punti di vista con lo stile di vita dei nativi, per cui non sarebbe mai riuscita a trascorrere, in quei luoghi, più tempo di quello necessario per una vacanza. Anche se la sua non era propriamente una vacanza: aveva bisogno di tempo e di tranquillità per finire il suo libro, lontana dai mille affanni quotidiani, dalle esigenze della sua famiglia e da quelle dei suoi cani. Avevano fatto una specie di

    scambio, Dora era salita a Milano con marito e figli e lei era scesa in Sicilia, da sola.

    Oh finalmente! Alzando lo sguardo vide apparire dapprima il basso tetto poi, man mano che si avvicinava, il secondo piano, la terrazza ed infine l’intera casa con il suo vasto portico e l’accogliente patio disseminato di palme ed aiole ricolme di piante rigogliose.

    Aprì il cancelletto pedonale ed attraversò il cortile, facendo scricchiolare sotto le suole un ghiaietto incredibilmente bianco, e si fermò davanti ad una porta-finestra.

    Un gatto bianco e nero spaparanzato sopra un parapetto alzò impercettibilmente la testa per poter osservare quell’intrusa che, quasi con fervore cercava, in un mazzo di chiavi, quella che avrebbe aperto la porta della cucina, poi, come rassicurato, dondolò lievemente la coda e ricadde nel suo torpore.

    Luciana trangugiò due bicchieri d’acqua uno dietro l’altro, senza riuscire a spegnere la sete, poi si preparò un panino con delle fette di pan carrè, del prosciutto cotto e della fontina che aveva trovato nella perlustrazione del frigorifero, quindi si sedette fuori, sotto il pergolato godendosi la suggestione e la serenità di quel posto. Anche se, a detta di Dora, quell’abitazione, proprio tranquilla non era.

    Forse però non era colpa della casa ma dei cromosomi, di una sorta d’eredità genetica. Suo padre era stato, soprattutto grazie ai rigori della guerra, una specie di medium scrivente casalingo, finché sua madre, stanca di vederlo tirar fuori un blocchetto dalla tasca e cadere in trance anche per la strada, lo aveva fatto smettere per forza, o meglio, per amore.

    Lei vedeva e sentiva cose strane da quando aveva cominciato a camminare, aveva intuizioni fulminanti che poi si rivelavano realtà e sentiva le presenze, le sensazioni lasciate da chi era vissuto, o transitato in un certo luogo. Una volta, camminando tra le vestigia di un foro romano era stata pervasa da un brivido e si era sentita immersa in un rumoroso nugolo di gente che scalpicciava per una scalinata corrosa dal tempo, parlando un antico latino.

    Sua sorella era una factotum: come lei percepiva l’energia accumulata dal passaggio di alcuni esseri su questa terra e aveva un suo spirito guida, che l’aveva rincorsa per tutta l’infanzia fino a riuscire, finalmente a comunicare con lei.

    Spinta da quelle inconsuete riflessioni si apprestò a visitare il famoso salone di cui le aveva parlato Dora poi, però, ritenne più pratico prima sistemarsi nella sua camera, mangiare e rimandare al pomeriggio quell’esplorazione.

    Ma la stanchezza, ed il languore post pranzo, la fecero assopire ed al risveglio fu presa dalla smania di scrivere e, dato che ben sapeva di dover cogliere quella voglia al volo, scelse un angolino ben illuminato nella sala, vi trascinò un tavolino sul quale sistemò il suo computer portatile, un block notes ed una penna.

    Aveva un modo del tutto personale di modellare i suoi libri:

    quando le veniva un’ispirazione, sulla trama di un racconto o di un episodio, la buttava giù in fretta, poi la rileggeva e la controllava decine di volte fino ad essere soddisfatta dell’insieme oppure, non contenta di una parte o di un finale lo lasciava lì, in disparte ed iniziava, nel frattempo un altro brano, un altro capitolo.

    A volte, come stava accadendo nella stesura di quest’ultimo romanzo, aveva una miriade di idee sulle narrazioni da inserire in ogni capitolo ma si lambiccava il cervello per come riuscire a legarle insieme. Ed ora eccola lì, l’intuizione giusta, a portata di penna, anzi di tasto.

    Le dita scorrevano veloci sulla tastiera e la pagina bianca si riempiva di lettere che rincorrendo il cursore, descrivevano la sua giornata odierna, compreso il motivo della sua presenza in quella casa.

    Il gatto bianco e nero apparve sul davanzale della finestra, si sedette, girò la testa per leccarsi, a lungo, un fianco, la dove il pelo, più rado, denunciava la presenza di una cicatrice, poi, come interessato al lavoro di Luciana saltò sul tavolino e passeggiò avanti ed indietro, tenendo la coda eretta.

    E tu chi sei? Ciao bello… disse Luciana, interrompendo la sua fatica ed allungando istintivamente una mano per coccolare il felino. Ma le sue dita toccarono il nulla, o meglio, percepirono solo una indefinibile sensazione di calore.

    Senza scomporsi minimamente per quell’assurdità, anzi incoraggiata dall’accoglienza positiva di quella prima entità e sempre più conscia che, da quella casa, avrebbe assorbito ispirazione ed atmosfera conforme all’argomento del suo romanzo, la donna si immerse nella rilettura del primo episodio.

    Nonna Ines

    Il palmo della mano che reggeva la valigia cominciava a farle male. I quattro vestiti, cacciatici dentro in fretta, avevano triplicato il loro peso da quando, scesa dall’autobus, aveva cominciato a vagare per le stradine di quel paesino di montagna in cerca della casa.

    Eccola finalmente, si, il numero 19 era proprio in fondo a quella via che un esplicito cartello stradale indicava senza uscita.

    Adele si avvicinò al cancello e spinse lo sguardo oltre le sbarre. Era una villa enorme. Il vasto prato, ingiallito ed incolto, era interrotto in più punti da tentativi d’aiuola contenenti un miscuglio di piante diverse ed era dominato da cinque larici secolari alti almeno una trentina di metri. Anche l’abitazione aveva un aspetto trascurato. L’intonaco, di cui non si capiva più il colore originario, era scrostato quasi in modo uniforme. La ruggine aveva attaccato buona parte delle grate di ferro che proteggevano le finestre della cantina e anche le imposte di legno degli altri due piani ostentavano il bisogno di un’urgente ritinteggiata.

    Le finestre, quante finestre. La ragazza ne contò nove solo sulla facciata. Sospirò pensando alla mole di lavoro che l’attendeva. Aveva risposto a quell’annuncio aggrappandosi alla speranza di aver trovato una soluzione per la sua sfortunata vita. L’occuparsi di una persona anziana non le era apparso un compito gravoso, era abituata a tirarsi su le maniche fin da bambina, per aiutare la madre ad accudire una torma di fratelli più piccoli. Tutti maschi naturalmente.

    Ora però era assalita dal dubbio. Forse era la villa, emanava un’essenza di passato, d’abbandonato, le incuteva un certo timore.

    Oh piantala Adelina si rimproverò mentalmente sono tutte scuse, in fondo devi solo avere il coraggio di varcare un cancello.

    Fece un profondo respiro ed allungò l’indice della mano sinistra verso il campanello. Udì l’eco dello squillo rimbalzare a lungo sulle pareti interne della casa. La serratura del portoncino pedonale scattò ma nessuno le venne incontro. Vincendo l’incertezza spinse l’anta e s’inoltrò sul viottolo che conduceva ai piedi di una breve scalinata. Nove larghi gradini erano delimitati, su entrambi i lati, da balaustre sorrette da simmetriche colonnine di finto marmo. Su quelle di testa, due vasi di ceramica bianca contenevano delle avvizzite piante ornamentali. Giunta sul quinto gradino si bloccò d’istinto al rumore del lieve cigolio che accompagnava l’apertura della massiccia porta.

    La vecchia era imponente nel suo vestito completamente nero eccezion fatta per un colletto, color crema, frutto di un complicato lavoro d’uncinetto. Appoggiava tutto il suo peso a destra, su un bastone, anch’esso nero, ingentilito da un’impugnatura d’argento che rappresentava la testa di un levriero. Aveva i capelli, giallognoli e dall’aspetto stopposo raccolti a crocchia in cima alla testa con l’aiuto di grosse forcine d’osso. Il suo volto, bianchissimo, era solcato da rughe, così profonde, da sembrare tracciate con un coltello. Gli occhi, neri, fissi, trapassarono la ragazza, facendole scorrere un brivido freddo lungo la schiena. La voce, con uno strano contrasto rispetto al fisico, era fioca e stentata, quasi un sussurro Tu sei Adele…ti aspettavo, vieni entra. Ignorando volutamente la mano tesa di Adele, la signora Ines ruotò su se stessa inoltrandosi nella casa.

    Da un atrio parzialmente illuminato per mezzo di due vetrate rettangolari, passarono in un corridoio lungo una quindicina di metri. La giovane donna dovette attendere qualche secondo per abituarsi alla quasi totale oscurità: l’unica illuminazione proveniva dall’ ingresso alle sue spalle. Quando le sue pupille lo permisero notò otto porte, quattro per lato, ed una più piccola sullo sfondo.

    Alla sua sinistra, al di là del primo uscio aperto, scorse strane larghe macchie bianche disseminate per tutto il locale simili a spettri inanimati. La gola le si serrò all’istante. Che posto era mai questo? Dove era finita?

    Il bisbiglio di nonna Ines giunse dalla penombra davanti a lei Dimenticavo: tu non ci vedi. Io non ho bisogno di luce. Conosco questa casa meglio delle mie tasche. Apri pure le imposte

    Adele entrò nella stanza a destra e, dopo aver urtato contro una sedia, un tavolo e qualcos’altro di cui non fu in grado di stabilire l’essenza, riuscì ad arrivare, con il cuore che batteva all’impazzata, alla maniglia della finestra.

    Spalancò le ante. I raggi del sole irruppero di prepotenza, cambiando completamente la prospettiva. Quella era la cucina! Una normalissima cucina. Oltre ai pensili color mogano, appesi su tre lati, ed al massiccio tavolo, corredato da sei sedie, collocato al centro della stanza, faceva parte dell’arredo un imponente frigorifero, posizionato di fianco al lavello. Al forno ed ai quattro fuochi a gas, per far fronte ad ogni necessità culinaria, erano stati aggiunti, appoggiati su di un ripiano, un microonde ed un fornetto scalda pane. Nel complesso sembrava una cucina ben fornita ed organizzata.

    Sentendosi una vera stupida Adele ricollocò, al suo posto, il carrello portavivande che aveva spostato nel suo incedere cieco: era quello l’oggetto misterioso. Poi seguendo le indicazioni della vecchia cominciò a perlustrare le altre camere.

    Di fronte a lei c’era la sala. Le macchie bianche che aveva notato in precedenza si manifestarono nel loro vero essere: delle lenzuola distese sui mobili per proteggerli dalla polvere.

    Rispondendo alla domanda mentale formulata dalla giovane, Ines spiegò: Come tu sai, avendo parlato con mio nipote, sono stata a lungo ricoverata in ospedale. Ora mi piace girovagare solo in cucina e nella mia camera, oltre che nella taverna e nella lavanderia naturalmente. Le altre stanze non mi servono. Sandro, mio nipote, vive al piano di sopra, con la moglie e la figlia, e sono completamente autosufficienti. Usufruiscono ogni tanto del giardino e del seminterrato…

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