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La ragazza della Luna
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E-book552 pagine8 ore

La ragazza della Luna

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Info su questo ebook

Miriam, 15 anni, una grande passione per lo studio e per i romanzi fantasy, detesta la realtà dei suoi coetanei, volgare, conformista, priva di valori. Decisa a contrapporvi i suoi alti ideali e il suo senso del sacrificio, intraprende una strada verso la perfezione a tutti i costi che la porterà a imbattersi in una letale compagna di viaggio: l’anoressia nervosa.
Andy, 17 anni, tipico profilo da adolescente multiproblematico, un curriculum di vandalismi e disgrazie familiari alle spalle, coltiva un sogno nel cassetto del tutto improbabile: diventare un grande poeta.
Quando i due incrociano i loro percorsi avviene lo scontro tra due modalità opposte di incarnare quella lotta per rivendicare il proprio posto nel mondo che è l’adolescenza: da una parte la ribellione a una vita dura che non risparmia i propri colpi; dall’altra il rifiuto totale di essa, come vocazione mistica. Ma per Miriam, nello scontro c’è in palio anche un premio di altro tipo, cioè la sopravvivenza a una malattia orribile, suo alter ego oscuro. Attraverso il dialogo con essa, si ripresenta in scena la tragica danza umana della vita con la morte, sullo sfondo di una Trieste dal fascino crepuscolare.
LinguaItaliano
Data di uscita20 gen 2017
ISBN9788866602095
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    Anteprima del libro

    La ragazza della Luna - Silvia Zidarich

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Copertina

    Nota editoriale

    La scuola di scrittura dell'associazione culturale Fantalica

    Prologo

    Capitolo 1

    MIRIAM

    Capitolo 2

    ANDY

    Capitolo 3

    MIRIAM

    Capitolo 4

    ANDY

    Capitolo 5

    MIRIAM

    Capitolo 6

    ANDY

    Capitolo 7

    MIRIAM

    Capitolo 8

    ANDY

    Capitolo 9

    MIRIAM

    Capitolo 10

    ANDY

    Capitolo 11

    MIRIAM

    Capitolo 12

    ANDY

    Capitolo 13

    MIRIAM

    Capitolo 14

    ANDY

    Capitolo 15

    MIRIAM

    Capitolo 16

    ANDY

    Capitolo 17

    MIRIAM

    Capitolo 18

    ANDY

    Capitolo 19

    MIRIAM

    Capitolo 20

    ANDY

    Capitolo 21

    MIRIAM

    Capitolo 22

    ANDY

    Capitolo 23

    MIRIAM

    Capitolo 24

    ANDY

    Capitolo 25

    MIRIAM

    Capitolo 26

    ANDY

    Capitolo 27

    MIRIAM

    Capitolo 28

    ANDY

    Capitolo 29

    MIRIAM

    Capitolo 30

    ANDY

    Capitolo 31

    MIRIAM

    Capitolo 32

    ANDY

    Capitolo 33

    MIRIAM

    Capitolo 34

    ANDY

    Capitolo 35

    MIRIAM

    Capitolo 36

    ANDY

    Capitolo 37

    MIRIAM

    Epilogo

    In collaborazione con:

    Un Romanzo di

    Silvia Zidarich

    La ragazza

    della Luna

    ISBN versione digitale

    978-88-6660-209-5

    LA RAGAZZA DELLA LUNA

    Autore: Silvia Zidarich

    Copyright © 2017 CIESSE Edizioni

    www.ciessedizioni.it

    info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    I Edizione stampata nel mese di gennaio 2017

    Impostazione grafica e progetto copertina: © 2016 CIESSE Edizioni

    Immagine di copertina: © by Evgeniya Tiplyashina

    (diritto d’uso su autorizzazione di 123rf.com)

    Collana: Green

    Editing a cura di: Renato Costa

    PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Non tutto quel ch’è oro brilla,

    né gli erranti son perduti.

     Per Celia.

    Nota editoriale

    La scuola di scrittura dell'associazione culturale Fantalica

    Lettera 22 è un progetto promosso dall’associazione culturale Fantalica di Padova, dal 2002 impegnata a sostenere la libera espressione creativa e l’arte nelle sue svariate forme. L’ideazione di una vera e propria scuola di scrittura creativa nasce dalla stretta collaborazione con gli scrittori Laura Liberale e Heman Zed che ne hanno ideato struttura e impostazione. Un percorso articolato per livelli che coinvolge i soci partecipanti in incontri che offrono gli strumenti necessari per dare forma all’idea creativa. Con il romanzo ‘La ragazza della luna’ di Silvia Zidarich si realizzano due obiettivi di Lettera 22: svelare un talento e stabilire una collaborazione con la casa editrice Ciesse Edizioni per un nuovo progetto editoriale.

    Con questo primo traguardo Lettera 22 acquista basi solide, potendo ambire a nuovi e più alti obiettivi artistici da condividere con Ciesse Edizioni, ma soprattutto con tutti gli amanti della scrittura e delle buone letture.

    Roberta Rigato

    Responsabile per le attività culturali

    dell'associazione Fantalica

    Prologo

    Decise di andare a fare una passeggiata fino a Muggia Vecchia.

    Aveva bisogno del silenzio e della solitudine che nemmeno il cantuccio più nascosto di casa sua poteva darle. Nemmeno il cornicione esterno della terrazza dove si stendeva nelle sere d’estate, finché le parole del libro non si fondevano tra loro davanti agli occhi e non sorgevano le stelle.

    Le piaceva il profumo dei glicini e dei gelsomini lungo la strada, le piaceva scrutare le finestre illuminate e immaginare chi ci fosse dietro, come fossero arredate le stanze.

    Il santuario di Santa Maria Assunta di Muggia Vecchia sonnecchia da undici secoli in cima al colle. Querce annose a strapiombo sul golfo di Trieste, i rintocchi della campana salutano le spose il sabato mattina, distese d’erba che in autunno diventano color dell’oro e un piccolo cimitero pacifico e discreto.

    Alcuni luoghi sono cari al cuore, meditava Miriam, affondando il piede tra le foglie che cominciavano a cadere e avvertendo il fascino antico del profumo di corteccia, del muschio sulle mura, del sale e della ruggine della ringhiera, oltre la quale il colle franava in grembo al mare.

    Lei entrava sempre un po’ timorosa dalla porta antistante il sagrato, non troppo evidente sulla facciata di pietre a vista, incorniciata e protetta in fondo al querceto.

    Chiusa la porta alle spalle, solo i raggi di sole polverosi filtrati dalle vetrate opache dell’organo, sbavavano pigramente le pagine gialle delle bibbie addormentate, e i guizzi delle fiamme sulle poche candele accese sembravano spezzare l’illusione di un’immobilità perfetta.

    I battiti del cuore rallentavano. Le voci e i colori di ogni giorno, come i ricordi e i pensieri, pian piano indietreggiavano, quasi sapessero di dover attendere fuori dal portone scrostato, finché lei non fosse uscita o non li avesse, suo malgrado, chiamati.

    E Miriam, che andava molto orgogliosa della sua reputazione di ragazza riflessiva, si adagiava su uno scranno e si metteva a respirare la pace.

    Si sedette con gli occhi fissi sulla fiamma più vicina e intanto con la mano destra si sfregava il dorso della sinistra.

    Fuori, il sole rotolava lentamente verso Ovest, lo cullava il mare placido.

    Me lo sono meritato, fu ciò che riuscì a pensare prima di ricordarsi che aveva deciso di non pensare.

    Le parole bussavano al portone, impazienti.

    Lei scrollò le spalle e provò a concentrarsi sul respiro, come insegnano a yoga, immaginare l’aria che entra dal naso, esce dalla bocca e di nuovo entra, quelle cose lì.

    Lo sguardo, che errava indolente in mezzo agli scranni scuri e si arrampicava sul grande pulpito di pietra indugiando sulla danza ipnotica delle candele fin quasi a darle la nausea, a un certo punto cadde sulla sua mano sinistra. E va bene. Lo lesse.  Impedivisses, congiuntivo piuccheperfetto, seconda persona singolare, impedio, impedii, itum, ire.

    Angoli acuti, le esse disegnate in lineette spezzate scavalcavano il dosso azzurrino delle vene sottolineandone il percorso irrequieto sotto pelle. Una emme alla romana, dura e spigolosa, campeggiava sotto la terza nocca, le e due rastrelli appoggiati sulla carne. Infine, lo sbuffo irritato di un "underscore" approvava la desinenza finale in seconda singolare: ora andava bene.  Ora andava bene.

    Qualche ora prima, sotto l’incalzare del tempo a disposizione che minacciava di scadere, aveva perso di vista gli schemi con le freccine colorate e i quadratini che si era ben stampata in mente. Ciò aveva mandato in frantumi per un attimo la sua perfetta preparazione in grammatica latina e ne aveva ricavato un fastidiosissimo dieci meno.

    Così pensò che se con la penna Bic si fosse marchiata sul dorso della mano sinistra l’unico errore commesso, la prossima volta se lo sarebbe ricordato.

    I pensieri entrarono dalla porta in punta di piedi, non visti si acquattarono in fondo, accanto alle acquasantiere. Occhieggiavano audaci in attesa del loro momento.

    Miriam si girò di scatto: non c’era nessuno.

    Ma quel giorno era stranamente irrequieta e l’immobilità non la calmava. Le ombre delle colonne sembravano stiracchiarsi lungo i muri, le fiamme balzellavano rapide, pettegole.

    Sentì l’esigenza di alzarsi dallo scranno.

    Tentando di regolarizzare il respiro con inspirazioni profonde, fece qualche passo sotto l’altare, lasciandosi strisciare addosso i raggi arancioni e caldi del tramonto, come fossero morbide sciarpe. Sistemò la pesante tracolla sulle spalle, afferrò un cerino e accese la sua candela, che rimase a palpitare nella penombra. In chiesa si divertiva spesso a fare un gioco: assicuratasi di essere completamente sola, si avvicinava con rispetto alla bibbia aperta sul leggio e ne girava una pagina a caso. Il pulviscolo sollevato nell’aria profumava d’incenso e Miriam leggeva la prima parola su cui cadeva lo sguardo. Poi, tutta soddisfatta, se ne andava con la sua lezione del giorno su cui meditare.

    Quel giorno si trovò a fissare sulla carta la parola perfezione.

    Era annidata tra altre mille creaturine d’inchiostro, ma dovette ammettere che i suoi occhi non misero a fuoco la pagina, finché non avevano trovato lei.

    In un attimo, tutti i pensieri in attesa si gettarono all’impazzata lungo la navata uscendo dai loro nascondigli e le balzarono addosso. Era ciò che volevano sentirsi dire, era la parola giusta, gliene parlavano da tempo ma lei non voleva ascoltarli!

    Si fece largo a stento tra la folla di parole e uscì.

    Percorse il selciato fino al parapetto a picco sul golfo. Davanti a lei un’enorme coppa blu di acqua salata e le barche a vela bianche come tanti moscerini posati sulla sua superficie.

    Che avessero ragione?

    Finché durava il giorno, era facile resistergli. Finché il sole stava alto sopra la sua testa e schiacciava le ombre a terra, il linguaggio degli uomini copriva tutte le altre voci. Ma con il calare del buio, alcuni pensieri sotto forma di indizi assumevano una consistenza solida. Erano anzi dannatamente coriacei e resistenti. Ogni genere di creature proliferava ora nel buio e danzava attorno alle tempie mentre camminava; per un attimo dovette prendersi la testa tra le mani. Provò la netta sensazione che se non l’avesse fatto, se non l’avesse tenuta insieme, sarebbe esplosa, mentre il sole esplodeva nel mare. E come il sole sarebbe colata giù con pennellate infuocate lungo la terra accaldata, lasciandosi dietro finalmente solo la notte silenziosa.

    "Caro nuovo Diario, buongiorno! Sono davvero contenta che sia tu il regalo: cominciavo a sentire la mancanza di un compagno fidato a cui raccontare i miei pensieri. Pensavo di presentarmi con qualche riga introduttiva, ma tutto sommato è una perdita di tempo. Il tuo predecessore potrà darti tutte le notizie che desideri: ultimo cassetto in alto a destra della scrivania nello studio, se ancora non vi siete conosciuti!

    Ti basti sapere che il mio nome è Miriam, ho quindici anni e sto pensando a come cambiare la mia vita. Forse proprio tu avrai la fortuna di assistere al cambiamento sperato? Ho il presentimento che sarà così! Fidati di me, hai per le mani una storia interessante, seguimi e non te ne pentirai".

    Le fronde immobili scolorivano nella sera. Il rombo di un motore in lontananza. Fischi e applausi allo stadio.

    Contemplando meditabonda i libri ammonticchiati sul letto, Miriam lasciava che la brezza umida giocasse con i suoi capelli troppo scuri e troppo opachi.

    Iniziando dai russi, li sistemò sugli scaffali.

    Dostoevskij, Tolstoj, Gogol.

    Poi toccava agli irlandesi: Yeats, Joyce, Wilde.

    Seguivano Proust, Flaubert, Stendhal, e poi Hesse, Kafka, Musil, Dante, Tasso, Pirandello. In un arcobaleno di frontespizi colorati e di pagine fragranti, vecchie e nuove orecchie d’asino lisciate con rimorso, l’onda riprovevole dell’umidità impressa per sempre da un giorno di pioggia improvvisa, quando non aveva fatto in tempo a riparare la tracolla sotto la tettoia della fermata dell’autobus. Poi Shakespeare pomposo e sazio di gloria col suo sopracciglio perennemente alzato sotto le lettere d’oro barocco, gli abissi di saggezza di Seneca e Cicerone tratti in salvo dal reparto classici non letti della biblioteca della scuola, e pertanto concessi in proroga vitalizia. Infine lui, Tolkien, il suo preferito.

    Miriam affondò il naso nelle pagine spalancate sui boschi e sui castelli fatati della Terra di Mezzo, chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni il profumo di carta invecchiata e di corteccia fresca. La luce della camera sfumava sino a sciogliersi in fiammelle di lanterne portate a mano in mezzo agli alberi. Da un angolo recondito emergeva controvoglia il bisogno di chiudere le pagine, di tornare alla realtà. Sentiva il desiderio di riporre il libro in mezzo agli altri, di ascoltare il rombo dei motori e dei fischi giù allo stadio, di osservare gli occhi sempre accesi dei neon puntati sull’erba, di osservare le macchine che si arrampicavano lamentandosi sulle curve della strada. Tutto ciò ripiombava deciso al di qua della grande portafinestra spalancata, soffiava sui capelli troppo scuri e troppo opachi, si fermava un centimetro prima delle schiere di libri compatti sopra gli scaffali. Con un’ultima trepida carezza Miriam spegneva la luce e se ne andava a cena.

    Capitolo 1

    MIRIAM

    "10 ottobre 2003, serata di pioggia.

    Voti di oggi: dieci in latino (finalmente!); dal nove al dieci in storia (perché in un’interrogazione orale sembra che il dieci non si possa dare, prima o poi spero di dimostrargli il contrario); nove in matematica.

    Peso: cinquantaquattro chili, uno in meno rispetto a settembre. E meno male!

    Ieri, 9 ottobre, ho trascorso uno dei pomeriggi più deprimenti della mia breve esistenza. Ero alla festa di compleanno di Caterina e - sia chiaro - io non ci sarei andata se non fosse che i nostri genitori sono amici. Ma non ho fatto in tempo a entrare in pizzeria, che già avevo capito come sarebbe andata a finire. Un branco di ragazzini in felpe larghe da hip-hop, berrettini cacciati sulla testa nonostante fossimo in un luogo chiuso e non ce ne fosse bisogno, si sono tirati addosso lattine vuote e si sono scambiati barzellette volgari per tutta la sera, mentre io mi sforzavo di intavolare abbozzi di conversazione destinati a cadere nel nulla. Dopo l’ultimo tentativo di chiedere a una tipa con uno smalto rosa shocking cosa pensasse della sua scuola, ho ascoltato educatamente la sua risposta (qualcosa come cimettopiedeunavoltaalmesehaidaaccendere?) e ho trascorso il resto della serata a ripetere tra me e me la Guerra dei Cent’anni per prepararmi all'interrogazione di storia di oggi, mentre tutto attorno i ragazzi facevano a gara a chi beveva più birra e le ragazze a chi avesse la minigonna più corta.

    Dopo esser rimasta sconvolta da tutta questa superficialità, il pensiero che ti propongo oggi è: ma è proprio obbligatorio diventare adulti? Voglio dire, fatti due conti, non ci trovo nulla da guadagnare. Da bambina ero felice, mi bastava una giornata in montagna con i miei, camminare sotto il sole, pranzare in rifugio, godermi paesaggi straordinari o il volo dei falchi ed ero felice. Per crescere devo barattare quella felicità con le lattine di birra e le minigonne ascellari? È davvero un passaggio obbligato, come quello di Dante, andare attraverso l’Inferno per arrivare al Paradiso? E se io dubitassi che ci sia un Paradiso alla fine?

    È dai tempi delle medie che assisto al cambiamento delle persone attorno a me. A una a una tutta perdono la loro serenità, la loro innocenza, e cominciano a provare interesse per cose che non capisco: bigiare la scuola e dire parolacce. Se crescere significa perdersi, ebbene io vorrei che ci fosse un modo alternativo per passare l’adolescenza senza crescere davvero.

    Diceva Dostoevskij: Il bambino rappresenta i tre quarti della felicità di una vita, tutto il resto non è che un quarto. A presto!".

    Ogni mattina Miriam conquistava l’ultimo posto a sinistra in fondo all’autobus. Dopo un’attesa di un quarto d’ora in mezzo alle pozzanghere d’olio e al fumo di sigaretta della stazione, decideva di trascorrere i tre quarti d’ora del tragitto con lo sguardo tuffato nel libro, sforzandosi di ignorare tutto ciò che accadeva al di fuori, fino all'uscita. Scesa dall’autobus, le mani saldamente aggrappate alle pagine e la testa bassa, affrontava la piazza e la salita fino a scuola, dove si sedeva all’ultimo posto a sinistra in fondo alla classe.

    Ogni volta che doveva prendere l’autobus, due sentimenti contrastanti conducevano Miriam a salire la predella sotto il peso di una stanchezza considerevole che si sommava al peso non trascurabile dello zaino. Il primo sentimento era la noia, una noia stizzita e insoddisfatta, che la faceva guardare penosamente alle sue giornate tutte uguali. Il secondo sentimento, non facile da descrivere, era ciò che le faceva stringere inavvertitamente gli addominali sotto la maglia ogni qualvolta capitava che le si piazzassero attorno, senza che lei potesse opporvisi, due o tre ragazzi della sua età. Minacciata dai movimenti goffi e ampi delle loro braccia da adolescenti, fattasi piccola piccola in mezzo alle voci alte e alle scritte col pennarello nero tracciate sugli zaini sbattuti a terra, sentiva l’impellente necessità di andarsene da lì. Voleva levarsi in volo e sparire mille miglia lontano, dove non potessero disturbarla né aggredire il suo prezioso silenzio con le loro parole.

    Allo stesso tempo sentiva un curioso e insopportabile languore, la vivida e dolorosa consapevolezza di quanto spessa fosse la barriera di plexiglas oltre la quale le loro voci si alzavano. Dall’altra parte c’era lei, appoggiata contro, che non osava sfiorarla per paura di cadere al di là. Tutto ciò determinava un pericoloso cocktail di irritabilità e cupezza, che rendeva tanto più indispensabile ripararsi sotto le fronde amiche dei boschi fatati, o - qualora si fosse stufata di ritornare al primo capitolo del Signore degli Anelli che conosceva a memoria - scappare a perdifiato nelle steppe sterminate ricoperte di neve delle saghe di Tolstoj o ancora perdersi tra la folla elegante delle rue parigine, slavate e sfumate col pennello ispirato di un quadro impressionista nei romanzi di Zola.

    La noia e quella specie di paura mista a bizzarri slanci di nostalgia, erano del tutto legittime.

    Proprio basandosi sulle avventure di cui si riempiva gli occhi e il cuore, aveva deciso che la sua vita era noiosa. Peggio, inutile. La parola inutile era suonata terribile e profetica esattamente come appariva a pronunciarla o a scriverla sul diario. Un giorno, mentre sotto il sole percorreva di buonumore la salita per tornare a casa da scuola, appoggiato lo zaino sul muretto, annusò il profumo di more e di asfalto. In quel momento, con la potenza di una rivelazione divina e con la fermezza ostinata dei tentacoli che avvolgono uno scoglio, si era materializzato davanti ai suoi occhi lo squallore infame dell’esistenza media di un adolescente del ventunesimo secolo.

    Quasi incredula, aveva accusato il colpo ed era lentamente tornata a casa. Ma ormai più nulla era uguale a prima.

    Si vedeva incastrata dietro al banco di scuola, circondata dalle pareti rassicuranti della routine, poi a casa alla scrivania seduta a studiare, a pagare il suo tributo alla quotidianità, consumava i suoi pasti in sordina mentre la TV continuava a ronzare di notizie tutte uguali. Tutto uguale era il suo nuovo slogan, e non le era venuta mai in mente un’idea abbastanza buona e incisiva che potesse rovesciarne il deprimente manifesto. Si autocommiserava.

    Quando, appoggiata al palo di metallo pieno di adesivi, si guardava intorno aspettando l’autobus, la stazione assumeva le forme di un grande carillon, dove gli attori attaccati ai piedistalli recitavano ogni giorno la propria parte. Immaginava che qualcuno, fuori dal muro della stazione, azionasse una grande chiave di metallo la mattina presto intorno alle sette e improvvisamente gli attori, rizzati sui piedistalli, riprendessero a girare. E così durante le ore di lezione, e poi di nuovo in autobus per il ritorno a casa, le due parole scambiate di fretta, le conversazioni incolori ricamate su temi pateticamente superflui quali un compito in classe o la gita scolastica. Minuti interi di subordinate incatenate insieme dalla voglia di dare un senso al tutto.

    La domenica non andava meglio. Dopo il pranzo domenicale Miriam aveva l’occasione di passeggiare con i suoi genitori in costiera, dove le scogliere si gettano a strapiombo sul golfo, e lungi dal lasciarsi tranquillizzare alla vista dell’incontro tra la roccia e l’immensità del mare, pensava a come tutti quei rassicuranti rituali, quel prodigarsi a organizzare svaghi, altro non fosse che dello zucchero a velo gettato su pane invecchiato. Lo stesso nauseante profumo di superfluo sembrava aleggiare sopra il mare pigro, appiccicandosi ai piedi delle coppie a passeggio.

    Fissava allora il sole quasi al tramonto, lo guardava intensamente, cercando di catturare i riflessi che tesseva sul mare. Lo vedeva danzare a un passo dall’orizzonte, mentre le barche a vela e le petroliere vi passavano attraverso senza accorgersene. Lì, dove nessuno mai avrebbe pensato di fermarsi, pensava si celasse il passaggio per accedere a un mondo sconosciuto, per ricevere in dono il senso che tutti attorno a lei cercavano ossessivamente e non trovavano. Doveva pur esistere un posto a cui nessuno aveva mai pensato, dove ogni cosa avrebbe ricevuto la sua giusta ricompensa. Se non era così, allora, a che pro i carillon, le salite tutte uguali, le subordinate incatenate alla fermata dell’autobus?

    Ma poi si ripeteva che forse era troppo presto, che non succedeva nulla perché prima doveva imparare dell’altro, e si affrettava a raggiungere i suoi, già fermi poco più avanti, mentre cercava di decifrare in fondo a ogni sguardo che vedeva passare la stessa indubitabile inquietudine.

    Il passo successivo era stato capire come fosse evidente che molte persone non provavano proprio nessunissima inquietudine.

      Dopo mesi spesi a scrutare i volti gialli e grigi su e giù per le strade, le file alla cassa e le file dal dottore, le spose che noleggiavano una macchina costosa che non avrebbero mai potuto permettersi e noleggiavano pure il vestito, la gente con le cuffiette nelle orecchie ai funerali, i capelli spettinati, i chewing–gum sotto le scarpe, le Novella 2000 impilate dalla parrucchiera, le valigette ventiquattrore e le cravatte che marciano verso gli uffici, il trucco pesante, le risate sguaiate, le compagnie di ragazzi al McDonald’s che succhiavano Coca-Cola dalla cannuccia, le donne chine in chiesa sul rosario, le vetrine al neon, i cartelloni dal sorriso scrostato e le rapide mani inanellate con le unghie rifatte a zebra e pois delle cassiere al Pam, era giunta alla conclusione che il mondo ignorava lo squallore e la superficialità in cui era immerso. Lei era l’unica che dovesse preoccuparsene e senza aiuto alcuno dall’esterno.

    Era decisa a respingere la mancanza di urgenza con la quale le persone rotolavano avanti la propria vita come gli scarabei rotolano avanti il loro malloppo di fango.

    Riteneva indegno, nelle giornate di ognuno, accontentarsi di inanellare un’attività dopo l’altra senza la minima ambizione. Detestava la leggerezza con cui i suoi compagni di classe collezionavano insufficienze non assegnando uno scopo qualsiasi alle loro giornate, che non fosse scappare al suono della campanella per andare a fumare dietro l’angolo. Peggio: ridendoci sopra! E ancora la leggerezza con cui la maggior parte delle persone si recavano al lavoro in utilitarie umide sotto la pioggia, scordando il fatto che di lì a cinquant’anni sarebbero morte senza nessuno che le ricordasse. Sterminati campi di lapidi consunte dal tempo con un mazzo di fiori finti e del muschio a coprire la fotografia. Considerava tutto ciò semplicemente intollerabile. La decisione successiva, dopo aver cercato il senso della vita, era stata di cercarlo da sola, contrapponendosi alla corrente tradizionale, evidentemente poco dedita al problema.  L’obiettivo era eccellere dove gli altri si accontentavano di partecipare.

    Miriam era smontata dall’autobus un martedì mattina di fine settembre e aveva attraversato la strada ripassando qualche paragrafo di storia. Una mano in tasca, l’altra a litigare con le pagine di un Baudelaire che non ne voleva sapere di stare aperto contro la bora. Poi, mentre aspettava che il semaforo verde sancisse il via ufficiale al suo martedì mattina, si ricordò improvvisamente di un altro inesorabile problema.

    La terza grande rivelazione, balzata d’un tratto al centro di un palcoscenico dove i semafori rossi si erano trasformati in riflettori e lo scenario era formato da strisce pedonali sbiadite, portiere opacizzate dallo smog, platani più grigi che marroni e un cielo trapuntato di soffici nuvoloni bianchi, fu la seguente: le sue intuizioni erano davvero originali?  Molti giovani si ritenevano depositari di grandi sogni e poi si sarebbero ritrovati, prima di quanto si aspettassero, a consegnare ricevute allo sportello di una banca. Senza nemmeno accorgersene, i loro sogni non avrebbero lasciato di sé che degli involucri vuoti appesi al soffitto della camera, dimenticati, e se li avessero per caso ritrovati qualche anno dopo, ne avrebbero riso con una punta di doloroso rimpianto. Era di questo che si trattava? Che le sue decisioni solenni non fossero altro che il sogno commovente generato da un’età che non aveva ancora imparato a rassegnarsi?

    Tale quesito non era di facile risoluzione.

    "15.10.2003,

    Nove in inglese ma posso fare decisamente di meglio.

    Ancora cinquantaquattro chili, purtroppo.

    Caro Diario, oggi ti propongo un quesito di non facile risoluzione: in cosa credono le persone? Non fraintendermi, non intendo parlare dei cattolici e di tutte quelle cose lì, in quel senso è chiaro che ci viene appioppato il credo della nostra cultura e ce lo teniamo. Basta guardare i miei, ogni domenica vanno a farsi le gite in Friuli, a comprare mobili come niente fosse e poi la notte di Natale, quasi per un oscuro rimorso, si presentano in chiesa puzzolenti di pesce e polenta. Sbuffano pure, quando gli tocca prepararsi e uscire poco prima di mezzanotte. Non definirei credere tutto ciò. No, io parlo delle vere credenze, di ciò che permette a ciascuno di svegliarsi la mattina e di addormentarsi a fine giornata, di quel pensiero consolante e allo stesso tempo inquietante che ci fa capire come al di là di questo involucro di carne che ci ritroviamo addosso (spesso eccessivo, come nel caso del mio corpo), esista dell’altro. Un’altra dimensione di pensiero, un’altra chiave per capire il mistero della vita e per sopportare tutto ciò che non ci piace di questa realtà. È un problema che mi tormenta da un po’, ho provato pure a chiedere a qualcuno di risolverlo, ma cosa vuoi che mi rispondano i miei compagni di classe? L’ultimo è stato Dario.

    Lo consideravo abbastanza intelligente, mi ha risposto: «Se vuoi farti un vero trip, chiedimi e te lo faccio fare io».

    Non conosco il significato preciso della parola trip in questo contesto, ma penso fosse una miserevole battuta su qualche sostanza stupefacente, in ogni caso ho rinunciato a intervistare le persone per capire in cosa credono. Vuoi sapere in cosa credo io? Ebbene, io ho capito che credo negli Elfi. Sì, io credo che esistano gli Elfi. Potrai pensare che sia una scelta strana, o semplicemente che io sia pazza, ma a mia discolpa io posso dire che non è una scelta. In maniera del tutto naturale ho capito che il mio segreto per sopportare la realtà di cemento e difficoltà che vedo ogni giorno, quando mi sveglio, è sapere che la sera, prima di addormentarmi, apro i libri di Tolkien e incontro gli Elfi.

    In quel momento mi convinco di nuovo che deve esistere per forza un altro mondo, un’altra dimensione in cui esistono esseri che vivono in simbiosi con la natura, esseri puri che non invecchiano mai e che forse un tempo esistevano anche qui, ma se ne sono andati, dopo aver capito che non c’era più lo spazio per loro in mezzo alle fabbriche. Non so se questo altro mondo sia quello di Tolkien o non sia piuttosto il risultato di un sogno. Quello che so per certo è che io ho qualcosa per cui combattere, qualcosa a cui aspirare: raggiungere il mondo degli Elfi e diventare come loro, pura e buona. E so anche che a me non mancherà mai la speranza, perché avrò un rifugio dove tornare quando mi sento sola e non mi piace ciò che vedo. Da quel che mi risulta osservando gli altri, penso sia una cosa abbastanza unica, non lo so quanti altri quindicenni abbiano fatto questa scelta, o quanti semplicemente credano in qualcosa: questo vuol dire che io sono diversa. Caro Diario, infatti mi sento diversa, e come tale dovrò comportarmi. A presto".

    La risposta le arrivò come per magia lo stesso giorno in cui si era posta la domanda, quell’indimenticabile martedì mattina di settembre.

    Si trattava di mettere ai voti la destinazione della gita di quarta. Dal suo angolino in fondo alla classe, Miriam alzò timida (ma decisa) l’unica mano in favore di Oxford, subito subissata da una selva di mani agitate per Amsterdam. Miriam avvertì un tuffo al cuore e giurò in cuor suo che non ci sarebbe andata.

    «E perché mai vorreste andare tutti ad Amsterdam?», chiese la prof, annotando le votazioni.

    «Io non ci vado», precisò Miriam.

    Risatine in prima fila, gomito contro gomito.

    «Perché non vuoi venire in gita con noi, Miriam?».

    «Perché trovo stupido andare in gita scolastica solo per fumare canne e vedere le donne in vetrina», spiegò con un filo coraggioso di voce lei, deviando leggermente verso lo stridulo allorché le risatine si trasformavano in fragorose sganasciate. Rosy, la più carina della classe, si alzò in piedi e le rispose atteggiando un’espressione falsamente contrita, mentre i cerchi tintinnanti alle orecchie sfavillavano incandescenti sotto la luce al neon: «Oh, Miriam, non preoccuparti, troverai anche il tempo per andare a vedere i tuoi musei».

    «È tutto? Si tratta di questo, Miriam?», la prof non sembrava intenzionata a venirle in soccorso, non aveva evidentemente capito la gravità della situazione. Tecla, l’unica compagna di classe che si salvava dai mefistofelici fumi della depravazione, le rivolse un malinconico sbatter di palpebre: le dispiaceva per lei. Ma non disse nulla.

    Offesa, Miriam chiese di andare in bagno e si chiuse a chiave a piangere.

    Il pomeriggio non andò affatto meglio. Arrivata a casa con il sole confuso tra matasse di nubi sfilacciate, la strada ancora umida dal mattino e il pranzo congelato dimenticato in frigo, gettò zaino e vestiti in un angolo della camera e passò distrattamente davanti allo specchio intenzionata a sciacquare i suoi dispiaceri sotto la doccia.

      Quand’ecco, all’improvviso, la vide.

    Aveva oltrepassato di qualche centimetro lo specchio a muro del primo piano, alto fino al soffitto, quando un impulso la spinse a ritornare indietro e a riposizionarsi davanti alla lastra severa. Il silenzio viaggiava sugli sbuffi impalpabili dei caloriferi accesi, la tendina di pizzo setacciava il sole in penombra soffusa. 

    Meccanicamente si ritrovò a cominciare il quotidiano screening. Aveva i capelli troppo scuri e troppo opachi, su questo ormai non c’era dubbio, ma lei era contraria alle tinte per capelli, erano tossiche e la gente se le faceva per moda. Non rimaneva che tenersi il suo deprimente color topo. Scese soffermandosi con scrupolo sulle spalle troppo strette, il seno tre volte troppo piccolo e infantile, un abbozzo acerbo e forse mai destinato a maturare di un corpo femminile, la vita stretta, i fianchi insopportabilmente generosi. Nulla, non c’era altro da vedere se non una selva di troppo distribuiti a casaccio. Eppure avrebbe giurato di aver visto un’ombra passare sulla sua coscia sinistra così come piegava l’anca per scendere la scala. Riprodusse il movimento senza ottenere risultati, dopodiché, affatto tranquilla, decise di scendere al bagno del piano terra e sottoporre il suo dubbio ai fari impietosi dello specchio sopra il lavandino.

    Ripropose con precisione chirurgica l’esatta posizione dell’anca alzata per scrutinare meglio la superficie della pelle allo specchio. Ed eccola di nuovo lì!

    Una debole ombreggiatura, una linea spezzata e indistinta pari al miraggio di un incubo solo ipotizzato.

    In preda a un panico soffocante si avvicinò ancora di più piegandosi sopra al lavandino, prese la pelle tra le mani, strinse, ma la cellulite era ancora lì. Non erano più le pieghe lisce dell’infanzia, bensì grumi schifosi per quanto appena accennati che le si strizzarono tra le dita.

    Girò le spalle all’infido specchio ed esaminò i glutei, da un’angolazione poi da un’altra, contraendo, saltando: la luce indiretta fasciava qua una pelle liscia e chiara. Brutto, sì, il suo sedere, ma senza cellulite. Sollevò l’altra gamba, strizzò, palpò: anche lì, niente.  Decise di uscire immediatamente dal bagno, ormai si sentiva a disagio, come se dovesse svelarle qualche orribile segreto e non avesse il cuore di farlo. I fari erano diventati occhi indagatori, il rubinetto che perdeva una vecchia bocca petulante pronta a parlare. Ma lei non voleva più ascoltare e uscì a scongelare il pranzo, nervosamente.

    «E così è iniziata», sentenziò tra sé e sé, rievocando stralci di discorsi di guerra pronunciati da condottieri coraggiosi alla prima vista di una lancia nemica sotto il sole in lontananza.

    Prima l’affronto della gita, ora la minaccia della deformazione fisica: il mondo sembrava voler sprigionare la sua potenza corruttiva contro di lei, e non c’era più tempo da perdere.

    Fu così che dopo aver ordinato al microonde di ammorbidire le lasagne, Miriam, con la dovuta solennità temprata a caldo dal rigore dell’urgenza, approntò il suo piano d’azione e iniziò a metterlo in pratica.

    Tanto per cominciare cancellò formaggio e Nutella dalla dieta, riducendo a tre le otto-nove Gocciole della mattina a colazione. Convinta che il setting fosse importante, recuperò dalla cantina un kit di piccoli manubri da due chili per esercizi ginnici, la panca per gli addominali di suo papà e li trascinò in camera da letto, dove li sistemò in mezzo ai cuscini, ai peluche e ai mille ninnoli polverosi a forma di qualche animale o souvenir di viaggi. Strappò lucidamente molte pagine dalla sua rubrica telefonica fino a lasciarne solo una, quella di Tecla, per sancire una chiusura definitiva con tutti quelli che sarebbero risultati inutili o dannosi al suo piano. Scrisse a mano quattro programmi diversi da appiccicare alla testiera del letto, uno scolastico, uno per lo studio di approfondimento personale, che avrebbe perseguito per aumentare la sua conoscenza – l’obiettivo finale era di imparare a memoria un’enciclopedia – uno per iniziare a fare ginnastica in modo serio, perdere peso ed eliminare la cellulite nel minor tempo possibile, e l’ultimo relativo alla dieta, ferrea, per gli stessi motivi.

    Poi giurò davanti all’altare di Tolkien che non avrebbe mai smesso di credere nell’esistenza degli Elfi, che un giorno avrebbe raggiunto. Giurò anche davanti al poster della Val Gardena innevata che si impegnava a difendere la purezza anche su questa landa desolata che era la Terra. Davanti alla finestra spalancata su un sole che tramontava, giurò inoltre che avrebbe sopportato stoicamente le prove di questa vita solo per guadagnarsi a pieno titolo gli onori della prossima, con l’ago si procurò un piccolo taglio sul polpastrello dell’indice destro (l’aveva letto in qualche romanzo) e lo sbavò in modo alquanto approssimativo su un foglio bianco per suggellare quello che doveva apparire come un irrevocabile giuramento da custodire nel cassetto. Infine concluse che le quattro di pomeriggio erano un’ora troppo tarda per mangiare il pasticcio e lo rispedì in frigo a ricongelarsi, afferrò una sana e lucida mela rossa dalla fruttiera e se ne andò in camera a leggere.

    Doveva trovare il senso della vita, doveva farlo da sola, e per essere sicura di non perdersi per strada non aveva altra scelta se non quella di perseguire fino in fondo i suoi sogni in mezzo ai sogni infranti delle migliaia di adolescenti che li avevano venduti al miglior offerente. Doveva tenersi aggrappata ai sogni a cui tutti gli altri rinunciavano crescendo, doveva difenderli con le unghie e con i denti. A costo di sentirsi diversa, unica, e solo grazie a una disciplina perfetta, doveva realizzarli tutti. Non serviva altro che della semplice, buona volontà. Il piano era deciso.

    "10.11.03

    Nove in storia,

    Dal nove al dieci in francese.

    Dall’otto al nove in matematica (conto di recuperare questo voto basso più avanti).

    Dieci in storia dell’arte sul gotico.

    Peso: cinquantatré chili, con poca soddisfazione.

    Non ho molto da dire oggi, se non che la prossima settimana abbiamo provetta di inglese e che devo trovare il modo di inserire anche questo impegno nel mio nuovo programma di studio. Ho perso un chilo ma la cellulite è ancora lì, con mio sommo disappunto. Quello che volevo proporti oggi è un piccolo pensiero profondo: secondo alcune persone la parola scritta è meno efficace di quella parlata. Pensano che dalla scrittura non si possa intuire il tono di voce o il ritmo delle frasi - la prosodia -, che sia più complicato esprimersi davanti a un foglio di carta e che sia poco sensato parlare a un diario che non può rispondere. Io invece mi sto convincendo dell’esatto contrario! Anzitutto penso che la parola scritta non sia contaminata dalle mille piccole deviazioni imposte dai problemi della vita quotidiana e dal modo di parlare di ciascuno e che non sia così sensibile alle preoccupazioni stupide o legata alle faccende pratiche. Insomma, che sia molto più facile organizzare scrivendo i propri pensieri più profondi e dargli un ordine: sto scoprendo che a scrivere riesco a esprimermi molto meglio. In secondo luogo, quando io parlo, nessuno mi ascolta o capisce quello che dico, e se proprio devo ammetterlo, nemmeno io capisco quello che dicono gli altri, e tantomeno mi interessa. Non trovo molto utile condividere i miei pensieri con gli altri, perché i loro feedback, se mai arrivano, sono del tutto scoraggianti. Trovo in te, in queste pagine vuote, un interlocutore perfetto, perché scrivendo rileggendo e ascoltando il tuo silenzio mi sento molto più capita e in grado di capire le cose che non quando apro la bocca per parlare con gli altri. Essi, infatti, denotano una totale incapacità o mancanza di voglia di trovare la giusta sintonia con quello che dico. In conclusione, invece di sprecare il fiato comunicando con gli altri, mi limiterò a condividere i miei pensieri con te, scrivendo. A presto".

    Il tempo passava incredibilmente lento. Benché si sentisse ancora qualche cicala frinire nei cespugli di sommaco, l’autunno sembrava lambire le rocce ruvide del Carso. Faceva increspare la superficie dell’acqua nelle polle del Rosandra giù in valle, ci soffiava sopra il suo alito fresco di Nord-Est, e ogni pomeriggio, quando Miriam chiudeva i libri alle sette, l’ora che la separava dalla cena colava esasperante, goccia a goccia, sullo sfondo blu del cielo gonfio di pioggia, mentre osservava le giornate accorciarsi.  Miriam nel frattempo aveva scoperto un altro angolo di mondo dove potersi rifugiare la domenica senza che nessuno la disturbasse. Si trattava di una caletta naturale, nascosta, a un paio di chilometri dal lungomare di Barcola. Riparata dalle grandi scogliere della costiera a picco, era sempre riscaldata da un vago tepore anche nelle frizzanti mattine autunnali. Ci si arrivava percorrendo i centodue metri di dislivello di una ripida e sconnessa discesa, e l’ultimo dei rustici gradoni consegnava il visitatore a un fazzoletto di sabbia trapuntata di rocce, inumidita dalla risacca. Gli alberi che si arrampicavano sulla scarpata come capre di montagna, nascondevano alla vista la strada, ne respingevano il frastuono riducendolo a un vago brontolio di sottofondo, irrilevante sbavatura ai margini dell’immensità del mare.

    L’autobus tardava.

    Sempre più convinta di aver approntato un buonissimo piano esistenziale, Miriam era impaziente di vederne i primi frutti ma essi, come l’autobus, tardavano.

    Dopo aver scoperto che le piaceva scrivere sul suo diario, avrebbe voluto scrivere il mondo. E invece non poteva scrivere nemmeno una lettera nuova, uno stelo d’erba, un granello di polvere, che non fossero le banalità sconcertanti della sua quotidianità. Ora che aveva deciso tutto, viveva nell’attesa trepidante della svolta. Si aspettava quasi che, come nei cartoni giapponesi, calasse dall’alto un essere dagli strani poteri, uno Shinigami o come cavolo si chiamavano, e le comunicasse che aveva vinto la possibilità di cambiare la sua vita e vivere mille avventure. Poco ci mancava che controllasse la cassetta della posta per vedere se per caso fossero arrivate buste portate da una civetta bianca contenenti l’orario del treno per il binario nove e tre quarti di Hogwarts. Ma, contrariamente alle sue aspettative, sebbene gli esercizi si succedessero agli esercizi, si scavasse gli occhi a forza di studiare, e nonostante si fosse convinta di avere tutti i requisiti necessari per diventare uno dei prescelti delle saghe fantasy, non arrivava nessuna lettera e tantomeno nessuno Shinigami.  Sentiva che mancava qualcosa, come il colore su una tela grigia. In un flash terrificante sul futuro, vide scendere grigia la pioggerellina sottile di fine novembre che cadeva su Milano e vide se stessa mentre stringeva al fianco la sua valigetta ventiquattrore e si infilava nel grande portone scrostato di un palazzo in una via trafficata. Saliva tre gradini resi sdrucciolevoli dalla caligine di anni ed entrava nel suo ufficio a scaldarsi accanto a una stufetta elettrica, i cui fili incandescenti brillavano rossi nel buio come le candele brillano rosse per scaldare gli ebrei in bianco e nero di Schindler. Sarebbe finita così? Tutti i suoi sogni, le sue sensazioni di qualcosa di nuovo, di memorabile, così?

    Quando finalmente l’autobus arrivò e la portò fino alla caletta nascosta, dopo che aveva pagato il suo tributo alla solitudine percorrendo i dieci minuti di gradoni sconnessi, l’attendeva una sgradita sorpresa. Non era sola!

    Con disappunto, dovette rispondere al cenno di saluto abbozzato da un ragazzo seduto in riva al mare un po’ più in là.

    Che ci faceva lì?

    Chi era, cosa voleva?

    Le montò un’irritazione rabbiosa: perché con tutte le calette disseminate tra i seni della costiera, disponibili a ogni ora del giorno e della notte, alcune ampiamente accessibili con l’auto o la bici senza nemmeno dover far lo sforzo di scendere i gradoni, quel tizio con lo zaino Eastpak (il solito - commerciale - zaino Eastpak) e i pantaloni strappati (ormai sembrava offensivo percorrere una strada con i pantaloni interi), doveva scegliere proprio la sua caletta e occuparla?

    Miriam si diresse zigzagando

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