La primavera s'insinuò tra il filo spinato
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Dalla quarta di copertina: Un giorno arrivò un americano che distribuiva carta e buste postali e mozziconi di matita. Rinaldo tenne per un po’ quel foglio giallino tra le mani, cercando la parola con cui iniziare il primo capoverso. Poi cominciò a scrivere: “Cara mamma, sono vivo e sto bene. Ti scrivo da un paese che si chiama Mauthausen”
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La primavera s'insinuò tra il filo spinato - Sergio Emilio Gaetti
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Capitolo I
Voltagabbana
La guerra aveva cambiato le abitudini. Dopo il lavoro gli uomini non passavano più dalle osterie a bersi un bicchiere prima di rincasare, il vino era sparito quasi del tutto. Un po’ perché se ne produceva poco, un po’ perché i contadini molto di quel poco lo tenevano ben nascosto nelle loro cantine. Forse, anche perché a Mussolini il vino non piaceva e se proprio doveva berlo, nei pranzi istituzionali, magari per brindare al corso degli eventi, poi gli procurava bruciori di stomaco. Si narra che il Duce dicesse: «bisogna bere poco. Bisogna mangiare l’uva, come l’umanità ha sempre fatto, prima che quell’ebreo di Noè la facesse fermentare».
I ragazzi giocavano nelle strade o nei cortili con la speranza che la sirena dell’allarme aereo non suonasse così da poter terminare in pace i loro giochi con la palla o saltando nei riquadri del Pampano. Purtroppo, di allarmi in quei giorni ne suonavano molti. Inconsciamente speravano che gli aerei andassero lontano, il più lontano possibile, al di là dell’orizzonte del mare, o delle creste dei monti, in altri posti a far brillare la paura, a far tremare i muri delle case e palpitare i cuori della gente.
Nelle case, le mogli, le mamme, le nonne, stanche dopo ore di coda trascorse in fila già dal mattino presto davanti al forno per avere solo duecento grammi di pane, preparavano la cena. Spesso era l’unico pasto del giorno e le donne cucinavano, con fantasia e invenzione, quei pochi ingredienti ottenuti tramite la tessera annonaria: un foglio colorato che veniva custodito come un bene prezioso, anzi il più prezioso, salvaguardato nel luogo più sicuro e meglio protetto della casa. Era di colore verde per i bambini sino a otto anni, azzurra per gli adolescenti sino ai diciotto e grigia per gli adulti. Teoricamente la tessera dava il diritto ad avere del cibo, prerogativa che però spesso veniva vanificata dalla mancanza delle derrate sulle scansie vuote dei bottegai o più semplicemente dalla mancanza anche del solo pane. Pane nero, fatto di poco grano e di legumi sfarinati, o giallo di granoturco. Se poi mancava pure questo, allora quella tessera dava solo il diritto alla fame.
La piccola borghesia impiegatizia o chi aveva la possibilità di barattare cose con prodotti alimentari, spesso e a caro prezzo, si approvvigionava dai borsaneristi. Queste erano persone con pochi scrupoli, che pur rischiando severe sanzioni, addirittura la pena di morte per i casi più gravi, erano sempre pronte a scambiare una collanina, un anello d’oro o il braccialetto della prima comunione con verdura, frutta, uova, a volte anche la carne o meglio frattaglie, facendoseli pagare anche quattro cinque volte e più il valore di mercato. A tutti quelli senza cose di valore da barattare, restava solo la tessera annonaria e tirare la cinghia.
***
L’8 settembre era un mercoledì, un altro insopportabile afoso giorno di guerra. Sin dalle prime ore di quella giornata, ancora nel cuore della notte, nello spazio etereo, correvano veloci i segnali radio. Erano suoni intermittenti trasmessi tra le coste dell’Italia e quelle della Tunisia a intervalli più o meno regolari in alfabeto morse. Erano messaggi cifrati. Mentre linee e punti, in rapida successione, perforavano come proiettili di piombo le nuvole sul Mediterraneo, le città cominciavano a risvegliarsi. La gente si preparava a riprendere i propri lavori, negli uffici, nelle fabbriche rimaste ancora attive, nelle botteghe o nelle piccole officine artigiane.
Monkey e Drizzle iniziarono a inviarsi messaggi in codice, l’uno dai soffitti affrescati delle stanze romane e l’altro dalle tende bianche nei fragili baraccamenti del campo di Algeri.
Alle 5:35 Monkey inviò un messaggio in cui si diceva che, dati i cambiamenti, il precipitare della situazione e l’esistenza di ingenti forze tedesche nella zona di Roma, non era più possibile accettare l’Armistizio. Gli Americani si infuriarono e risposero subito con una serie di messaggi dai toni anche sprezzanti, accusando il Governo italiano di mala fede.
Verso le 13:00 a Monkey arrivò ancora un cifrato in cui Drizzle diceva: «Oggi è il giorno X e aspettiamo che voi facciate la vostra parte, il mancato annuncio dell’Armistizio per radio alle ore 18:30 di questo pomeriggio sarà considerato dal Comandante in Capo mancato adempimento del solenne impegno già firmato a Cassibile».
Erano le 18:30 quando La voce dell’America
da radio Algeri trasmise il proclama dell’Armistizio letto dallo stesso Comandante in Capo Eisenhower, che rimbalzò su emittenti americane e britanniche, sino ai sospettosi quanto sorpresi tedeschi.
Rudolf Von Rahn, ambasciatore tedesco a Roma, dopo aver captato il messaggio in tempo reale dall’Agenzia britannica Reuters, ne rimase sbigottito. Chiese immediatamente spiegazioni al Generale Roatta, Capo di Stato Maggiore, che con veemenza negò, dichiarando che era una spudorata menzogna della stampa anglosassone. Solo verso le 19:00 il Ministro degli esteri Guariglia lo informò invece dell’Armistizio firmato dall’Italia.
Già qualche ora prima a Roma all’indirizzo del Governo era arrivato attraverso un fono con il testo dell’armistizio che sarebbe stato letto pubblicamente alla radio. Era cifrato, e cifrato rimase ancora dopo che fu trasmesso da radio Algeri.
Così, mentre tutta quella parte del mondo che aveva potuto ascoltare il comunicato radio conosceva la resa dell’Italia, a Roma, nella riunione del Consiglio della Corona, alla presenza del Re, dei Ministri Militari e dello stesso Badoglio, di quel messaggio non se ne sapeva ancora nulla. Un Maggiore irruppe nella sala della riunione e con voce rotta sia dall’affanno per aver corso che dall’emozione, gelò tutti i presenti, riferendo che, già da un’ora, il comunicato dell’armistizio era stato letto alla radio. Tornare indietro era quindi impossibile.
Solo allora il Re decise di mantenere l’impegno sottoscritto e di proclamare l’Armistizio. A Badoglio non restò che fare la sua parte, annunciandolo agli italiani, ai civili e ai combattenti sui vari fronti.
Al direttore del SIM, Servizio Informazioni Militari, era stato ordinato di predisporre un collegamento diretto tra la sala del Consiglio e l’Eiar per poter dare lettura del comunicato dell’Armistizio, ma non si riuscì a realizzare la connessione e il Maresciallo Badoglio dovette recarsi di persona nella sede della radio in via Asiago. Pallido e affranto, arrivò negli studi della Eiar verso le 18:50; era in abito grigio con cappello floscio, accompagnato dagli uomini della scorta. Tra questi spiccava la sua guardia del corpo: un ragazzo giovane, alto, vestito di grigioverde, armato con pistola di ordinanza e due Stielhdgranate 24 (due bombe a mano, dette schiacciapatate), che gli faceva anche da autista.
L’usciere addetto alla portineria di via Asiago se ne stava annoiato e sonnacchioso dietro il suo bancone di mogano, visto anche il poco personale che circolava a quell’ora negli studi radiofonici, quando si trovò improvvisamente davanti Badoglio e il suo seguito. Appena realizzò chi aveva di fronte, muovendosi un po’ goffamente, ma in fretta, prese il telefono e chiamò il signor Grassetti, un tecnico del suono, al quale disse farfugliando che davanti a lui c’era il Maresciallo Badoglio. Grassetti era la persona che di solito accompagnava negli studi radiofonici gli onorevoli e i gerarchi quando andavano in onda a leggere i loro comunicati. Di corsa prese le chiavi della sala, dove abitualmente questi personaggi venivano accolti, una bella sala in cui anche i tavoli erano ricoperti di velluto rosso. Arrivato poi in portineria, garbatamente li fece accomodare nella sala e poi di corsa si avviò verso la regia.
Passando davanti alla sala annunciatori, vide lo speaker Giovanni Battista Arista, che avrebbe introdotto e annunciato la lettura del comunicato. Grassetti si affrettò ad accendere gli apparati di trasmissione. Allora le valvole termoioniche che permettevano di potenziare il segnale radio avevano bisogno di essere riscaldate per qualche minuto. Così, poco dopo, avviato il collegamento, sentì Arista chiedere al Maresciallo, com’era consuetudine, se voleva, una volta finita la lettura del comunicato, mettere in onda della musica sinfonica oppure una marcia militare. Il Maresciallo, senza neanche guardarlo in faccia, bruscamente rispose: «metta quello che vuole».
Arista allora si pose davanti al microfono, Grassetti sfumò lentamente la voce in onda di Gino Bechi che stava cantando la canzone C’è una strada nel bosco. Il suono si affievolì sino a dissolversi e a quel punto gli fece un segno. Con voce neutra e pacata, modulando il tono allo sventurato momento, Arista disse: «interrompiamo la trasmissione per trasmettere un annuncio importante; parlerà il Maresciallo Pietro Badoglio».
Dopo pochi secondi, Badoglio ruppe il silenzio e con voce abbastanza ferma lesse il comunicato dell’Armistizio.
Erano le 19:45 dell’8 settembre 1943. L’ascolto della trasmissione per molti fu casuale, anche se quell’ora era ritenuta quella di maggior ascolto. Chi riuscì ad ascoltarla si illuse che la guerra fosse finita. La gioia pervase i cuori anche dei meno sensibili, suonarono le campane e, con i battiti nel petto e i rintocchi negli orecchi, la gente scese nelle strade e invase le piazze.
Cessò l’oscuramento e finalmente nelle case si spalancarono le finestre e si accesero le luci dei lampadari. Molti strapparono le tessere fasciste. Dopo 1.184 giorni si usciva inaspettatamente dalla guerra.
Nei comandi militari e sui fronti invece ci fu grande sorpresa e turbamento, poi si passò allo sconforto e all’incertezza. Ci fu molta confusione e tutti si sentirono un po’ allo sbando.
Capitolo II
Arsenale di Piacenza
Rinaldo era in quel di Piacenza, vi era dal 13 agosto 1942, aggregato al 4° Reggimento di Artiglieria d’Armata; la sua famiglia, la mamma Emma, il fratello Aldo con la moglie e i figli, era sfollata in Toscana, a Pari, un paese a una quarantina di chilometri da Siena. Nulla sapeva di suo padre Adolfo.
In caserma, con la velocità con cui solo le brutte notizie sanno diffondersi, si seppe subito del comunicato di Badoglio. Rinaldo rivolgendosi al suo amico Beppe, come lui alpino artigliere, disse: «pensi che questa sia la volta che torniamo a casa?»
«Mi sembra un gran casino, mi chiedo solo cosa faranno ora i tedeschi… non sarà così facile mollare questa divisa».
«È dal maggio del ‘38 che la porto, mi sembra l’unico vestito che in vita mia abbia indossato, ma la speranza di toglierla, ti giuro, non mi fa venire il magone. Anzi l’idea di tornare a casa mi fa ritrovare il buonumore, pur in mezzo, come dici tu, a questo casino».
«Vediamo quel che succede in queste ore Ri e poi, forse, capiremo meglio».
In caserma c’era tensione, attesa e un’opprimente cappa d’aria umida. Tutti si sforzavano di fiutare cosa stava succedendo e cosa sarebbe successo di lì a poco. La notte fu lunga, nella palazzina del comando le luci non si spensero mai. Tutti erano alla ricerca di informazioni, di segnali, di conferme o di disdette, tutti erano rivolti a comprendere cosa fare e come muoversi. Sui tavoli del comando, pieni di carte, non circolavano solo gli ordini o le memorie scritte, ma anche direttive che, per paura venissero scoperte dai tedeschi, non vennero messe nero su bianco. Sul comando pesava tutta la responsabilità delle decisioni senza potersi confrontare con chi avrebbe dovuto avallarle.
Roma non era solo lontana oltre i monti dell’Appennino tosco-emiliano, Roma era assente, tanto che neanche un piccione viaggiatore dell’esercito avrebbe potuto raggiungerla; Roma, come un’affascinante signora, nascondeva il suo volto sotto i rombi delicati di una veletta nera.
Invano, il Comandante della zona militare di Piacenza tentò di contattare per telefono lo Stato Maggiore. Alzò e abbassò un gran numero di volte la cornetta, qualche volta posandola garbatamente sull’apparecchio, altre sbattendola violentemente, imprecando poi in stretto dialetto calabrese, così che nessuno potesse capire bene le sue imprecazioni. I centralini romani non rispondevano, forse perché intasati dalle chiamate, tutte in cerca di ordini o di chiarimenti.
Allora il comando cercò di interpretare le disposizioni emanate dallo Stato Maggiore dell’Esercito il 30 luglio. Erano tutt’altro che vaghe, riguardavano i comportamenti da tenere in caso di ritiro dalla guerra. Si ordinava di reagire e opporsi con la forza a tentativi dei tedeschi di impossessarsi dei punti vitali e di garantirne il controllo. Si disponeva di intensificare la vigilanza degli obiettivi più importanti, ma nessun riferimento fu mai fatto sulla eventualità di un Armistizio. Dallo Stato Maggiore arrivarono altri ordini, poi ancora memorie e promemoria a completamento di quelle precedenti, precisando che le truppe italiane non avrebbero rivolto le armi contro i tedeschi se non fossero state oggetto di violenze. Erano direttive generiche, contraddittorie, che si dimostrarono inefficaci e contribuirono a confondere e a rendere ancora più indecisi i comandi sul da fare.
Il Comandante Assanti era un generale cinquantanovenne, richiamato dalla riserva nel 1942. Sebbene militare di carriera, era laureato in chimica pura, con diploma in farmacia, quindi portato a ragionare scientificamente, pragmaticamente, su elementi concreti. Seduto al suo tavolo continuamente si metteva e si toglieva i suoi occhiali, formati da una stratificazione di lenti trattenute da una sottile montatura di acciaio dorato. Leggeva e riguardava le carte con un atteggiamento di comprensibile perplessità e di sofferto sconforto. Quelle carte generavano solo la confusione, ma alle truppe presenti nella Cittadella non bisognava trasmettere nessun segnale di sbandamento, bisognava dare a tutti indizi che le cose fossero ancora perfettamente sotto controllo. In caserma tutti restarono in attesa di disposizioni.
Rinaldo si sdraiò sulla sua branda. Sapeva che non avrebbe dormito. Da tempo poi non sognava o almeno non se ne ricordava al risveglio; soltanto di qualche sogno erotico, raramente, restava traccia. Allora, nell’attesa che portava al sonno, spesso pensava a Romilde, una ragazza di via Montaldo che gli piaceva proprio tanto. In realtà non era neppure amico di Ro (così la chiamavano amici e conoscenti), anzi la conosceva solo di vista: sapeva solo in quale palazzo della via abitava, chi era il padre, la madre e che soprattutto non aveva fratelli gelosi. Tutte le mattine Ro, per recarsi al lavoro, passava sempre puntuale alla stessa ora davanti al suo portone per andare alla fermata del tram. Rinaldo ben si guardava dall’oltrepassare quella soglia di ardesia grigia, l’aspettava, per incrociare il suo sguardo e cambiare solo un imbarazzato cenno di saluto muovendo la testa. Si accontentava di spiccioli di attenzione, anche perché lei era più grande di un paio di anni e proprio non lo considerava. Ro gli piaceva, oh! se gli piaceva. Era alta anche senza tacchi, capelli neri e un seno stimato, a suo dire, della quarta misura, ma soprattutto sulle zeppe di sughero si muoveva con accortezza felina, sinuosa, ma mai volgare e il suo corpo, a chi con malcelata indifferenza la guardava, spandeva tentazioni. I pensieri di Rinaldo si fermavano qua e poi di solito arrivava il sonno che li scacciava, ma quella sera, tanta era la sua tensione e la preoccupazione, che nulla riusciva a distoglierlo dalle sue ansie, neanche immaginandosi Romilde.
Anche Beppe si rigirava nella coperta in cerca di un po’ di sonno. Finì, con gli occhi spalancati, per sedersi sul bordo della sua branda. Cercò qualcosa per distrarsi, trovò in una tasca quel po’ di più che rimane di un mozzicone di sigaretta e lo accese. Sbuffando poi nervosamente il fumo verso l’alto si rivolse a Rinaldo: «anche tu non dormi? Sai, ho paura che domani i tedeschi si facciano vivi. Quelli non ci mollano mai, chi sa cosa decideranno i nostri capi in queste ore…»
«Se quelli arrivano ci fanno prigionieri e chissà dove ci sbattono, magari in Germania, sperando che non ci facciano fuori subito».
«Eh! Come sei pessimista».
«Che vuoi che ti dica Beppe, dopo cinque anni di servizio militare, ora sono in un posto dove non so cosa succederà nel prossimo quarto d’ora e dove vorrei che questa notte non finisse mai perché il giorno temo che porti solo sciagure. Cinque anni trascorsi sempre in mezzo a divise, a muli, a gente che si incazza perché non gli firmano i permessi per andare a casa. Non mi sembrava così complicato avere una vita normale, un lavoro, degli amici, frequentare qualche ragazza, magari… innamorarsi».
«Eh! Innamorarsi, è una parola grossa».
«L’amore è un sentimento che non conosco, dicono che innamorarsi sia travolgente. Caro Beppe, sì! Questa notte sono pessimista, prima la guerra ai francesi, che poi non mi sono neanche antipatici, invece ora devo temere i tedeschi, che sono anche i nostri alleati o lo erano. Chissà, quando diventeremo normali?»
«Ri, ora pensiamo a salvarci le palle e la pelle, poi penseremo a come riprenderci la vita, l’amore e tutte le cose che hai detto. Vedrai che ce la faremo, non ci sarà rimpianto».
Erano le undici di sera, il Generale era stanco e psicologicamente provato dall’inutile frenetico lavorio di quelle ore. In maniche di camicia dopo aver abbandonato la giacca della sua divisa su una sedia, cercò ancora di contattare telefonicamente Roma ma non ci riuscì. Intanto prese a circolare una voce su possibili scontri in corso con i tedeschi, ma neanche su questa ottenne una conferma.
Era già il 9 settembre quando dal Comando Supremo arrivò un fono diretto a tutti i Comandi con cui si comunicava che non doveva essere intrapresa nessuna iniziativa o atto ostile contro i tedeschi. Il Generale confidò al suo vice colonnello Paleari che riteneva i soldati impreparati anche psicologicamente a volgere le armi contro quelli che consideravano ancora i loro alleati: cambiare d’improvviso la direzione del fuoco non sarebbe stato poi così facile. La notte andò avanti bevendo caffè di cicoria, poi tirò fuori dal cassetto, l’ultimo quello più in basso, che non apriva mai, una bottiglia di grappa e rivolgendosi al suo vice gli disse: «Non so perché l’ho conservata per così tanto tempo, certamente perché non sono un gran bevitore e l’ho dimenticata lì dentro, o forse per berla in un’occasione speciale. Questa è una notte speciale? Non lo so, e se lo fosse non è come la intendevo quando l’ho comprata. Tuttavia, prima che se la scoli qualche Generalmajor, beviamola noi e poi non ne posso più di questo caffè di cicoria».
Prese due bicchieri che stavano sul tavolo ancora pieni d’acqua e li svuotò, cacciando l’acqua nella brocca di vetro che stava sulla scrivania, poi versò la grappa, abbondando, e porse il bicchiere al suo vice: «Non c’è nulla a cui brindare Paleari, la mandi giù e buona fortuna!»
Si sedette poi alla sua scrivania, in silenzio, guardando in alto il soffitto bianco, appoggiò la testa sulle carte sparse sul piano di lavoro e si assopì per la stanchezza, per la tensione accumulata e anche per l’effetto dell’alcol a cui non era abituato.
Fu svegliato bruscamente quando il colonnello entrò quasi di corsa nel suo ufficio, tenendo in mano un fonogramma: «È arrivato adesso dal Comando Supremo!»
Energicamente glielo pose sulla scrivania, invitandolo perentoriamente a leggerlo. Assanti cercò gli occhiali sotto le carte, li inforcò mentre con l’altra mano cercava la tazza con il caffè. Era il fonogramma n.16733 del 9 settembre trasmesso alle ore 6:39 con il quale il Comando Supremo avvertiva che il Governo e lo stesso comando avrebbero lasciato Roma per Pescara seguiti dai Capi di Stato Maggiore.
Si lasciò cadere a peso morto sullo schienale della poltrona di pelle marrone, portò la mano destra verso la fronte, si tolse gli occhiali e per qualche istante né lui né il suo vice dissero una parola. Ricomponendosi risistemò gli occhiali sul naso e rilesse nuovamente quel fono, parola dopo parola, lentamente, senza fretta, cercando anche di afferrarne il senso meno esplicito. Poi alzò sconsolato la testa e guardando fisso negli occhi Paleari disse: «siamo lasciati al nostro destino».
Capitolo III
Beppe
Era l’alba del 9 settembre. Il Generale aprì la finestra e respirò l’atmosfera pulita di quel primo mattino. L’aria nella pianura era già pungente e un leggero velo di nebbia appannava la luce del sole nascente. Subito al Comando arrivò la notizia che unità corazzate della Wermacht sarebbero state pronte a partite dal campo di aviazione di San Damiano, per poi percorrere la direttrice posta tra il fiume Trebbia e la via Emilia e predisporsi per sferrare un attacco al Presidio di Piacenza.
Assanti, dopo quella notte trascorsa piena di dubbi, di vanificate speranze e di quella solitudine che coglie nel momento di assumere le decisioni importanti che fa sentire una persona fuori da qualsiasi insieme, cercò subito conferma di quell’informazione. Gli relazionarono che la notizia era fondata. Fece alcuni passi nella stanza con le mani infilate nelle tasche dei calzoni, poi si girò di scatto, come se qualcuno gli avesse ordinato di fare un dietrofront, guardò il suo vice che pendeva dalle sue labbra e gli disse: «Colonnello, le bandiere non sventolano mai di notte, ordini subito l’alza bandiera e prepariamoci a resistere».
Schierarono i reparti per respingere l’azione dei tedeschi, misero in campo due reggimenti di fanteria, uno di artiglieria, uno di carristi, uno di pontieri, uno della Scuola artificieri dell’Arsenale, un battaglione territoriale e uno della Sanità.
Rinaldo e Beppe con i loro compagni artiglieri, che speravano di ritornare a casa, delusi e anche po’ impauriti, vennero impiegati presso il ponte sul Trebbia. I tedeschi, avanzando velocemente con i loro panzer, sembravano ancora più determinati e cattivi del solito. Dalla loro posizione, li videro scendere lungo la sponda del fiume.
«Te lo dicevo, Rinaldo, che questi non ci mollano mai: oggi sembrano anche più incazzati e goduti di poter sparare sugli italiani».
«Vorrei vedere te, se fossi andato a dormire alleato e ti fossi svegliato nemico! Ora si che siamo in un bel casino».
«Ci ordineranno di sparare?»
«Penso che il primo colpo sarà il loro, nessuno ci ordinerà di sparare per primi, ci scommetterei».
Furono dieci ore di combattimenti e di inutile resistenza. Alla Galleana, presso il ponte della ferrovia sul Po, rimasero uccisi quattordici soldati, mentre nella zona di Rottofreno ci furono altri ventisette morti militari e cinque civili.
Rinaldo, Beppe e i loro compagni sul Trebbia furono circondati dai carri armati e si dovettero arrendere. Al Generale Assanti furono fatti pervenire dai tedeschi chiari messaggi con la minaccia di bombardare la città con gli aerei di stanza a San Damiano, se non si fossero arresi, se non avesse accettato di fermare quella perdente resistenza.
Dichiararsi vinti fu un’altra pesante decisione da prendere, ma questa volta c’erano in ballo tante vite da preservare e già molti morti da seppellire. Accettò la resa e il generale Peiffer entrò in Piacenza occupando la caserma della IV Artiglieria e l’Arsenale. Rinaldo e l’amico Beppe vennero catturati con tutta la loro compagnia, che per fortuna non ebbe morti, e portati in caserma insieme a molti altri.
La sera di quel 9 settembre si ritrovarono chiusi nella loro camerata, ma questa volta da prigionieri. I dubbi della sera prima si erano sciolti. Se la vittoria era dubbia, mai la sconfitta fu così certa, ma altre incertezze ancora più illeggibili si affacciavano all’orizzonte di domani, la certezza, che non c’era neanche più un mozzicone di sigaretta da fumare. Il rancio, quella sera, non venne distribuito. Nelle camerate controllate dall’esterno dai tedeschi armati si parlava sottovoce e sommessamente. Beppe aveva il