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I diavoli di Bargagli: La seconda indagine del banchiere milanese Raoul Sforza
I diavoli di Bargagli: La seconda indagine del banchiere milanese Raoul Sforza
I diavoli di Bargagli: La seconda indagine del banchiere milanese Raoul Sforza
E-book517 pagine7 ore

I diavoli di Bargagli: La seconda indagine del banchiere milanese Raoul Sforza

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Info su questo ebook

Raoul Sforza, banchiere milanese, è un personaggio eccentrico e sprezzante, amante del lusso, dell’arte e della musica. Specializzato nell’ordire intrighi finanziari e nel ricattare uomini che ricoprono ruoli chiave nelle istituzioni dello Stato, Raoul conduce una vita lontano dai riflettori, dividendosi fra la sua antica dimora milanese che sorge nel cuore di Brera e l’amata Bonassola. La sua presenza non passerà inosservata quando sarà costretto, suo malgrado, a far luce su una lunga scia di misteriosi omicidi che dal 1945 insanguina Bargagli, borgo dell’alta Val Bisagno, nell’entroterra genovese. Aiutato da Diego Casazza, spiantato giornalista di cronaca locale, Sforza affronterà la cosiddetta vicenda del “mostro di Bargagli” che per decenni ha terrorizzato un’intera comunità. Forte di un innato cinismo, indifferente ad ogni tipo di morale, il “banchiere nero” sarà in grado di far emergere, dopo più di cinquant’anni di omertà e di silenzi, verità inconfessabili.

Ippolito Edmondo Ferrario, classe 1976, è uno scrittore milanese. Si è occupato dello studio e della divulgazione della Milano sotterranea attraverso numerosi saggi. Ha scritto libri sull’epopea dei mercenari italiani nelle guerre post-coloniali e biografie inerenti agli anni di piombo. Ha pubblicato per Ugo Mursia Editore, Castelvecchi Editore, Newton Compton Editori, Ritter e Ferrogallico. Con Il banchiere di Milano (Fratelli Frilli Editori, 2021) ha dato vita al personaggio del “banchiere nero” Raoul Sforza, protagonista di una serie di romanzi. Per Fratelli Frilli Editori ha scritto: La Gorgone di Milano (a quattro mani con Gianluca Padovan) e Ultimo tango a Milano.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2022
ISBN9788869435973
I diavoli di Bargagli: La seconda indagine del banchiere milanese Raoul Sforza

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    Anteprima del libro

    I diavoli di Bargagli - Ippolito Edmondo Ferrario

    Capitolo I

    Il partigiano Mario

    Uscio, Val Fontanabuona. 27 aprile 1945

    Mario, acquattato dietro al grande albero di castagno dal fusto alto e dalla corteccia gibbosa, percepiva i battiti del suo cuore alla stregua di un rullo di tamburo a cui non poteva sottrarsi. Il suono incessante e ritmico, proveniente dal suo petto, gli rimbombava arrivando fino alle tempie. Quel giorno il sole era già alto, ma lì, nel profondo del bosco, faceva ancora freddo. L’aria era pungente, specie durante le prime ore del giorno e al calar della sera. Il fitto intrico di rami e foglie schermava la luce, soffocandola tra le chiome e affievolendola prima che giungesse a terra. Addirittura, in alcuni punti di quella secolare selva era come se il giorno avesse ceduto il passo ad un eterno crepuscolo.

    Il ragazzo si sforzava di mantenere la calma, di controllare il naturale senso di paura, simile ad un mucchio di pietre, che lo teneva ancorato a terra, quasi schiacciato. Con le mani impugnava saldamente lo Sten, sentendone il freddo del copricanna traforato che teneva con la mano sinistra. La destra era pronta a sparare, con l’indice sul grilletto. Abbondanti rivoli di sudore gli scendevano lungo la schiena formando un alone scuro sulla camicia. Era spaventato, proprio come le altre volte in cui si era ritrovato nella medesima situazione. Al tempo stesso era consapevole che nel momento in cui sarebbe iniziata l’azione ogni indugio sarebbe scomparso. Il suo senso del dovere era più forte di ogni tentennamento.

    Sapeva di essere lì in appoggio ad altri che avevano i suoi stessi ideali, partigiani come lui. Quando c’era da dare una mano non si tirava mai indietro. Anche quella volta si era offerto volontario.

    Raggiunta la posizione, l’attesa era sempre la stessa, lunga e snervante, tanto che si rischiava di perdere la cognizione del tempo. Insieme ai suoi compagni era giunto lì alle prime luci dell’alba. Si erano incontrati con un altro partigiano, uno di Bargagli, nome di battaglia Barba, che avrebbe dovuto coordinare l’azione. Mario si era offerto di parteciparvi. Doveva essere un’imboscata a truppe tedesche in fuga, ormai allo sbando. Non era neppure cosa certa che sarebbero passati da quella strada, ma quelli che da Bargagli coordinavano l’azione avevano stabilito che alcuni uomini si posizionassero lì a Uscio, nel caso che la colonna si dividesse o si verificasse qualche imprevisto. L’ordine era quello di arrestarne la fuga a qualsiasi costo.

    In quella febbricitante attesa Mario ebbe modo di ripensare a tutto quello che era accaduto in quegli ultimi giorni durante i quali le forze di liberazione avevano lanciato la loro controffensiva finale.

    Dopo due anni passati in uno stato di semi isolamento, combattendo e cercando di sopravvivere in montagna, la vittoria era prossima. Le voci che arrivavano dalla vicina Genova parlavano di una città in cui tedeschi e fascisti avevano le ore contate. Le attività di sabotaggio e di guerriglia da parte delle formazioni partigiane si erano infatti intensificate e da un momento all’altro sarebbero arrivati gli Alleati. Le poche formazioni rimaste fedeli alla Repubblica Sociale Italiana rimanevano sul campo, ma non avevano più la capacità operativa di un tempo. Tra i partigiani della Val Bisagno c’era un’euforia mai vista prima.

    Il 23 aprile era dunque scattata la più grande operazione mai messa in atto dalla Resistenza, che avrebbe poi generato un’insurrezione di massa. La Brigata Balilla era stata la prima ad entrare in città, nella zona di Sampierdarena. Contemporaneamente le linee telefoniche e della corrente elettrica erano state fatte saltare per isolare la città. Le truppe di occupazione avevano risposto prontamente, ma l’attacco partigiano era perfettamente riuscito anche grazie al coraggio della popolazione.

    I camalli del porto, mettendo a rischio la loro stessa vita, si erano adoperati per disinnescare gli ordigni che i tedeschi erano pronti a far brillare per distruggere le infrastrutture portuali. Il capitano di vascello Max Berninghaus, che comandava la zona marittima, era pronto a qualsiasi azione pur di non cedere il terreno ai ribelli.

    In città si verificarono aspri scontri che proseguirono per tutta la durata del giorno successivo. Il porto però rimaneva uno dei primi obiettivi dei partigiani. Si combatteva quartiere per quartiere, strada per strada, spesso nella più totale confusione. Sempre nella giornata del 24 aprile il carcere di Marassi venne preso, permettendo la liberazione dei detenuti politici che si unirono subito all’insurrezione. Nella notte tra il 24 e il 25 aprile i partigiani rimasti sulle alture riuscirono ad avere la meglio sulle ultime postazioni tedesche insediate nei forti, impedendo loro di usare l’artiglieria. Il 25 aprile fu la giornata decisiva. Le forze tedesche superstiti erano completamente accerchiate ed impossibilitate alla fuga verso il Piemonte. A quel punto, il CLN ed il cardinale Boetto, in autonomia ma in pieno accordo, interpellarono il generale Günther Meinhold, comandante di tutte le truppe tedesche presenti in città. La resa dipendeva soltanto da lui. Alle 19:30 dello stesso giorno l’ufficiale tedesco la firmò a Villa Migone. Il dispaccio, indirizzato a tutti gli ufficiali, venne diffuso via radio dallo stesso generale alle 4:30 del mattino successivo. Nelle ore seguenti la maggior parte dei tedeschi si arrese. Solo pochi irriducibili tentarono ancora di combattere. In serata però la città era sotto il pieno controllo dei liberatori, mentre le prime avanguardie militari alleate vi entravano, stupite dall’ordine che già vi regnava.

    Mario si sentiva testimone di accadimenti più grandi di lui, cambiamenti ai quali aveva deciso di partecipare in prima persona. Dopo che suo fratello maggiore non era più tornato dal fronte russo, di fronte alla chiamata alle armi aveva preso la decisione di darsi alla macchia.

    Nel novembre del 1943 non si era presentato agli uffici di reclutamento della Repubblica Sociale Italiana ed era salito in montagna. Dalla natia Genova, in cui viveva con la famiglia, si era unito alle consistenti forze partigiane che operavano in Val Bisagno. Si era aggregato ad un gruppo di altri giovani come lui, quasi tutti genovesi, che combattevano agli ordini del comandante Aldo Gastaldi, nome di battaglia Bisagno. C’erano renitenti alla leva, universitari, qualcuno più anziano che aveva combattuto sui fronti ed era tornato. Tra quelle montagne a lui sconosciute, Mario aveva trovato una seconda famiglia, uomini con i suoi stessi ideali di libertà e di giustizia, determinati a non arrendersi. Gli inverni del ’43 e del ’44 erano stati durissimi. La vita in montagna si era rivelata estremamente difficile per i ribelli, ma grazie alla coesione con i propri compagni anche i momenti peggiori erano stati superati. Il gruppo di Mario operava nell’alta Val Bisagno, con qualche puntata fino al monte Antola o in Val Trebbia. Avevano sempre goduto dell’appoggio della popolazione civile stremata dagli anni della guerra. In ogni paese o frazione potevano contare sull’aiuto di qualcuno. Avevano vissuto nei boschi, in casoni abbandonati, in vecchi seccatoi. Durante i pochi, ma intensi rastrellamenti, avevano imparato a utilizzare giacigli di fortuna, a spostarsi rapidamente, senza mai rimanere più di un giorno nello stesso posto. Del gruppo di Mario, composto da una ventina di uomini, solo in tre non ce l’avevano fatta. Raggiunti dai tedeschi supportati dagli alpini della Divisione Monterosa che operava in zona, erano stati catturati e fucilati nel bosco della Tecosa, vicino a Bargagli.

    Ora che Genova era stata liberata e la guerra era finita, la consegna che Mario aveva avuto era stata di rimanere ancora in montagna, per sicurezza. In quelle ore di attesa, però, era giunta la richiesta di partecipare a quell’azione mirata a bloccare la colonna in partenza da Recco.

    Ora Mario era lì, trepidante, pronto ad entrare in azione per l’ultima volta, determinato a compiere il suo dovere fino in fondo. Avevano munizioni a sufficienza e alcune bombe a mano. Si erano appostati in un punto adatto dal quale potevano controllare la strada e verificare l’entità delle truppe.

    Quando Giovanni fece due brevi fischi, Mario si preparò. Abbandonò il suo nascondiglio, rimanendo al riparo della vegetazione. Anche gli altri accanto a lui si mossero, guardinghi. Giovanni fece cenno di avvicinarsi per osservare. Con sorpresa si accorsero che un solo mezzo stava sopraggiungendo dalla valle. Era un camion tedesco che procedeva a bassa velocità, incerto, come se il guidatore non fosse sicuro della strada. I partigiani non esitarono. Quando fu a portata di tiro lanciarono le prime bombe a mano, che esplosero a pochi metri dal mezzo. Una colpì la parte anteriore del veicolo, distruggendone la gomma. Il guidatore frenò, sbandando vistosamente. Il camion si fermò di traverso, messo fuori uso dall’assalto. Seguì uno sventagliare di mitra, raffiche brevi contro il muso e verso il cassone posteriore. Un gruppo di assalitori prese di mira proprio il retro-telonato, temendo che a bordo vi fossero soldati in grado di rispondere al fuoco. In realtà non c’era nessuno: a bordo stavano solo l’autista e altri due accompagnatori. Il crepitio dei colpi cessò quasi subito. L’aria si era fatta acre per l’odore della polvere da sparo e per le deflagrazioni.

    Fu Barba a prendere di petto la situazione. Puntando il suo mitragliatore Breda modello 1930 contro gli occupanti, urlò loro di scendere. Si esprimeva in un tedesco elementare, ma efficace. Conosceva poche parole, ma utili in quei frangenti.

    I tre soldati della Wehrmacht non avevano l’aria di chi volesse tentare una reazione. Erano frastornati e miracolosamente illesi, ma consapevoli che la loro fuga era finita. A parte le pistole che tenevano nei cinturoni, non avevano altro con cui difendersi. Se fossero stati elementi delle famigerate Waffen-SS non ci sarebbe stato da fidarsi, ma quelli erano soldati allo sbando che volevano solo portare a casa la pelle.

    I tre scesero dal mezzo alzando le mani. Barba, che era poco più di un ragazzo, ma aveva già avuto il suo battesimo del fuoco, li fece sdraiare a terra. Con l’aiuto degli altri li disarmò e ordinò di tenerli sotto tiro. Poi saltò sul retro del camion per perquisirlo. Voleva essere da solo per verificare che l’informazione giuntagli qualche giorno prima fosse corretta. Trovò due casse, e ci mise poco ad aprirle. Alla vista dell’interno, fu colto da un senso di stupore. La prima cassa conteneva oro: lingotti, monete, gioielli di ogni tipo. Una quantità di metallo prezioso mai neppure immaginata in vita sua. Si trattava di parte dei beni che tedeschi e fascisti avevano requisito agli ebrei durante gli anni dell’occupazione di Chiavari e delle zone limitrofe. L’altra cassa non era da meno: in essa erano riposte ordinatamente intere mazzette di banconote insieme a sterline d’oro. Quei soldi erano appartenuti alla brigata nera Silvio Parodi. Si diceva che fossero una sorta di tesoro accumulato e usato dai militi della Parodi per elargire ricompense a spie e delatori.

    Barba richiuse soddisfatto le casse e ne organizzò immediatamente il trasferimento. Mario, insieme ad un altro, rimase di guardia ai soldati tedeschi catturati che non sembravano intenzionati a reagire. Stavano lì, immobili, gli occhi a terra, in attesa del loro destino. Mentre gli altri calavano a terra le casse, una di queste per poco non cadde. Il coperchio, già rimosso da Barba, si spostò rivelando le banconote. Fra i presenti calò il gelo. Gli sguardi erano increduli. Barba intervenne con fare deciso, consapevole di incutere un certo timore.

    «Che avete da guardare?!? Questa roba è carta straccia, fuori corso» sbraitò, prendendo alcune banconote e stracciandole davanti agli altri. «Dobbiamo portarla a Bargagli. Vogliono che si bruci tutto, su al comando. Non statevene con le mani in mano. Togliamole da qui!» disse con fare imperioso.

    Mario, che non aveva visto niente perché si trovava davanti alla parte anteriore del camion, udì però gli ordini. Comprese che avevano trovato qualcosa di importante che andava portato lontano, in un posto sicuro. Il gruppo si preparò a sgombrare la strada.

    «E di questi cosa ne facciamo? Li consegniamo agli alleati?» chiese Mario, incerto sul da farsi: forse avrebbero dovuto portarli prima a Bargagli e da lì a Genova, oppure direttamente in città, o al primo punto di controllo alleato.

    Barba fece un ghigno. Guardò meglio i tre. Dimostravano una trentina d’anni o poco più.

    «Agli americani, dici? Non c’è fretta. Adesso ci daranno una mano a portare le casse a destinazione. Poi vedremo se divertirci un po’ con loro...» fece lui, alludendo alla possibilità di torturarli. Uno dei tre, che capiva e parlava l’italiano, chiese che li consegnassero al comando americano.

    Barba scoppiò in una risata sguaiata. Mario, invece, non riusciva a trovare nulla di divertente in quella situazione. Voleva comportarsi da soldato, non da aguzzino.

    «Zitti. Fate quello che vi dico e non vi succederà niente» tagliò corto Barba.

    I tre non ebbero scelta. Afferrarono le casse, aiutati anche da due partigiani, e si misero in cammino. Imboccarono un sentiero che saliva nel bosco. Barba era in testa, fucile mitragliatore a tracolla, seguito dagli altri. Dopo una ventina di minuti giunsero ad una vecchia casa abbandonata.

    La famiglia che l’abitava era stata portata via dai tedeschi qualche mese prima con l’accusa di aver aiutato i partigiani. Barba fece sistemare le due casse nella stalla vuota, adagiandole sulla paglia rimasta, là dove un tempo c’erano tre mucche e qualche gallina. Anche gli animali erano stati portati via. Barba si accese una sigaretta e stabilì i compiti. Guardò Mario con uno strano sorriso.

    «Visto che ci tieni tanto a consegnare questi tre maiali agli americani, mi sta bene. Te ne starai qui a guardarli insieme a me. Sappi però che se tentano di fare i furbi li ammazzo» disse con aria sicura di sé. A Mario stava bene.

    «Voialtri andate al bosco della Tecosa. Riferite a Donnola e a Libero che ho due casse, ma che devono venire qui a prenderle. Siamo intesi?».

    Nessuno dei presenti si oppose alla richiesta. L’azione era terminata velocemente e senza alcuno spargimento di sangue. Ormai tutti avevano la certezza che la guerra era finita e che il tempo di deporre le armi era giunto. Fu così che il gruppo si mise rapidamente in marcia verso Bargagli.

    Mario e Barba avrebbero passato lì qualche ora prima che gli altri arrivassero. Fecero mettere i tedeschi seduti nella stalla; Barba legò loro mani e piedi con del filo spinato recuperato da una staccionata divelta. Mario avrebbe preferito usare delle corde, ma l’altro fu inflessibile.

    «Così staremo tranquilli» disse Barba. Nessuno dei tedeschi si lamentò. I due partigiani si misero sulla porta della stalla da dove potevano tenere d’occhio le casse e i tre prigionieri. Si sedettero uno di fronte all’altro, ai lati della porta; Mario appoggiò lo Sten al muro.

    «Ma davvero quei soldi non valgono più niente?» chiese il ragazzo.

    Barba non rispose. Gli lanciò uno sguardo torvo, come se la domanda fosse fuori luogo e lo avesse infastidito. Poi tornò a farsi prima indifferente e subito dopo addirittura ciarliero.

    «Di dove sei?» chiese a Mario, cambiando argomento.

    «Genova. Boccadasse, per l’esattezza» rispose il ragazzo.

    «Il posto con le case colorate che sembrano finte» commentò l’altro annuendo. Poi tirò fuori dal taschino della camicia color kaki un logoro pacchetto di sigarette inglesi. Ne accese una e l’allungò a Mario.

    «Fatti un tiro…» gli disse, accennando un sorriso.

    Mario, titubante, la prese. Aveva fumato solo qualche volta la pipa. Aspirò a fondo la prima boccata e tossì violentemente. Per alcuni secondi fu preda di una tosse incontrollabile che lo costrinse ad alzarsi in piedi. Barba scoppiò a ridere.

    «L’avevo capito che eri uno di città» commentò sarcastico.

    Mario gli ridiede la sigaretta.

    Per qualche tempo non parlarono. Barba sembrava assorbito dai suoi pensieri e dal fumo, poi tornò a rivolgergli la parola.

    «Perché ti stanno così a cuore quei tre lì?».

    «Non è che mi stanno a cuore. Però sono dei prigionieri e come tali vanno trattati. Bisagno ci ha insegnato che...».

    «Sei anche tu uno che pende dalle labbra di Bisagno? Che lo considera un eroe?» lo interruppe Barba con tono astioso. Mario si mise sulla difensiva. Aveva passato molto tempo al fianco di Bisagno, uno dei partigiani più coraggiosi in battaglia, nonché comandante della brigata Cichero alla quale il giovane era aggregato.

    «Bisagno ci ha insegnato a combattere con onore, a essere diversi da loro. Noi siamo soldati, non assassini» precisò Mario, infastidito dal tono irrispettoso di Barba.

    «Intanto Bisagno a quest’ora è a Genova a prendersi gli onori e noi siamo qui sulle montagne. La guerra non è finita. Ci sono ancora molti conti da regolare» ribatté Barba, guardandolo di sottecchi. Tra i due non sarebbe potuto correre buon sangue. Era chiaro che avevano modi opposti di vedere le cose.

    A Mario quel compagno non piaceva già da prima, per i suoi modi di fare sempre sopra le righe, per quella violenza verbale che ostentava con compiacimento. Mario era contento di aver dato una mano in quell’azione, ma capiva che, guerra a parte, non avrebbe mai avuto niente da spartire con gente come quella. In quei due anni aveva avuto modo d’imparare che non tutti erano come il suo comandante.

    Altre formazioni, seppur alleate nella causa comune contro i nazifascisti, avevano un modo di operare non sempre limpido. Ripensò alle voci che da mesi circolavano su certi personaggi che agivano proprio a Bargagli. Gente confluita da poco nella Resistenza, e dedita al mercato nero. Figuri che si tenevano ben lontani dagli scontri con le forze di occupazione, ma che lucravano sulla fame e sulla disperazione della povera gente. Delinquenti comuni approdati tra i partigiani per sopravvivere, privi di ogni ideale e mossi solo dal tornaconto personale.

    Si chiese se Barba fosse uno di loro, tanto più che veniva da Bargagli. Ripensò poi con orgoglio al codice, scritto da Bisagno stesso e chiamato Codice di Cichero, al quale ci si doveva attenere per rimanere a combattere tra le sue fila. Poche regole, semplici, ma fondamentali per dimostrarsi partigiani e non briganti: In attività e nelle operazioni si eseguono gli ordini dei comandanti, ci sarà poi sempre un’assemblea per discuterne la condotta; il capo viene eletto dai compagni, è il primo nelle azioni più pericolose, l’ultimo nel ricevere il cibo e il vestiario, gli spetta il turno di guardia più faticoso; alla popolazione contadina si chiede, non si prende, e possibilmente si paga o si ricambia quel che si riceve; non si importunano le donne; non si bestemmia.

    «Vedi questa casa?» riprese Barba, concentrato sulla sua sigaretta. «Quelli che ci abitavano erano una famiglia di contadini. Padre, madre, due bambini. Gente che ha sempre vissuto del poco che aveva. Durante l’autunno dell’anno scorso quelli che tu rispetti sono venuti qui. Italiani e tedeschi. Hanno portato via tutto. A quest’ora quelle persone saranno certamente morte da mesi, in qualche campo in Germania. E tu mi parli di prigionieri o altre belinate...».

    Mario non rispose. Non sapeva che cosa dire o forse non aveva voglia di discutere. Barba era uno di quelli per i quali non c’erano regole, non esisteva un codice d’onore, ma solo la sete di vendetta. Non riuscì a dargli del tutto torto. Ne comprese le ragioni, ma non poteva giustificarlo proprio in virtù di quei principi e ideali di libertà e di giustizia per cui avevano rischiato la vita.

    Barba, terminata la sigaretta, si alzò.

    «Vado a pisciare» disse, passando accanto a Mario. Lo superò e andò appena dietro la casa.

    Tornò dopo aver fatto il bisogno. Mario ne sentì i passi. Fece per chiedergli quanto tempo, secondo lui, ci sarebbe voluto perché arrivassero i suoi compagni dal bosco della Tecosa. Mario non vedeva l’ora di poter rientrare nella sua città finalmente liberata.

    Uno sparo raggiunse la testa del ragazzo, che si afflosciò su se stesso come un fantoccio inanimato. Le pietre del muro si tinsero del suo sangue. Schizzi ovunque, frammenti d’ossa e cervello.

    Barba gli sparò un altro colpo con la Beretta 34, questa volta alla schiena. Il ragazzo era già morto, ma a lui non importava. Rimase a guardare il sangue che fuoriusciva dal cranio, andando a formare una pozza scura e densa sull’erba verde che sapeva di primavera. Dall’interno della stalla i tre tedeschi avevano assistito alla scena. Nessuno di loro disse una parola. Guardavano Barba come se avessero già compreso il destino che li attendeva. L’uomo, a passi lenti, con ferocia, si avvicinò loro sorridendo. Altri spari, urla soffocate e poi più niente.

    Barba, rimasto solo, ripose la pistola nella fondina. Aveva fatto ciò che fin dall’inizio aveva voluto e ora si sentiva alleggerito di un peso. Tenendo la Breda a portata di mano, nel caso in cui qualche curioso si facesse vivo, aprì nuovamente le casse. Ne saggiò con calma il prezioso contenuto. Prima che arrivassero gli altri guardò tra le banconote arrotolate. C’erano tagli da cinquecento e da mille lire. Tutti recanti la dicitura Riserva numeraria Banca d’Italia. Ne prese alcune e le nascose sul fondo del tascapane. Nessuno si sarebbe accorto della loro mancanza. Richiuse poi le casse e attese che gli altri compagni di Bargagli lo raggiungessero. Si augurò che tutto filasse liscio, senza intoppi anche per loro. Non poteva sapere che a pochi chilometri da lì le cose erano andate anche meglio del previsto. Il resto della colonna tedesca, composta da cinque camion e altri pochi mezzi di trasporto, tra cui muli e cavalli, era arrivata in frazione di Maxena di Bargagli. Qui si era incontrata con gli americani della divisione Buffalo. I tedeschi e gli italiani erano stati disarmati, ma era stato concesso loro l’onore delle armi. Gli ufficiali avevano potuto tenere le pistole d’ordinanza. La colonna aveva proseguito fino a Pannesi di Lumarzo, dove però si era generato il caos. La strada era troppo stretta per il passaggio dei mezzi, che uno dopo l’altro si erano bloccati. Uno dei sei camion tedeschi si era perso ed era giunto dritto a Uscio, dove era stato intercettato da Barba e dai suoi uomini. Impossibilitati a proseguire a bordo dei mezzi, i tedeschi avevano continuato a piedi, lungo il bosco della Tecosa. Alcuni civili, incuriositi dai movimenti di truppe e di mezzi, avevano raggiunto il convoglio di autocarri appena abbandonato dai soldati in fuga. Tra loro c’erano i compagni di Barba, pronti a intervenire.

    Non avevano avuto bisogno di sparare un solo colpo. Prese le case, le avevano caricate su dei muli. Il carico era stato così messo al sicuro con tutta calma. Qualcuno dei presenti che abitava lì vicino aveva chiesto di vedere che cosa ci fosse in quelle che sembravano essere casse di munizioni che stavano portando via così di fretta.

    Il gruppo di Bargagli aveva messo in atto la stessa messinscena adottata da Barba e concordata in precedenza. Alcune banconote erano state stracciate di fronte agli occhi increduli della gente. Era stato detto loro che erano soldi da bruciare, moneta fuori corso ormai priva di valore. Nessuno aveva avuto il coraggio di protestare o dire altro. Quei partigiani o presunti tali erano ben armati e c’era poco da discutere in quei frangenti.

    Libero, Donnola, Vento e Saetta avevano organizzato il trasporto delle casse a Bargagli. Con loro c’erano altri tre ragazzi provenienti dal gruppo di Mario, che erano stati poi congedati frettolosamente. Terminata l’azione non c’era più stato bisogno di loro ed erano potuti tornare a casa. In quel clima di confusione, stanchezza, euforia per la fine della guerra non c’era tempo per i sospetti. Da allora, di quell’incredibile tesoro si persero le tracce. Nessuno ne seppe più nulla. E chi aveva visto o sentito qualcosa, preferì non rivangare più quella vecchia storia.

    Capitolo II

    kamikaze

    Milano, via del Lauro. Giorni nostri. Residenza del banchiere Raoul Sforza

    L’espressione arcigna del padrone di casa opprimeva a tal punto il suo interlocutore che quest’ultimo faticava a reggerne lo sguardo per più di qualche secondo. Per non parlare del suo modo di fare, raggelante e imprevedibile allo stesso tempo.

    Se l’avesse dovuto paragonare ad un animale non avrebbe esitato ad accostarlo ad un serpente. Era questa l’impressione che gli dava quel banchiere che nel giro di poco tempo si era letteralmente impossessato della sua vita, rendendola un inferno.

    Dal canto suo, Raoul Sforza era pienamente consapevole di esercitare il proprio potere e la propria forza di persuasione, grazie al disagio e al senso di inadeguatezza che era in grado di suscitare negli altri. L’appellativo di banchiere nero, con cui in taluni ambienti milanesi lo si indicava, non si riferiva solo ai suoi foschi trascorsi politici giovanili, ma anche al suo carattere cupo e tenebroso.

    Benché sprofondato pigramente nella sua poltrona, in atteggiamento palesemente rilassato, agli occhi di Enrico Villa, attuale sindaco di Milano, Sforza appariva minaccioso e incombente come una disgrazia pronta ad abbattersi, un male al quale non ci si può sottrarre.

    Quell’incontro non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo.

    Villa il Bomber, com’era soprannominato il leader del partito sovranista Libertà di Popolo, mai avrebbe immaginato che una volta eletto non avrebbe fatto neppure in tempo a godersi i fasti dell’inattesa vittoria. Nel giro di pochi giorni si era ritrovato sindaco della città più importante d’Italia e, allo stesso tempo, a vivere l’incubo del ricatto.

    Sforza teneva in pugno Villa e non faceva mistero della soddisfazione che provava nel manovrarlo a suo piacimento, come un burattino.

    Per una serie di fortuite coincidenze, come le aveva definite lo stesso banchiere, qualche settimana prima era entrato in possesso di documenti che attestavano tutta una serie di finanziamenti illeciti al partito di Villa; se il banchiere li avesse resi pubblici, essi avrebbero dato origine ad un terremoto politico su scala nazionale. Si sarebbe trattato di uno dei più grandi scandali avvenuti in Italia dal secondo dopoguerra. Villa ed il suo movimento ne sarebbero usciti distrutti.

    In un primo tempo l’idea di vedere il neosindaco cadere in rovina lo aveva solleticato, non tanto perché non condivideva alcune idee del Bomber, quanto per il disprezzo che nutriva nei confronti di uomini come lui. Villa era il perfetto rappresentante dell’odierna casta politica, i cui principali tratti distintivi erano arroganza e sete di potere. Nei confronti degli uomini e delle donne che ne facevano parte, il banchiere nutriva un’avversione fisica ed intellettuale che sfociava nel ribrezzo e nel desiderio di distruzione.

    Agli occhi di Raoul appariva poi ancora più grave il fatto che Villa, secondo una prassi tipica dei professionisti della politica, non aveva neppure un briciolo di fede nelle idee che propugnava, ma le utilizzava con il solo scopo di catalizzare i bisogni viscerali del popolino per fini elettorali.

    Una volta raggiunto l’ambito scranno, si sarebbe dimostrato disponibile ad ogni forma di compromesso, se non addirittura a rinnegare le sue idee, esibendosi in camaleontiche alleanze e in audaci voltafaccia pur di rimanere in carica. Questa mancanza di etica, di fedeltà alla parola data, destava nel banchiere i peggiori istinti sadici.

    Ecco perché Raoul provava un intimo e profondo piacere nell’averlo ora al suo cospetto, pallido come uno straccio, ombra del Villa che era solito arringare i suoi elettori come un moderno Masaniello o un infervorato tribuno della plebe. Villa il Bomber, sempre abbronzato e sorridente come un attore di una fiction, sicuro di se stesso, che aveva fatto della strafottenza la sua bandiera, appariva invecchiato precocemente, addirittura ricurvo nella postura. Perfino nelle più recenti apparizioni in pubblico sembrava aver perso quell’inconfondibile verve e quella carica che infiammavano gli animi dei suoi elettori.

    «Suvvia, Villa, si tolga di dosso quell’espressione da cane bastonato. Oltre a indispormi, la trovo fuori luogo. Io le sto offrendo l’opportunità di entrare nella storia, di compiere una rivoluzione, e lei non dimostra il benché minimo entusiasmo» sbuffò il padrone di casa, «anzi, per dirla tutta, trovo il suo atteggiamento sostanzialmente offensivo e privo di riguardo. Se non fosse che credo fermamente nelle sue capacità e nel nostro progetto, avrei già provveduto a liquidarla.»

    Seguirono alcuni istanti di silenzio.

    «Le farebbe bene bere qualcosa di forte» aggiunse il banchiere scattando in piedi e raggiungendo il mobile bar in stile déco dal quale prese una bottiglia di whisky torbato, un Ardbeg con vent’anni di invecchiamento. Riempì generosamente un bicchiere di cristallo basso e largo. Lo porse al suo ospite.

    Villa fece per dire qualcosa, ma il banchiere lo anticipò.

    «Anche se sono solo le undici del mattino, beva. La consideri una medicina per farsi passare il terrore che le leggo in faccia. A volte l’alcol snebbia i pensieri e rende le persone migliori. Addirittura, può diventare un utile alleato quando ci sono da sciogliere certe inutili paure... augurandomi che lei non sia l’eccezione che conferma la regola» commentò sarcastico mentre si accomodava nuovamente di fronte al suo ospite. Raoul nel frattempo prese un fiammifero Minerva da una scatola che teneva in tasca e incendiò un Habanos Cohiba. Fumava solo quel tipo di sigari cubani, provenienti dalla regione di Vuelta Abajo.

    Villa osservò per qualche istante il contenuto del bicchiere, disgustato dall’odore intenso di torba che il distillato emanava. Riluttante, portò il bicchiere alle labbra e le inumidì solo per compiacere Sforza.

    Per qualche minuto Raoul si dimostrò del tutto incurante della presenza del suo ospite. Era concentrato a godersi le profonde boccate di fragrante tabacco, come se non esistesse altro in quel momento. Lo fumava con una voluttà quasi erotica. Era come se stesse facendo l’amore con l’aroma avvolgente e non ne faceva mistero.

    Villa si adeguò a quella situazione per lui umiliante. Non era nelle condizioni di potersi imporre e reclamare attenzione, ma poteva solo subire passivamente. Durante gli incontri avuti fino a quel momento con il banchiere aveva imparato a non stupirsi di quegli atteggiamenti scostanti e bizzarri, e vi si era adeguato.

    Fu Sforza a rompere improvvisamente quel silenzio sempre più opprimente per Villa.

    «Fino ad oggi abbiamo sostanzialmente giocato, sondato quel terreno sul quale andremo a breve a confrontarci. Dall’insediamento della sua giunta, grazie ai miei suggerimenti, lei ha trovato come far parlare di sé in modo nuovo e dirompente. Sono bastate poche, ma efficaci battute, che il Villa sovranista non avrebbe mai proferito in passato, per farla volare alto. E questo è solo un assaggio. In due giorni lei ha ottenuto una visibilità che l’attuale Presidente del Consiglio avrebbe desiderato per lui. Le confido che quando» sottolineò ironico il banchiere, «lei si è detto favorevole all’arruolamento di una massiccia componente extracomunitaria nel corpo di Polizia Locale di Milano, mi sono divertito. Ho colto un autentico panico sui volti dei suoi fedelissimi in consiglio comunale. Per non parlare delle reazioni dell’opposizione: il senso di disorientamento e sconcerto è stato totale. Un colpo da maestro, non a caso suggeritole dal sottoscritto. Togliere terreno al nemico, spiazzarlo, cavalcando le sue stesse idee. Naturalmente quella dei ghisa africani è sembrata una boutade, magari per alcuni una guasconata, ma per giorni non si è parlato d’altro. Certamente tra un po’ ne riparleremo in altri termini».

    «Quelle parole mi sono costate care... All’interno del partito c’è stata un’ondata di malcontento. Pensano che io mi sia ammattito» si lagnò Villa ripensando alle telefonate di fuoco ricevute dai suoi fedelissimi che non sapevano come commentare la notizia. La stampa si era scatenata, i giornalisti cercavano di estorcere ogni tipo di indiscrezione agli esponenti del partito di Villa per capire che cosa avesse in mente il loro segretario nonché neosindaco di Milano.

    Raoul scosse la testa. Guardò Villa con la stessa espressione di chi è costretto a doversi ripetere più volte per chiarire un concetto oggettivamente semplice e che è già stato spiegato in precedenza.

    «Villa, lei non ha ancora compreso appieno la portata del progetto che ho deciso di condividere con lei» rimarcò il banchiere, facendo appello a tutta la sua pazienza. «Qui non si tratta di preoccuparsi dei malumori di partito, dei piagnistei dei parassiti che la circondano e che ambiscono a farla fuori al primo passo falso. Non devo essere io a ricordarle che i suoi maggiori nemici, quelli che vogliono la sua testa, si annidano proprio tra le sue schiere» disse il banchiere scandendo le parole. Poi aggiunse: «Sarà solo merito del sottoscritto e delle linee guida che le impartirò se, nel giro di poco tempo, lei non dovrà più preoccuparsi di loro e dei miseri complotti ai quali lei stesso è ricorso fino all’altro giorno nella sua ascesa alla guida del partito. L’appoggio incondizionato degli elettori, derivante da scelte ardite e coraggiose, la metterà al riparo dalle logiche che lei stesso applicava nella sua scalata ai vertici. Lei farà ciò che nessuno prima ha osato fare in politica, cioè mantenere gli impegni elettorali» sentenziò Raoul, consapevole di toccare un nervo scoperto. Tener fede alla parola data non faceva parte del Dna di personaggi come Villa. Poco male. Con le buone, o meglio con le cattive, avrebbe operato una sorta di mutazione genetica su quell’uomo che continuava a guardarlo con aria contrita e sofferente.

    «Non si preoccupi, Villa. Gli impegni sono quelli che lei già conosce perfettamente e che ha preso in campagna elettorale. Poi ne aggiungeremo altri, strada facendo, rendendo la sua agenda di sindaco a dir poco memorabile. Per natura credo nella programmazione, ma ciò che da sempre mi affascina è lo spirito di adattamento. Chi si adatta è destinato a sopravvivere e a vincere. Lei farà in modo di far adattare gli altri alle sue scelte, piegherà le loro volontà alla sua, specie di fronte a decisioni scioccanti. Ne ho già in mente alcune che mi regaleranno grandi soddisfazioni, ma è inutile che gliele anticipi ora... Ciò che conta è che abbiamo una prospettiva di cinque anni per cambiare radicalmente il volto a Milano. Questa idea non la elettrizza?».

    «Lei vuole vedermi morto» mormorò il primo cittadino cercando e forse trovando nel bicchiere di distillato quasi un senso di conforto che mai si sarebbe immaginato.

    «Tutt’altro. Se lei morisse il mio progetto decadrebbe. Ho tutto l’interesse perché lei rimanga in salute e nessuno le torca un capello» lo rassicurò Sforza producendosi in un ghigno poco rassicurante.

    L’espressione malevola del banchiere, i suoi occhi profondi che sembravano capaci di cogliere i pensieri altrui tanto erano penetranti, non facevano che amplificare il disagio di Villa.

    «Nel momento in cui dovessi non rispettare gli accordi presi con i Surace, sarei un uomo morto. Lei non lo capisce. Ci sono in gioco interessi enormi, il futuro di Milano, la sua espansione urbana. Se voltassi loro le spalle, firmerei la mia condanna a morte» proruppe il sindaco angosciato.

    Il banchiere dovette reprimere un moto di stizza verso quelle che riteneva futili rimostranze avanzate da un uomo senza spina dorsale. Era ben consapevole a cosa Villa si riferisse. Le prove di quel patto criminale le teneva al sicuro Raoul.

    «È un dato di fatto che lei ha preso accordi con persone prive di ogni remora morale. Non vedo quale sia il problema nell’adeguarsi al tenore dei suoi interlocutori e a surclassarlo. Villa che mette K.O. una delle più potenti famiglie della ’ndrangheta. Una mossa in apparenza impossibile per un omuncolo come lei, abituato a sollazzarsi sullo yacht del suocero con la propria compagna. Eppure, questa sua condizione di evidente e reale inferiorità verso un’organizzazione così articolata e potente la mette in una posizione di assoluto vantaggio. Loro danno per scontato che lei, come tutti i politici che si rispettino, si attenga ai patti. L’hanno favorita in campagna elettorale investendo sulla sua persona e sul suo movimento. Ora che lei ha ottenuto ciò che voleva, non ha alcun motivo per voltare loro le spalle. Una mossa simile non rientrerebbe in alcuna logica, se non suicida. I Surace dormono sonni tranquilli; non sono neppure sfiorati dall’idea che Villa possa non solo non favorirli, ma addirittura dichiarare loro guerra» proseguì il banchiere, sperando che il suo interlocutore condividesse la sua strategia. «Dalla nostra abbiamo il fattore sorpresa. Nel momento in cui si ergerà a paladino della legalità non solo a parole, ma con i fatti, si metterà sotto i riflettori dell’intera nazione. A quel punto nessuno oserà toccarla perché sarà diventato una sorta di mina vagante, un simbolo della legalità, che nessuno si sognerebbe mai di fermare. Ne conviene?».

    Villa scosse la testa, rivolgendo al banchiere uno sguardo quasi implorante.

    «Mi ucciderebbero. Magari non subito, ma prima o poi si vendicherebbero. Secondo lei dovrei vivere nel terrore aspettando che mi facciano fuori da un momento all’altro? Pensa che non abbiano le capacità per fare un’azione simile?».

    Sforza scosse la testa infastidito.

    «Villa, se c’è una cosa che ho imparato nella vita è di non sottovalutare mai nessuno. I suoi alleati dispongono di tutte le capacità operative per eliminarla fisicamente, ma si spingerebbero su di un terreno rischioso. Queste persone, al di là della pratica della violenza che fa parte del loro essere, mirano solo al denaro. Già in passato la malavita nel nostro paese ha alzato la voce con bombe e autobombe, ma l’effetto è stato solo momentaneo. Cercheranno di contrastarla con gli stessi mezzi che il sistema mette loro a disposizione, cercando di contenere il più possibile il danno economico che lei potrebbe loro arrecare. Cercheranno appoggi in altri ambienti politici, si affanneranno a screditarla, a renderle la vita difficile, ma non la uccideranno. Almeno non nell’immediato. Ciò potrebbe verificarsi in un secondo tempo per una questione di pura vendetta, ma faremo in modo di renderli del tutto inoffensivi prima che possano eventualmente mettere in pratica questa loro esigenza».

    «E come pensa di poterlo fare?».

    «Con l’aiuto della magistratura, da lei peraltro tanto disprezzata nei suoi comizi. Non che io abbia stima di essa, tutt’altro. Faremo in modo di sfruttarla a nostro favore. Ci sono dei bravi magistrati» sottolineò sarcastico il banchiere «con i quali intrattengo un rapporto di sincera cooperazione, esattamente come tra lei ed il sottoscritto. Sono certo che sarebbero molto interessati a dar vita a processi decennali a carico dei Surace, naturalmente chiudendo un occhio sui finanziamenti illeciti giunti al suo partito. Comunque, è inutile ora anticipare scenari che andremo ad affrontare successivamente. Ora dobbiamo agire in fretta, non perderci in troppe elucubrazioni. Dopo che un’azione si è pianificata, va attuata con assoluta e cieca determinazione. Costi quel che costi» concluse il banchiere con aria vagamente spiritata.

    Sforza fece per ricorrere all’esempio dei kamikaze giapponesi, ma si interruppe. Vedendo lo stato di prostrazione in cui versava Villa gli parve controproducente. L’equilibrio psichico del sindaco era già sufficientemente minato per evocargli immagini che al posto di infondergli coraggio lo avrebbero fatto sprofondare nella cieca disperazione.

    «La prossima settimana la sua giunta non approverà quel progetto per il quale i terreni, che stanno così a cuore ai suoi finanziatori occulti, diventerebbero oro. I Surace attualmente risultano indagati per una presunta bonifica mai avvenuta, cosa che li sta tenendo un po’ occupati. Le mie fonti mi suggeriscono che ne usciranno pressoché indenni, ma ci vuole del tempo. La macchina della giustizia il più delle volte è agile e veloce come un elefante morente. Noi ne approfitteremo. Lei proporrà, di concerto con la maggioranza, la creazione di un nuovo Parco Agricolo, un’oasi protetta sulla quale non si potrà edificare un solo metro cubo di cemento. Un progetto di largo respiro per la cittadinanza. L’opposizione non potrà che trovarsi favorevole di fronte ad una simile scelta, ma soprattutto lei, Villa, si conquisterà tutti i milanesi, specie quelli che non l’hanno votata. Regalerà loro un parco come si deve. Al tempo stesso denuncerà il pericolo della speculazione edilizia da parte della ’ndrangheta, alla quale dichiarerà una guerra senza esclusione di colpi» stabilì Raoul in tono entusiasta.

    Villa lo guardava senza riuscire a proferire parola. Faticava a cogliere i possibili scenari che si sarebbero delineati dopo le decisioni prospettategli dal banchiere.

    Provò ad obiettare, ma senza troppa convinzione.

    «Sono sicuro che i Surace mi rovinerebbero comunque. Dichiarerebbero di aver finanziato il mio partito e mi trascinerebbero nella loro disfatta».

    Di fronte a quell’osservazione, Sforza si mostrò meno infastidito del solito. Villa si stava lentamente rassegnando al suo nuovo ruolo, anche se la paura delle conseguenze gli impediva di essere lucido.

    «La sua osservazione ha un senso, ma non tiene

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