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Transfer 2093
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E-book529 pagine8 ore

Transfer 2093

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Info su questo ebook

E se nel futuro ci fosse la possibilità di prolungare la propria esistenza acquisendo il corpo di un’altra persona? Jason Pride, il prescelto, si troverà a lottare per affermare il proprio posto nel mondo. Una corsa contro il tempo tra gli inganni di una società futuristica.
di Stefano Meglioraldi
Nelle società meritocratiche del futuro, individui di talento hanno la possibilità di prolungare la propria vita acquisendo il corpo di un’altra persona. Jason Pride, il cambiante, vincolato a cedere il proprio corpo a un noto scienziato londinese prossimo alla fine, decide di fuggire insieme alla moglie Emily. Allo scopo di far fallire il Transfer, il gruppo eversivo Green Eco-Army si dichiara disposto ad aiutarlo. In una corsa mozzafiato contro il tempo, sia il Governo sia i terroristi si mostrano pronti a tutto pur di raggiungere i loro obiettivi, a costo di scatenare violente battaglie. Tra intelligenze artificiali, micro-droni e insetti ingegnerizzati, si svelano così gli inganni di una società futuristica solo all’apparenza ecologica. I colpi di scena e l’ambientazione suggestiva, che ben uniscono il thriller alla fantascienza, pongono in risalto l’umanità e la fragilità del protagonista, che combatte per affermare il proprio posto nel mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita13 apr 2021
ISBN9788833285528
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    Anteprima del libro

    Transfer 2093 - Stefano Meglioraldi

    2081

    Prologo

    Le antenne, sottili come le numerose zampette disposte lungo tutto il corpo, fremettero all’aria appena oltre il bordo del taschino di tweed.

    D’improvviso la minuscola creatura si lanciò nel vuoto, abbandonando la sicurezza del caldo cappotto. Per un uomo sarebbe stato come buttarsi dal ventesimo piano di un edificio, e invece, grazie all’attrito dell’aria, la caduta del miriapode era folle solo all’apparenza, benché appesantito da svariate decine di nanochip.

    Per quanto smorzato dalle lunghe appendici, l’impatto con il pavimento fu più duro del previsto. L’insetto, una Scutigera coleoptrata denominata comunemente centopiedi, prese a contorcersi rotolando sulla ceramica. Poi il macabro balletto terminò di colpo come era iniziato.

    Dopo aver più volte agitato le antenne, il centopiedi, grigio come il tipico cielo londinese, zampettò deciso verso un voluminoso tank nero che conteneva le fibre ottiche dell’Ufficio di controllo dell’accomiatante. Procedette di sbieco, lasciando dietro di sé un’invisibile scia di liquido corporeo.

    La direzione intrapresa non gli fu suggerita da un istinto evolutosi in milioni di anni, quanto da un’intelligenza molto più immatura a cui non interessava alcunché della legge naturale della sopravvivenza.

    Il compito assegnato a quel sacrificio ambulante era di trasformarsi – corrodendo i propri organi interni per una speciale reazione chimica innestata a comando – in una microspia di ultima generazione, al fine di registrare le conversazioni che si sarebbero svolte all’interno dell’ufficio. Per poter trasmettere le informazioni raccolte, opportunamente criptate come interferenze o attenuazioni di segnale tra milioni di altri dati, l’insetto doveva fondersi con una fibra ottica.

    Se quell’essere insignificante avesse potuto provare sentimenti, forse gli sarebbe stato di conforto sapere di non essere l’unico miriapode sacrificato fino a quel momento a tale scopo. Faceva infatti parte di un piano più ampio di intercettazione che prevedeva l’istallazione di microspie in diversi luoghi strategici; quella, in particolare, era di sicuro la più importante: una volta sistemata, il gioco sarebbe stato pronto per cominciare.

    Bastava attendere il candidato ideale, e il nome in cima alla lista era quello di Jason Pride.

    La fibra ottica risplendette per un momento e la parte organica dell’insetto si dissolse con un leggero sfrigolio. Nello stesso istante, i nanochip si attivarono rendendo la postazione H320 pronta a trasmettere.

    Registrazione n. 1/SSH320 IH, h. 11:01, td: 00:10, 2091/04/22

    [Registrazione di prova, cancellata.]

    Parte prima - Londra

    Capitolo uno - Tempo scaduto

    1.

    L’ascensore spalancò le sue fauci dorate, pronto a ingoiarlo. Come nell’Inferno di Giovanni da Modena, lui si sentiva il piatto principale in procinto di essere risucchiato nella bocca di Satana, per poi essere espulso dal retto al pianterreno del Royal Parkinson Hospital assieme alle sue miserie.

    Misto al prorompente senso di angoscia, però, percepiva in sé anche un tenue senso di sollievo a lasciarsi alle spalle le auree pareti della stanza numero uno posta in cima all’edificio, al trentacinquesimo piano: una vera e propria suite, come si addiceva a uno scienziato da Nobel.

    Uno scienziato morente, pensò.

    Jason sbatté le palpebre. Non voleva più pensarci, aveva solo voglia di andare a casa, da Emily. Doveva gridarle quanto l’amava e quanto l’aveva amata fin dal primo momento. Poi avrebbero dovuto parlare, affrontare il problema. Le avrebbe detto di non preoccuparsi, che tutto era a posto – Sapendo di mentire, lo corresse una voce nella sua testa – e che avevano ancora un po’ di tempo per stare insieme. Lei avrebbe potuto rifarsi una vita, essere ancora felice…

    Eppure sapeva che qualunque frase gli fosse uscita di bocca, non sarebbe bastata, neppure a se stesso. La sensazione di smarrimento non lo mollava e rischiava di sfociare in un incontrollato attacco di panico, anche se entrambi sapevano che prima o poi quel momento sarebbe arrivato.

    Ondervood stava morendo – il grande Michael Ondervood – e per l’insignificante Jason era giunto il momento di dire addio a sua moglie.

    Le spie del pannello scorrevano rapide davanti ai suoi occhi: una fuga in solitaria dal regno del morente. Una fuga inutile, destinata a terminare in un definitivo oblio, lo smentì di nuovo la sua coscienza.

    Cercò di non farci caso. Con l’apertura delle porte sarebbe riemerso di nuovo nel mondo vero, poi via di corsa verso casa. L’attendeva un tragitto di quarantacinque, cinquanta minuti al massimo, passando per Sidnay Street e proseguendo per le interminabili Stepney Way e Salmon Lane. Dopo aver oltrepassato il Regent’s Canal, avrebbe tagliato per Copenhagen Park, dove spiccava una malridotta statua di Marco Polo; avrebbe poi svoltato dopo il fruttivendolo Da Carlo e imboccato la familiare Agnes Street fino a giungere al piccolo edificio di quattro piani – se si considerava anche il sottotetto – dove, come di consueto, avrebbe visto brillare la terza finestra dal basso. Una luce che scaldava il cuore.

    Cosa ne farà Emily, di questa casa? si chiese all’improvviso. L’avrebbe venduta, incapace di sopportare il peso della sua assenza, o l’avrebbe tenuta? O magari condivisa con qualcun altro?

    La porta dell’ascensore si dissolse, rivelando un mondo caotico, tutto l’opposto di quello che aveva appena lasciato.

    La realtà lo avvolse di colpo con i suoi molteplici odori. Per qualche istante, la presenza di tutte quelle persone gli parve rendere il suo inferno personale più sopportabile. Uomini e donne di tutte le razze, vecchi e bambini, silenziosi o gementi, trotterellavano insieme a frettolosi addetti ospedalieri in divisa. Quel mare di corpi eterogeneo era solcato ogni tanto da gruppetti di importanti dottori in camice, esigui di numero ma compatti, come per proteggersi da tutta quell’umanità. Scale e tappeti mobili spostavano codazzi di persone da una parte all’altra, senza alcuna logica apparente.

    Forse per alcuni è meglio così: perdersi nel presente piuttosto che affrontare il futuro, rifletté Jason, tornando ad affondare nell’autocommiserazione.

    Una luce gli segnalò la scala mobile che l’avrebbe portato all’uscita. Il suo sguardo andò oltre il segnale luminoso e istintivamente si bloccò di colpo. Una vecchietta gli finì addosso, per poi aggirarlo borbottando qualche lamentela. Jason la ignorò, rapito da ciò che stava avvenendo all’esterno.

    Al di là della grande vetrata sovrastante l’ingresso principale del Royal Parkinson Hospital, gigantesche scritte multicolori brillavano nell’oscurità: No al Transfer, siamo uomini non pezzi di ricambio. Una scritta dai caratteri lampeggianti, più ecclesiale, recitava: Siamo tutti uguali davanti a Dio.

    Adepti del Rinnovamento Cristiano, uno dei gruppi più attivi della grande famiglia cattolica, si disse.

    Alcune bandiere verdi, svettanti qua e là, indicavano la presenza di membri della Green Eco-Army, un gruppo estremista che mirava alla salvaguardia del pianeta e che operava al confine con la legalità, più volte accusato di aver intrapreso azioni armate.

    Gruppi così diversi, uniti insieme per una lotta comune… Forse hanno ragione loro, forse è tutta una follia. E forse dovrei gettarmi tra i dimostranti e abbracciare pubblicamente la loro lotta contro il Transfer. Diventerei un simbolo, un esempio per tutti. I mass media ci andrebbero a nozze e scoppierebbe un putiferio.

    Jason provò un misto di desiderio e repulsione, poi chinò il capo, sconfitto. No, non l’avrebbe fatto. Non aveva il coraggio di opporsi al sistema che aveva sostenuto per così tanti anni e che gli aveva garantito una vita agiata; o, forse, la verità era che non aveva le palle per ribellarsi al destino e prendere in mano le redini della propria vita.

    Esaminò di nuovo l’ingresso principale. Di sicuro non poteva uscire da quella parte, non l’avrebbero lasciato passare. Sapevano chi era, la sua faccia era su tutti i notiziari.

    Sospirò, sentendo gli occhi inumidirsi. Investito da una tempesta di sentimenti e pensieri contrastanti, vacillava come una barca in procinto di affondare. No, lui doveva andare a casa, Emily lo aspettava. Era quello il porto dove potersi rifugiare. Ricacciò indietro le lacrime e si fece forza con quell’unico punto fermo che gli rimaneva.

    Un uomo largo di spalle lo spintonò di proposito: stava bloccando il passaggio proprio prima dell’imbocco della scala mobile. Altri si limitarono a schivarlo, stringendosi tra loro.

    Jason si aggiustò il cappotto scuro, in feltro, e tornò sui suoi passi. Sapeva che c’era un’altra uscita di fianco alla cappella, presente anche in un ospedale ultramoderno come quello. Dio e dolore sono un connubio inseparabile, pensò.

    L’accolse una notte tersa e limpida, per lui un altro schiaffo morale. Avrebbe preferito di gran lunga un tempo uggioso che si accordasse al suo stato d’animo. Prese a camminare rapido, cercando di allontanare quei cupi pensieri, schivando i robot e la gente che affollava le strade. Procedette a lungo, senza guardarsi attorno.

    «Scusa, non è che hai un regalo per me?» gli sbavò addosso un vagabondo, che gli si era parato davanti all’improvviso. «Pochi spiccioli per qualche extra, mmmh?»

    La puzza di quell’uomo era insopportabile. In un’altra occasione gli avrebbe dato qualcosa, non era altro che un disadattato dell’opulenta società di quegli anni, ma non quella sera. Quella sera l’avrebbe preso volentieri a calci sul suo lurido deretano o gli avrebbe fatto saltare i pochi denti rimasti.

    Scansò con astio quel sudicio relitto umano. Come si permetteva di disturbarlo, di rompergli l’anima per una cosa così futile? Non si rendeva conto che lui stava per morire?

    Non è del tutto esatto, intervenne la solita voce interiore, benché con un’intonazione più razionale. La morte riguarderà solo la tua mente, la tua personalità, non il tuo corpo. Quello passerà a un altro, che tirerà i tuoi fili come un burattinaio.

    Si voltò indietro per controllare se il barbone lo avesse seguito, ma di lui non c’era più traccia. Poco più avanti c’era la panchina dove più volte, sulla via verso casa, si era seduto a riflettere. Il cestino del pattume era pieno come al solito. Si fermò a fissarli.

    Quegli oggetti familiari erano ciò che gli serviva. Era ora di piangere, di sfogarsi. Spinse con forza per far uscire le lacrime, al pari d’infilare un ago nella carne per estrarre una spina piantata in profondità, tormentandosi con la certezza che la sua vita era giunta al capolinea, che gli rimanevano solo poche ore da passare con Emily, e poi non l’avrebbe mai più rivista.

    Alla fine le lacrime uscirono, benché poche, senz’anima. Non ci riusciva, non riusciva a piangere a comando, neanche in quella maledetta situazione.

    Con la vista appannata, osservò la statua di Marco Polo. Non capiva quale fosse il naso e quale l’orecchio e, per dire la verità, era difficile da comprendere anche a occhi asciutti.

    Per la vergogna cercò di non farsi notare da una coppietta che passava. Si chinò e fece finta di aggiustarsi i lacci delle scarpe. Non avete mai visto un povero disgraziato piangere per strada? avrebbe voluto gridare loro, sebbene conscio che l’interesse dei due nei suoi confronti sarebbe stato pari a quello per uno dei tanti schermi pubblicitari che si trovavano lungo la via.

    Il vento gli asciugò le guance solo in parte bagnate, rendendole gelate. Sono troppo vecchio per queste stronzate, si disse rimettendosi in piedi.

    Doveva andare a casa. Faceva freddo e d’improvviso era stanco di stare fuori a compiangersi. Riprese a camminare, senza riuscire però ad allontanare i pensieri più tristi.

    L’aveva saputo, l’aveva sempre saputo. Fin da quando aveva firmato, quasi quindici anni prima. Si trattava solo di accettare la cosa.

    Proseguì il cammino guardando in basso, cercando di chiudere fuori ogni pensiero e prendendo a calci qualunque oggetto gli capitasse tra i piedi.

    Aprì la porta di casa con sollievo, ma anche con un grande senso d’angoscia. Devo fare finta di nulla? Non voleva che Emily lo vedesse così e, allo stesso tempo, aveva paura che lei non percepisse il suo stato d’animo.

    «Ciao», esordì con finta allegria.

    «Arrivo subito», rispose una voce dalla cucina. Oltre lo stipite della porta comparve il viso luminoso di una donna incantevole, dai lineamenti asciutti ma dolci, con i capelli castani, lunghi e lisci, e due intelligenti occhi color smeraldo. Una figura snella lo seguì, intenzionata a porgere un caldo abbraccio di benvenuto al suo uomo.

    Quanto la amo, si disse Jason sentendo d’improvviso le lacrime montargli dentro, stavolta pronte a erompere di loro volontà.

    Emily si fermò, un sopracciglio inarcato e l’espressione preoccupata.

    «Stai bene?» domandò. Jason crollò. Non disse niente, distolse lo sguardo e fuggì via, rifugiandosi sul divano come un bambino. Lei lo seguì e gli donò il conforto di cui aveva bisogno, la certezza d’importare ancora a qualcuno, di non essere solo ma amato. Lo abbracciò, con il timore di ciò che lui le avrebbe rivelato.

    «Ondervood è alla fine», le disse sconfortato senza guardarla in faccia.

    Lei trasalì. «Oh mio Dio! Ne sei sicuro? Ti hanno già detto quando?»

    «Questo sabato.»

    «No!» gridò lei, artigliandosi i capelli. «Così presto? Non è possibile, non può essere, non stava così male! L’hanno detto all’olovisore… Jason, dimmi che non è vero, ti supplico.» Lui non rispose. «Mio Dio…» le ultime parole le uscirono strozzate, gli occhi già gonfi.

    Jason si voltò verso di lei, l’abbracciò e si mise ad accarezzarle la testa. Stettero così sul divano, a piangere insieme.

    2.

    «Lei capirà, non c’è molto tempo», spiegò l’accomiatante.

    «E cosa dovrei fare di preciso?» chiese Jason, frustrato, rivolgendosi al funzionario.

    «Lei niente. Deve lasciar fare a noi. Per lei c’è solo una semplice visita di controllo.»

    «Se l’ho fatta solo un mese fa…»

    «Esatto. Tuttavia è necessario, mi creda. Non vogliamo che accada niente al professor Ondervood, non è vero? Lei è il suo più stretto collaboratore e sa quanto sia importante la riuscita del Transfer, vero? Quanto sia importante che tutto fili liscio, senza intoppi o problemi di sorta.»

    «Fa già parte della visita?» chiese Jason in tono amaro.

    «Cosa, scusi?»

    «Questo interrogatorio: fa già parte della visita?»

    L’accomiatante si mise a ridere, di un riso forzato, innaturale.

    «Per chi mi prende? Non sono della CIA, io. No, no, stia tranquillo. Sarà una visita medica, prettamente medica.»

    Jason gli credette. Cosa poteva fregare a quei bastardi di ciò che provava? A loro interessava solo il suo corpo, nient’altro. In ogni caso, non intendeva trascorrere le sue ultime quarantotto ore di vita a farsi attaccare elettrodi in testa o sottoporsi a faticose prove da sforzo. Se li ficcassero nel culo, i previsti controlli medici! Non era sua responsabilità. Non aveva firmato per quello. E non l’avrebbero costretto su una barella fino al momento del Transfer. Già, dopodomani…

    «Non se ne parla», disse Jason.

    «Non sia sciocco. Lei ha firmato e sa che non può farci niente», rispose l’accomiatante, stavolta senza mezzi termini. La sua finta gentilezza era d’improvviso svanita.

    «Non starò qui un’ora di più», ribatté Jason alzando il tono di voce.

    «Su questo ha ragione», concesse l’altro rilassandosi sulla sedia, mentre un sorriso compiaciuto gli appariva sul volto ferino. «Basteranno cinquanta minuti per i prossimi esami.»

    Jason si abbottonò con rabbia il camice da laboratorio, ripensando a quanto gli aveva detto l’accomiatante. Non aveva scelta, ormai la sua vita non apparteneva più a lui, neanche quel poco che gli rimaneva.

    Da quando si era alzato, quella mattina, il tempo aveva preso a scorrere troppo velocemente.

    Fermati, fermati, aveva implorato all’orologio alla parete sopra al tavolo della cucina. Fermati, fermati, aveva ripetuto a quelli diffusi nella metropolitana, e a quelli in ufficio e in ospedale. Anche in quel momento, in laboratorio, aveva disattivato l’orologio interno di Yagghy, l’olopad monoculare che Emily gli aveva regalato solo pochi mesi prima. Un regalo apprezzato ma costoso. Eppure sbarazzarsi di quei numeri non era servito a niente: per tutto il tempo non aveva fatto altro che sbirciare ogni dannato segnale orario che trovasse sul proprio cammino. Innumerevoli volte, nel percorso tra la fermata della metropolitana e il posto di lavoro, non aveva resistito e si era ritrovato a chiedere l’ora ai passanti, come nello stupido gioco a premi che andava di moda in quel periodo, dove per vincere non ci si doveva fare aiutare da alcun aggeggio elettronico. L’ultimo gioco della mia vita, pensò.

    Per cosa sarò ricordato? si chiese poi. Per aver chiesto l’ora a quaranta persone in un giorno? Da entrare nel Guinness World Records! O forse per la mia stupidità cronica?

    Dopo aver incontrato l’accomiatante – agli ordini diretti del ministro dell’interno – che lo attendeva davanti all’ufficio come un avvoltoio, ed essere stato obbligato a sottoporsi a quasi un’ora di test medici presso l’ormai familiare Royal Parkinson Hospital, era infine riuscito a tornare al suo posto di lavoro per chiudere i file più importanti e lasciare tutto pronto per il suo successore. Per quello che potrebbe essere il prossimo sacrificio umano vivente, gli venne da pensare.

    Si lasciò cadere sulla poltrona del suo ufficio, attivò l’olotastiera e rimase in attesa del bip di inizializzazione.

    Nel girovagare della mattinata – ormai al termine – aveva notato con una sorta di bramosia i numerosi cartelli contro il Transfer realizzati in bio-carta e appesi un po’ dappertutto. Qua e là, qualche capannello di militanti dalle sgargianti divise verdi e rosse.

    Com’era ovvio, fin dall’inizio la Chiesa si era schierata contro il Transfer, ma non poteva interferire come avrebbe voluto nelle faccende dello Stato. Alcuni gruppi più attivi avevano cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica; membri di Rinnovamento Cristiano, cattolici e protestanti uniti, erano apparsi più volte all’ologiornale per denunciare il Transfer come pratica immorale, una forma di eutanasia promossa in nome di un falso bene comune. Un bene comune che per dire la verità riguardava solo chi aveva doni particolari, o chi aveva soldi in abbondanza.

    Dall’altra parte, politici e scienziati, compatti tra loro, sostenevano l’enorme impatto benefico di tale pratica sulla società. Non c’era da stupirsi, considerando che molti di loro, compreso il primo ministro, erano seguaci del Nuovo Movimento Singolare.

    Un nuovo incentivo alla produttività, Un premio per i più meritevoli, Un beneficio per l’umanità, erano gli slogan più comuni. Pensate se la mente di Albert Einstein fosse stata attiva molto più a lungo, addirittura fino al XXII secolo, erano soliti ripetere; "e se nel campo della fisica e dell’astronomia si fosse potuta salvare la forza intuitiva di Stephen Hawking, di Ettore Majorana, di Ilya Prigogine o di Tullio Regge. Con quanta rapidità sarebbe progredita l’umanità? Per non parlare di tutti i progressi compiuti nello sviluppo della biotech nel corso del ventesimo e del ventunesimo secolo… Basta pensare a Harold Bencier, Alessio Soricani, Lee Yang, quest’ultimo ancora in vita proprio grazie all’impiego del Transfer".

    I più meritevoli – quelli che si erano distinti nel proprio campo – avevano beneficiato direttamente del trattamento, e ciò era servito di sprone in tutti i settori, rispetto a un’epoca precedente in cui era stato difficile che i meriti venissero riconosciuti. Certo, c’erano anche vie secondarie per usufruirne, che prevedevano l’impiego di ingenti somme di denaro; ogni tanto saltava fuori qualche scandalo, punito con grande determinazione – almeno all’apparenza – mentre molti altri casi sfuggivano ai riflettori dei media. In ogni caso, il sistema funzionava.

    Il prestigioso premio Nobel era diventato il selezionatore ufficiale dei candidati al Transfer, la strada più sicura per ottenere il fantastico premio. Se sei una persona particolarmente dotata, ti garantiamo la vita eterna, era la promessa. Certo, nel corso degli anni si sarebbe dovuto sostituire il proprio corpo, ma ciò non rappresentava un grosso problema, anzi. Ai migliori nel proprio campo sarebbe stato fornito ogni volta un fisico nuovo, più giovane, più scattante, e anche diverso – per qualche brivido in più – con cui condurre una nuova vita. Un corpo nuovo unito all’abilità di una mente fresca e brillante e all’esperienza di una vita intera. Mens sana in corpore sano, era in un verso di Giovenale; non era questo – forse – il segreto della felicità?

    Chi non ne sarebbe attratto? sospirò Jason. Anche lui stesso, a suo tempo, ne era stato affascinato, visto che era il miglior allievo del corso di biologia molecolare all’Università di Yale.

    "Primo requisito: essere tra i più dotati".

    Jason era ben conscio delle implicazioni quando, quindici anni prima, aveva accettato di diventare l’assistente personale di Ondervood. Accettare quel posto significava lavorare a stretto contatto con uno dei più grandi scienziati del XXI secolo, percependo tra l’altro un ottimo stipendio, ma anche diventare il primo cambiante, il candidato più promettente alla sostituzione del maestro quando si fosse avvicinato alla morte.

    Di solito esisteva un secondo cambiante, un’alternativa nel caso il primo fosse per qualche motivo risultato inabile. Per quanto riguardava Ondervood, si trattava di Henry Young, ma quello stronzo aveva deciso di morire in un incidente stradale giusto tre mesi prima e da allora non avevano ancora trovato un altro ricercatore adatto; dopotutto, avevano il grande Jason Pride come candidato numero uno.

    Grande, ma non abbastanza, si disse. Se solo fosse riuscito a fare qualche scoperta sensazionale, il contratto sarebbe stato rescisso e avrebbero trovato un altro sostituto per il dottor Ondervood. Quando aveva firmato quell’incolore pezzo di carta con l’inchiostro della sua penna, nero come il mantello della morte, l’aveva fatto sorridendo: ingenuamente credeva di diventare il migliore.

    Peccato: non sono stato abbastanza bravo da salire alla gloria…

    Si era illuso, aveva immaginato di ricevere il premio di ricercatore dell’anno e con esso il riscatto dalla figura di cambiante, fino a meritare anch’egli – Perché no? – il premio della lunga vita. Per molto tempo era stato sicuro di farcela e di superare il suo maestro, il più grande nel campo della genetica trascrizionale.

    Per quello aveva firmato. Perché ero convinto di potercela fare.

    Quegli anni di frenetica attività l’avevano obbligato a rimanere in forma, e lui aveva obbedito a quello che reputava un buon consiglio, facendone addirittura il suo stile di vita. Per ingenuità, come sempre.

    Secondo requisito: avere ottime condizioni fisiche.

    Poi si era sposato con Emily, dieci anni prima. Lei sapeva che lui aveva firmato quel mortale pezzo di carta, eppure non le importava. L’aveva sposato lo stesso. Non in chiesa però, anche se i genitori di lei erano cattolici: la Chiesa non accettava di sposare un cambiante, nonostante ciò fosse fonte di biasimo mediatico.

    Nei primi tempi, Jason aveva ricevuto messaggi – minacce? di svariate associazioni per i diritti umani. Volantini con frasi del tipo: Cosa ti sposi a fare? Tanto dovrai morire fra breve erano stati affissi nei pressi della sua abitazione. Associazioni maggiori e minori, tra cui le ben note Amnesty International, Purity e Save the world avevano sprecato tempo e denaro nell’inutile tentativo di fargli cambiare idea, o piuttosto per salire alla ribalta della cronaca. Rammentò che i giorni prima del loro matrimonio anche la Green Eco-Army aveva mandato un biglietto d’auguri molto particolare, e molto macabro: una piccola scatola contenente un ciuffo lanoso macchiato di sangue vero – sangue d’agnello, a quanto gli avevano detto gli inquirenti – e un biglietto che Emily aveva subito cestinato senza leggere. Un segno per ricordare a chi aveva firmato come cambiante di non essere altro che una vittima sacrificale dello Stato, pronto a essere immolato in nome di una pratica abominevole che considerava gli uomini come animali destinati al macello.

    L’Eco-Army, il cui simbolo è un fiore sanguinante su sfondo verde: c’erano anche loro a manifestare sotto l’ospedale.

    Poi le minacce erano terminate, il tempo volato, senza che accadesse nulla di rilevante. Sennonché, a un certo punto, il dottor Ondervood si era ammalato, e via via era andato peggiorando. Jason aveva quarantadue anni ed era in ottima forma fisica; nessun problema dunque: avevano il candidato adatto per il Transfer di Ondervood.

    Lo sguardo di Jason scivolò sui nomi dei file, senza riuscire a concentrarsi. «Fanculo», borbottò, sbattendo con forza un palmo sulla scrivania. Ci penserà chi verrà dopo di me, a sistemarli. Se dovessi controllarli tutti ci vorrebbe almeno un anno, e io non ho così tanto tempo. Cos’è che dicono quei gruppi eversivi? Ogni uomo è unico, io sono unico. Già, perché Ondervood dovrebbe vivere e io no? Forse potrei fare una grande scoperta domani, o la prossima settimana, chissà. Magari fra qualche anno potrei trovare la soluzione alla controversia di Francisco sullo spazio bilanciato, quella che fin dalla metà del XXI secolo assilla quei poveri mentecatti seguaci del grande matematico Shing-Tung Yao. O forse qualcosa di più diretto, come scovare un errore nel grande lavoro di Ondervood, qualcosa che ne distrugga la fama. Perché no? Eppure, per loro, non è possibile. Non ho più tempo. "Tic tac, Jason, tempo scaduto. Ti ringraziamo di aver partecipato, ma il gioco è finito. Il tuo gioco. Game over. Puoi renderci il biglietto d’entrata. Grazie tante."

    E tutto per una firma. Indissolubile. Un contratto per la vita, firmato tanti anni prima, da giovane. Niente ripensamenti possibili. Tutto legale.

    Jason si alzò, incapace di rimanere ancora lì. Si precipitò fuori da quello che fino a quel momento era stato il suo ufficio, sopraffatto dalle emozioni. Il computer si sarebbe spento automaticamente poco dopo.

    3.

    Registrazione n. 397/SSY12 IH, h. 09:17, td: 03:50, 2093/05/08

    «Il processo non è lungo, richiede solo qualche mese. I Nano-neurobot 3000 accompagnano lo sviluppo del cervello a partire da semplici cellule staminali, in questo caso quelle del dottor Jason Pride, e replicano via via le giuste connessioni come da istruzioni, considerando anche il peso e la forza sinaptica di base. Durante la crescita intervengono in modo progressivo su ogni singolo neurone, adattandone la configurazione. Ovviamente alla base c’è un’oloscansione tridimensionale del soggetto – in questo caso del suo cervello, dottor Ondervood – da cui si ottiene una neuroimaging perfetta. L’immagine è il risultato della somma di differenti tecniche analitiche abbinate, un mix di metodiche complementari, quali la risonanza magnetica funzionale, che mappa il flusso sanguigno, la magnetoencefalografia, per individuare le correnti elettriche, l’analisi connettomica e la picoscopia IR, solo per citarne alcune. Senza considerare le analisi protette da riservatezza. Per ragioni di tempo, necessario per la formazione del nuovo cervello, l’ultima scansione viene di solito eseguita qualche mese prima del Transfer – nel suo caso sei mesi fa – per cui le sue ultime memorie andranno perse; non è possibile fare altrimenti, visto il tempo di genesi dell’organo e, purtroppo, il deperimento di alcune sue capacità neurofunzionali.»

    «Quindi, alla fine di questo allucinante trapianto partorito dalla visione del peggior film horror, mi sveglierò nel corpo del mio assistente, giusto? E sarò ancora io? Saprò davvero di essere io, anche senza la mia pellaccia?»

    «Certo! È naturale che ci vorrà qualche giorno prima che lei – o meglio il suo "nuovo lei" – possa riprendersi del tutto. Nei primi tempi potrà faticare un po’ ad accettare il suo nuovo corpo. È normale. È… È come guidare un nuovo modello di gripcar come la Mercedes Classe BC. All’inizio avvertirà le cose in modo diverso, da una prospettiva differente, ma poi tutto andrà a posto. Potrebbe anche piacerle di più. Senza dubbio avrà un corpo di nuovo forte, giovane, agile, con il vantaggio che il cervello, i ricordi, la personalità, saranno i suoi.»

    «È sicuro che riuscirò a fare le stesse cose che facevo prima, esattamente nello stesso modo? Non che facessi un granché negli ultimi anni, a parte compatire il mondo, ma si sa, le vecchie abitudini sono dure a morire. Non sarebbe male continuare a non far niente in un corpo giovane…»

    «Stia tranquillo. Per questo il Transfer non viene eseguito su individui a caso, ma su ricercatori nello stesso settore, e con un elevato QI. È come suonare il pianoforte; ci vedrebbe, lei, un contadino a pigiare su una tastiera con rozze mani piene di calli, avesse anche il cervello di Rachmaninov? No, non avrebbe mai la stessa abilità. C’è una parte di capacità intellettiva, di memoria, di funzionalità che non risiede nel cervello ma è distribuita nel corpo, soprattutto negli organi che trasportano le informazioni. Per questo il passaggio deve avvenire tra persone che condividono la medesima formazione lavorativa. Il dottor Pride è il candidato ideale: valente, giovane, e opera sotto la sua direzione. Gli manca solo quel briciolo in più che invece contraddistingue un genio come il suo.»

    «Lo so che Jason è il candidato ideale. È brillante come lo ero io alla sua età, sebbene più lento a cambiare prospettiva, più fossilizzato sulle sue idee. In definitiva, non così dotato come immaginavo. Devo però ammettere che mi dispiace per lui. Abbiamo lavorato parecchio insieme. Come l’ha presa? Non è una notizia facile da accettare. Di solito mi aggiorna di persona, ma non l’ho visto qui al mio capezzale, oggi. È anche vero che sono imbottito di farmaci fino al midollo, forse russavo e lui se l’è svignata, oppure potrebbe averla presa un po’ troppo, diciamo, sul personale, non so se mi spiego.»

    «Siamo sicuri che stia bene, dottor Ondervood. È nostra procedura sorvegliare tutti i cambianti. Anche in questo momento è tenuto sotto controllo, e direi che si sta comportando molto bene.»

    «Nonostante la mia età, credetemi, non sono ancora del tutto fuori di testa. Ditemi, perché glie l’avete comunicato così tardi? Il Transfer è domani. Perché l’avete informato della data solo l’altro ieri? Dopotutto mi avete detto che il cervello è in coltura già da alcuni mesi e il mio peggioramento non arriva certo a ciel sereno, anche se devo dire che in questo momento mi sento in gran forma. Comunque sia, ci sono fior fiore di luminari che sanno anche prima di me quando devo andare a cagare, figurarsi se non conoscevano già da tempo quando sorella morte sarebbe venuta a reclamare questo vecchio guscio!»

    «È una questione di sicurezza, lei capirà. Alcuni individui non reagiscono bene alla notizia, anche se hanno firmato e sono stati ben ricompensati per questo. Sebbene abbiano deciso del proprio futuro in assoluta libertà, lasciargli molto tempo per riflettere significherebbe spingerli a commettere qualche pazzia. I dati dell’archivio, pur risalenti a quindici anni fa, indicano che il dottor Pride era consapevole della scelta che stava facendo. Per tornare ai giorni nostri, com’è ovvio, il dottor Pride non poteva conoscere la data esatta, ma non si può dire sia stato preso alla sprovvista. I network avevano subodorato la notizia già da tempo e gli stavano addosso da parecchie settimane. Le sue condizioni, dottor Ondervood, sono su tutti i notiziari, non solo nelle cartelle dei suoi eccezionali dottori. Se Jason non l’aveva capito… Beh, come ha detto lei, non è poi così dotato.»

    La testa gli doleva, ma era il sapore che sentiva in bocca a infastidirlo di più. Oltre a questo, si sentiva infiacchito, le gambe faticavano a sorreggerlo e lo stomaco minacciava di rivoltarsi. Nemmeno il viso era dei migliori, a giudicare dall’immagine che gli rendeva il grande specchio posto in sala da pranzo, davanti al quale era fermo già da un po’ di tempo.

    La sera prima ci aveva dato dentro. Si era scolato una bottiglia di Talisker invecchiato venticinque anni che teneva da parte per un’occasione speciale, naturalmente stupide fantasie da uomo con ancora una vita davanti. Alla festa aveva partecipato anche la sua Emily, che di norma beveva di rado, ma che aveva deciso di fare un’eccezione per fargli compagnia.

    Avevano bevuto come due diciottenni e fatto l’amore, più di una volta. E avevano bevuto di nuovo, e avevano fatto altro – se solo fosse riuscito a ricordarsi cosa. Di sicuro avevano vomitato, visti gli stracci sporchi e l’odore che li aveva accolti la mattina.

    E anche se ora il suo stomaco gli pareva aggrovigliato come un asciugamano sporco, non era affatto pentito di quella scelta. Carpe diem, si disse. Per alcune ore lui ed Emily avevano infatti dimenticato il domani, presi solo dalla follia del momento; erano riusciti a mentire a se stessi, stordendosi o stimolando i propri sensi.

    Alla fine, però, la realtà era tornata a imporsi, come sapeva sarebbe accaduto.

    La mente non può fermarsi. Almeno fino a quando qualcuno non decide il contrario. E stavolta per sempre.

    Aveva anche pensato di farla finita, di propria iniziativa. Ingoiare qualche manciata di pillole, tagliarsi le vene con un rasoio, spararsi in testa – sempre che fosse riuscito a procurarsi una pistola – solo per fare un dispetto a loro. Per avere una possibilità di vittoria, per riappropriarsi del suo futuro. Per poter esercitare un’ultima volta il libero arbitrio.

    In fondo, non è questa la vita? rifletté. Quand’è che un uomo può decidere del suo destino? Sappiamo forse quando una vettura ci verrà addosso o il momento in cui ci coglierà un infarto? Cosa c’è di diverso in questo caso? È sempre qualcun altro o qualcos’altro a decidere per noi. I credenti lo chiamano Dio, i non credenti fato o destino, ma il risultato non cambia. Certo, molti oggigiorno sono soliti scegliere il suicidio assistito, anche se si tratta soprattutto di anziani soli o di malati stanchi di soffrire.

    Non era però il suo caso. Lui era vivo, pieno di vita, e con una moglie meravigliosa, che l’amava. L’unico rimpianto era di non avere avuto figli e, alla fine, forse era stato meglio così.

    «Come ti senti?» Una faccia impastata dal sonno era comparsa nel vano della porta. Emily indossava solo una corta canottiera grigia e un paio di slip sgambati, una visione sexy e tuttavia incapace di suscitare in lui una qualche velleità erotica, almeno per il momento. Jason preferì non rispondere per evitare battute amare del tipo: Bene, finché dura, o In modo splendido, non vedi che sto morendo?. Dopotutto, cosa poteva rispondere un condannato a morte che godeva di ottima salute?

    Si lasciò invece abbracciare da dietro, godendo del contatto e del calore del corpo di lei, percependo le forme invitanti del suo seno sotto la stoffa leggera.

    Emily si era presa un giorno di ferie inventando una scusa – Potrebbe forse chiedere un lutto anticipato? si domandò Jason – e lui le era davvero grato; senza di lei non avrebbe retto e sarebbe di certo impazzito. Già si vedeva nell’atto di prendere un coltello dalla cucina e piantarselo nel collo, cercando di aprire un buco nero come il suo dolore.

    Si fissò di nuovo nel largo specchio davanti a loro, cercando indizi della follia che minacciava di travolgergli la mente. Nonostante l’abbozzo di un’incipiente pancetta, l’immagine rivelava un fisico magro e asciutto sotto la maglietta in fibre di alghe. Spiccava un volto segaligno ma non troppo spigoloso, non rasato e segnato da profonde occhiaie, capelli corvini con qualche filo bianco. Un volto piacevole – ne era sempre stato fiero – non indifferente alle donne, come dimostrava il più piccolo e rotondo viso che cercava di distrarlo dal suo tetro sogno di autodistruzione dandogli piccoli baci. Le labbra morbide di Emily gli premevano contro il collo e i suoi lunghi capelli lo accarezzavano.

    «Non dovresti prepararmi un’abbondante colazione?» le chiese nel tentativo di sfuggire a quell’assalto di tenerezza, indeciso se resistere o lasciarsi andare. Tuttavia non poté trattenersi dal proseguire: «Sai, devo essere in ottima forma per domani…»

    Lei si staccò di scatto, gli occhi a metà tra il pianto e l’arrabbiato. «Sei uno stronzo», inveì, facendo una lunga pausa prima di continuare. «Però ti amo e lo farò per te.»

    Emily si allontanò rapida prima che lui potesse trattenerla. Forse è meglio così, si disse, lasciami cuocere nel mio brodo.

    «Ho un bel mal di testa, sai? Spero di passarlo a Ondervood, una piccola vendetta», le gridò dietro con fare sarcastico.

    Nessuna risposta dalla cucina, se non l’acciottolio di stoviglie e il rumore della macchinetta del caffè. Non poteva biasimarla. Nello stesso momento si sentiva addolorato, frustrato, furioso… e stronzo.

    «Fanculo a loro», soffiò battendo un pugno contro la credenza al suo fianco. Il suono riecheggiò sordo, accompagnato da una profonda vibrazione. Quanto vorrei fregarli! Magari sbattendo la testa contro lo specchio fino a farla diventare una massa sanguinante. Anche un frammento di vetro sarebbe un’ottima arma… Oppure andarmene via. Già, perché no? Meglio che farsi fuori con le proprie mani. Perché non lasciare tutto e fuggire con Emily?

    Jason si voltò verso la cucina. Era un’idea folle, o meglio stupida: non l’avrebbero di certo lasciato andare via come nulla fosse stato. Era forse sorvegliato per impedirgli di fuggire? Dopotutto non sono il primo a subire tale sorte; figurarsi se qualcuno, in passato, non ha già tentato di squagliarsela, rifletté. Eppure, non aveva mai sentito di un Transfer fallito per la fuga del cambiante. Come mai?

    «La colazione è pronta», chiamò Emily dalla cucina, la voce incrinata. Jason abbandonò con rammarico quei pensieri e la raggiunse. Subito notò che aveva pianto.

    La mia Emily! Fottuti bastardi, vi metterò in conto anche questo, si disse, anche se sapeva che, almeno in parte, il dolore che Emily provava era colpa sua. Tentò di fare finta di nulla, le mascelle serrate come i pugni di un bambino capriccioso, eppure udì la sua voce sbottare improvvisa, sorprendendo persino se stesso: «Ti chiedo scusa. Non dovevo dire quelle…»

    Lei non gli lasciò il tempo di finire la frase e gli si buttò tra le braccia. «Non dobbiamo litigare, non possiamo…» Non riusciva a proseguire, le parole rubate dalle lacrime.

    «Su, su, non fare così», la consolò lui. «E se provassimo ad andarcene? Intendo, a fuggire da qualche parte? Entro qualche ora potremmo essere fuori dal confine. Se no, potremmo nasconderci, magari a nord di Glasgow, in una baita sperduta, solo tu e io. Potremmo tentare, appena farà buio.»

    Emily alzò lo sguardo su di lui in una muta richiesta di spiegazioni.

    «Perché no? Dopotutto, cos’ho da perdere? Cosa possono farmi? Mandarmi in prigione? E se ci riprendessero dopo qualche giorno, beh, meglio un po’ di tempo in più che niente… Non sei convinta, eh? È una stronzata, lo so, ma perché non provare? Non abbiamo niente da perdere, no? Forse non faremo più di cento metri, ma fare qualcosa è meglio che stare qui a piangerci addosso, non credi? Ne avevamo già parlato tempo fa e allora non mi eri sembrata particolarmente contraria. Dai, fottiamo quei bastardi! Insieme.»

    4.

    Registrazione n. 445/SSB1 IH, h. 10:24, td: 04:24, 2093/05/08

    «Signore, abbiamo un 12C

    «Ne sei sicuro?»

    «Sì.»

    «Fammi sentire…»

    (rumori prolungati di sottofondo)

    «Sì, è confermato. Va bene, me l’aspettavo, il quadro psicologico lo prevedeva. Ci penso io. Mettimi in contatto audiovisivo con loro, tra… diciamo… trenta secondi, il tempo di aggiustarmi la cravatta.»

    1973 di James Blunt, la suoneria impostata per le videochiamate, echeggiò all’improvviso per tutta la casa.

    Jason sobbalzò, rischiando di sbattere la testa contro un’anta della cucina, e a Emily sfuggì un grido stridulo. La decisione presa li faceva sentire tesi come corde di violino. Al contrario di famosi criminali come Bonnie e Clyde, il loro livello di paura era altissimo, insieme alla quota di adrenalina, come due ragazzini impegnati a rubare un olopad da un negozio.

    Chi poteva chiamarli?

    L’olovideo fremeva impaziente su una parete, mentre i fittizi pesciolini dell’acquario schizzavano qua e là, in attesa di svanire e lasciare il posto al viso dell’interlocutore. Nell’acqua si muoveva una scritta minacciosa Utente sconosciuto, accettare la chiamata?

    Jason ed Emily si guardarono indecisi.

    «Forse è meglio rispondere. Non dobbiamo alimentare alcun sospetto.»

    Anche se nessuno era ancora in ascolto, Emily, senza accorgersene, aveva sussurrato. Si misero in piedi dietro il divano, come statue di cera del Madame Tussaud, prendendosi per mano per incoraggiarsi.

    Jason rifletté un attimo, si guardò intorno alla ricerca di un qualche involontario indizio che potesse rivelare una loro imminente partenza, e in qualche modo soddisfatto, pronunciò: «Accetto.»

    I loro muscoli, già irrigiditi, si contrassero ancora di più quando sul video apparve il mezzobusto dell’accomiatante, proprio colui che temevano di più.

    Deve averci spiato… Altrimenti, perché si sarebbe fatto vivo proprio adesso? Dobbiamo andarcene subito. Scappare, scappare veloci finché siamo in tempo. Forse non può fermarci, per questo ci ha chiamati: per prendere tempo. Potremmo far perdere le nostre tracce: Londra è così grande e caotica…

    «Salute a voi!» La voce era squillante e sul suo viso era stampato un ghigno strafottente, quanto di peggio Jason si potesse aspettare. Anche il saluto, rifletté, è velato di ironia: che salute si può augurare a un condannato a morte? e serrò forte i pugni.

    «Vedo che siete ancora in pigiama… Bene, non c’è niente di meglio di una buona notte di sonno per affrontare ogni circostanza con serenità. D’altronde è importante vivere bene ogni attimo. È il sale della vita, non è vero? Non importa quanto viviamo ma come viviamo…»

    «Che cosa vuole?» lo interruppe Jason in modo brusco.

    La bocca sottile sotto il naso pronunciato, che ben si accordava al viso squadrato dalla fronte ampia e alla tipica carnagione olivastra dei popoli di origine latina, si aprì in un sorriso gelido.

    «Fa parte dei miei doveri assicurarmi che il cambiante stia bene, fisicamente e psicologicamente. Non siete andati al lavoro, oggi… Oh, lo capisco, è normale, ma tenersi impegnati aiuta a non fare brutti pensieri. Vedete, ho già assistito a numerosi Transfer. Il cambiante ha dei comportamenti standard, che ben conosco, e ha sempre bisogno di aiuto, anche se a volte non lo sa neanche lui. Lei è stato valutato dal dottor Steward come un buon

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