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Il leone d'agosto: L'uomo che deviò la storia
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E-book281 pagine4 ore

Il leone d'agosto: L'uomo che deviò la storia

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Info su questo ebook

Quella mattina del 3 agosto del ’49, quando esausto si ritrovò a mettere piede sulla spiaggia poco più a nord di Magnavacca, Giuseppe Garibaldi era distrutto, era un uomo finito. Mentre seduto sulla spiaggia sotto il sole, con il corpo agonizzante di Anita fra le braccia, guardava allontanarsi i pochi uomini che ancora gli restavano, accadde un fatto inaspettato, a suo modo straordinario. Un uomo, chissà per quale fortuita coincidenza, comparve sulla scena all’improvviso, un piccolo uomo, intelligente e coraggioso, che veniva da Comacchio. Gioacchino Bonnet, per tutti Nino
LinguaItaliano
Data di uscita1 mar 2021
ISBN9791220271103
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    Anteprima del libro

    Il leone d'agosto - Luigi Bosi

    DIGITALI

    Intro

    Quella mattina del 3 agosto del ’49, quando esausto si ritrovò a mettere piede sulla spiaggia poco più a nord di Magnavacca, Giuseppe Garibaldi era distrutto, era un uomo finito. Mentre seduto sulla spiaggia sotto il sole, con il corpo agonizzante di Anita fra le braccia, guardava allontanarsi i pochi uomini che ancora gli restavano, accadde un fatto inaspettato, a suo modo straordinario. Un uomo, chissà per quale fortuita coincidenza, comparve sulla scena all’improvviso, un piccolo uomo, intelligente e coraggioso, che veniva da Comacchio. Gioacchino Bonnet, per tutti Nino

    PRESENTAZIONE

    La vita di Giuseppe Garibaldi, al di là della retorica che invariabilmente l’accompagna e delle forzature agiografiche, fu indubbiamente avventurosa e assai movimentata, costellata di successi e d’imprese gloriose, ma anche di momenti difficili, d’avversità e di sconfitte. Nelle circostanze sfortunate, comunque, il suo forte carattere e la sua determinazione gli hanno sempre consentito di superare le situazioni avverse, di andare oltre.

    Eppure, quella mattina del 3 agosto del ’49, quando esausto, dopo un giorno e una notte di continuo cannoneggiamento in mare, si ritrovò a mettere piede sulla spiaggia poco più a nord di Magnavacca [attuale Porto Garibaldi (Fe)], Garibaldi era distrutto, era un uomo finito. Ogni suo sogno se n’era andato in fumo, ogni suo progetto era fallito. La Repubblica Romana, e mazziniana, che tante vite era costata, ormai non c’era più. L’idea d’accorrere a sollevare le popolazioni dell’Italia centrale era miseramente naufragata in una serie d’incredibili insuccessi, di porte sbattutegli sul muso, di avvilenti malintesi: come se, anziché il liberatore, l’invasore fosse lui. Pure il suo piano di riserva, il piano B, quello cioè d’imbarcarsi con i pochi uomini che ancora gli erano rimasti per andare a Venezia, a dare una mano a quella brava gente che là ancora resisteva, pure quello era fallito in una notte d’inferno, quando la flotta austriaca l’aveva intercettato e l’aveva costretto a prendere terra.

    Ma forse tutte queste avversità non sarebbero bastate a sopraffarlo, a metterlo in ginocchio, se un’altra disgrazia non gli fosse nel frattempo capitata, una disgrazia per lui ben più grave d’ogni altra. La sua donna, la giovane Anita, la madre dei suoi figli, colei che da anni gli stava al fianco, all’improvviso s’era ammalata. Ma non ammalata così, tanto per dire. Ammalata per davvero, da far paura. Un attacco di malaria, qualcuno aveva detto: ma lui alla malaria ci credeva poco. La sua donna tutto a un tratto gli si stava spegnendo fra le braccia, lui per primo se ne rendeva conto.

    Ecco le ragioni per le quali, quella mattina d’agosto, dopo aver preso terra, Garibaldi era talmente confuso e disperato da non sapere più cosa poter dire alla sua gente. Un solo comando gli riuscì di dare, l’ultimo per lui, quello più terribile, il più definitivo: " SI SALVI CHI PUÒ". L’ordine che nessun soldato vorrebbe mai che uscisse dalla bocca del proprio Comandante, perché il suo significato è a tutti molto chiaro: … non c’è più niente da fare, tutto è perduto: perciò ciascuno pensi per sé, alla propria pelle, e Dio per tutti.

    Eppure, come se tutto questo non bastasse, in quel momento, su quella spiaggia, non solo c’era un uomo finito, un uomo distrutto per le ragioni che s’è detto prima, in particolare per la sorte maligna che s’accaniva contro la sua donna. Purtroppo un nuovo pericoloso sentimento in lui si stava facendo strada, un sentimento che veniva a complicare tutta la faccenda. Garibaldi in quel preciso istante, per la prima volta nella sua vita avventurosa, era rassegnato. Già, proprio così: Garibaldi aveva rinunciato a reagire, a combattere come in tante altre occasioni aveva fatto. In cuor suo aveva deciso di lasciarsi andare: che lo prendessero pure, i suoi nemici, che la facessero finita, una buona volta. Lui era pronto, era rassegnato.

    In effetti, mentre seduto sulla spiaggia sotto il sole, con il corpo agonizzante di Anita fra le braccia, guardava allontanarsi i pochi uomini che ancora gli restavano, (tutti se ne stavano andando, tranne il Leggero che era tornato indietro), lui sapeva benissimo che di lì a poco sarebbe stato fatto prigioniero dagli Austriaci, i quali non avrebbero perduto un solo istante a sbarazzarsi una volta per tutte dell’ingombrante personaggio. Ed è altrettanto chiaro che, se ciò fosse avvenuto, la Storia d’Italia avrebbe preso una piega ben diversa.

    Ma a quel punto successe un fatto inaspettato, in un certo senso straordinario. Un uomo, chissà per quale fortuita coincidenza, comparve sulla scena all’improvviso, un piccolo uomo, intelligente e coraggioso, che veniva da Comacchio. Gioacchino Bonnet, per tutti Nino, quella mattina s’era svegliato molto presto. Anzi, a dire il vero, aveva dormito poco e niente quella notte. Le notizie strabilianti che il giorno avanti da più parti gli erano giunte, che Garibaldi e i suoi erano in fuga, decisi a raggiungere Venezia, così come le cannonate che s’erano udite per l’intera notte, gli avevano fatto balenare in testa strani pensieri. Ma chi è che spara?... E a chi, stanno sparando?... Ma vuoi vedere che…

    Così era andato. Aveva attaccato la cavalla al calessino, ed era andato. E, cosa ancor più sorprendente, l’aveva trovato. Sì, proprio così: aveva trovato il Generale nel momento peggiore di tutta la sua vita. Un uomo distrutto e, come s’è detto, pure rassegnato, incapace di prendere una qualsiasi decisione. Non più in grado addirittura, per sua fortuna, d’opporsi a chi voleva fargli fare qualcosa che non fosse stato lui a pensarla. Per quella volta Garibaldi infatti si lasciò condurre per mano, là dove altri per lui avevano deciso.

    E cosa aveva deciso Bonnet, per tentare di salvare Garibaldi, per sottrarlo alle grinfie degli Austriaci che ormai gli erano addosso? Per prima cosa d’allontanarlo dalla spiaggia. In secondo luogo di portarlo in valle, in un ambiente cioè a loro congeniale, dove il nemico invece non sapeva come muoversi. In terzo luogo, di fargli compiere un percorso all’inverso di quello che gli Austriaci pensavano che avesse intrapreso, vale a dire in direzione sud, verso Ravenna, mentre quelli era a nord che lo stavano cercando, in direzione di Venezia.

    Gran bella pensata, quella, indubbiamente geniale nella sua semplicità, che valse a dare ai fuggitivi almeno una giornata di vantaggio sui loro inseguitori. Ma tutto questo in fondo non bastava: così subito dopo il Bonnet s’era posto un’altra domanda, ancora più importante della prima. Sì, d’accordo, la valle è il luogo adatto. Ma dopo?... Dopo, di questa gente, cosa ne facciamo?

    E qui interviene la seconda meraviglia di tutta questa storia. Salta fuori la complessa rete dei liberali romagnoli, una perfetta intelligence si direbbe oggi, che a Mandriole, dove Anita, com’era facile presumere, il giorno seguente era spirata, si fanno carico dei due superstiti e poco a poco li porteranno in salvo, passandoseli dall’uno all’altro, da un luogo a quello successivo, fra mille difficoltà, superando pericoli ed ostacoli. E così fino a fargli raggiungere Ravenna, e poi Forlì, e poi i confini della Legazione, fino al Granducato di Toscana ed oltre.

    I due alla fine torneranno a casa, e la Storia riprenderà il corso che noi bene conosciamo. Ma se quella mattina d’agosto, sulla spiaggia, il Bonnet avesse ritardato di mezz’ora?... Se gli Austriaci fossero giunti sul posto prima di lui?... Beh, la Storia sarebbe stata certamente un’altra, ben diversa da quella che tutti noi abbiamo appreso fin dai lontani tempi della scuola.

    L’Autore

    IL LEONE D’AGOSTO

    L’UOMO CHE DEVIÒ LA STORIA

    CAPITOLO 1.

    Martedì 31 luglio 1849 - San Marino.

    Con un sospiro, il Generale si lasciò andare sulla sedia. Era sfinito, stanco come da tempo non gli capitava. Nella penombra della stanza la frescura della sera tardava a entrare. La giornata di fine luglio ancora una volta era stata torrida. Avevano marciato per ore, come del resto facevano ogni giorno da quando avevano lasciato Roma, e tutti erano esausti. Ma alla fine un piccolo spiraglio pareva essersi aperto, una pausa forse, il tempo se non altro per tirare il fiato e decidere il da farsi.

    Alcuni incaricati dei Capitani Reggenti s’erano resi disponibili ad incontrare quelli del feldmaresciallo Costantino d’Aspre per raggiungere un accordo, circa l’ingombrante presenza di Garibaldi e dei suoi uomini nel territorio della Repubblica, e pareva che una soluzione si sarebbe potuta trovare, a patto di giungere a una resa. La neutralità di San Marino sarebbe stata rispettata, almeno per quarantotto ore, tanto da dar loro il tempo di rendersi conto, dopo tante peripezie e tante avversità, della grave situazione in cui si trovavano. Una resa onorevole, sia pure senza condizioni, poteva ancora rappresentare, giunti a quel punto, un’accettabile via d’uscita. Quarantotto ore per pensarci, non un minuto di più: così aveva detto il d’Aspre.

    Eppure non era per quanto fino a quel momento era successo, che il Generale si sentiva così spossato. Lui, del resto, era abituato ad affrontare le avversità, le situazioni più difficili, a sopportare la fatica. Non era per questo motivo che si sentiva così svuotato, privo d’ogni risorsa, lo sapeva bene. Era Anita, che lo preoccupava. Cosa stava accadendo alla sua donna?

    Quante volte non si era sentita bene in tutti quegli anni, eppure aveva sempre continuato a cavalcare al suo fianco. In sella aveva portato a termine pure le gravidanze, senza mai lamentarsi, senza mai concedersi un momento di pausa. Anche quando la prendevano gli attacchi di quartana, di quella maledetta malaria che aveva contratto nel lontano Pantanal e che da anni si portava dietro, anche in quelle occasioni, nonostante la febbre che la divorava, bastava un giorno di riposo, al massimo due, e via come se niente fosse successo.

    Ma questa volta era diverso. Quel ch’era accaduto soltanto alcune ore prima ancora lo lasciava sgomento. Cavalcavano fin dal mattino, con poche soste e di breve durata, perché i soldati dalle braghe dentro gli stivali, così loro per scherno chiamavano gli austriaci, non gli davano un attimo di tregua. Bisognava stare attenti alle imboscate. Gli uomini del d’Aspre erano sempre lì, a tormentarli. Ancora il grosso dell’esercito austriaco non era riuscito ad impegnarli. Il d’Aspre, del resto, lui lo conosceva bene: già l’anno precedente, nella guerra del Piemonte contro l’Austria, lui aveva avuto occasione di misurarsi con quell’ufficiale. Era in gamba, bisognava riconoscerlo, ci sapeva fare. Però era lento, gli ci voleva del tempo per prendere le necessarie decisioni. E lui ne aveva sempre approfittato, riuscendo ogni volta a prevenirlo.

    Sempre così, del resto, era stata la storia di quei giorni, fin da quando erano usciti da Roma. Dopo i Francesi, che ben presto s’erano stancati d’inseguirli e avevano preferito passare la mano agli Austriaci, il d’Aspre con i suoi era stato sempre lì, sulle loro code, ma loro ogni volta erano riusciti ad evitare l’ingaggio. Con tutto ciò qualche drappello distaccato, qualche pattuglia in perlustrazione, c’era sempre la possibilità che li cogliesse di sorpresa e che li attaccasse. Era da questi che bisognava guardarsi, stare attenti, perché qualche danno lo potevano sempre fare. Quei maledetti poi parevano mettercela tutta, nell’accanirsi contro i poveracci sui quali riuscivano a mettere le mani. Niente prigionieri, niente processi, niente di niente. Per la " Legge Stataria Militare", una delle pensate meglio riuscite degli Austriaci, che in faccende del genere erano maestri, se un garibaldino fosse stato preso con le armi in mano sarebbe stato messo subito al muro, lì sul posto, dove si trovava. Come un cane, come un brigante qualsiasi.

    Ma a questo genere di vita loro erano abituati, andava ripetendosi, non era questo che lo preoccupava. Il fatto invece che tanto l’aveva impressionato era avvenuto a qualche miglio dal confine con San Marino. Da poco erano riusciti a sganciarsi da un drappello di cavalleggeri in perlustrazione che li aveva sorpresi e attaccati poco prima, quando a un tratto Anita aveva arrestato il cavallo ed era scesa a terra.

    Senza dire niente, come era solita fare in quelle circostanze, era andata ad accucciarsi dietro un cespuglio, senza un gemito, senza dire una parola. Quando lui se n’era reso conto, lì per lì aveva pensato a un qualche bisogno fisiologico. La gravidanza, che portava avanti ormai da sei mesi, le creava spesso, come si sa del resto, necessità improvvise. Ma poi era stato il giovane Villani, uno dei suoi, che era venuto di corsa ad avvertirlo.

    Venite, Generale. La Signora non si sente bene.

    Lui subito era andato. Anita stava a terra, pallida da far paura e tutta sudata. Si teneva il ventre come se dovesse scoppiarle da un momento all’altro. Doveva soffrire molto, eppure non si lamentava.

    "Cosa ti succede, mi querida?"

    "Niente Josè, non ti preoccupare. Adesso mi passa, vedrai".

    In realtà erano occorsi parecchi minuti, prima che la donna fosse in grado di riprendersi. Sorretta dal suo uomo e dal Villani, alla fine era riuscita a rimettersi in piedi e ad avviarsi verso la cavalcatura.

    No, lascia perdere il cavallo. Ti mettiamo sul carro, così puoi viaggiare distesa. In fondo per San Marino mancano soltanto un paio d’ore.

    Così era stato fatto. Mentre la donna veniva fatta distendere su di alcuni sacchi di farina, il Generale la osservava preoccupato. Tanto sofferente, e tanto pallida, lui non l’aveva mai vista prima. Venne mandato a chiamare il dottor Martini, che si trovava nelle retrovie, il quale subito li aveva raggiunti e pure lui era salito sul carro.

    La marcia era ripresa, e ben presto, non appena ebbero superato l’ultimo dosso boscoso, le tre penne della piccola Repubblica erano comparse in lontananza. I Reggenti avevano mantenuto le promesse fatte a don Stefano, mandato avanti con alcuni compagni per prendere gli accordi necessari. Il Ramorino era ad attenderli alle porte della cittadina, per accompagnarli dov’erano stati destinati per l’alloggiamento, vale a dire al vecchio Monastero dei frati Cappuccini, subito fuori delle mura.

    Lì avrebbero potuto stare per quarantotto ore, il tempo di prendere una decisione: poi avrebbero dovuto arrendersi. Così almeno era stato concesso dagli Austriaci, non un minuto di più. In caso contrario la neutralità della piccola Repubblica sarebbe venuta meno. In parole povere, San Marino sarebbe stata invasa dalle truppe austriache! Il vecchio convento si prestava benissimo allo scopo, del resto era un mese che non avevano più avuto occasione di riposare fra quattro mura. Da quando avevano lasciato Roma era stata tutta un’avventura. E purtroppo, non a lieto fine.

    Lui sinceramente a lungo aveva creduto che, dopo quanto era successo nella Città Eterna, vale a dire la proclamazione della Repubblica, l’eroica resistenza contro i Francesi e contro i Borboni, e tutto il resto, gli Italiani fossero pronti a insorgere, a ribellarsi allo straniero, a scrollarselo di dosso. In questo senso s’era impegnato con i suoi. L’ultima volta che aveva arringato la folla, poco prima di partire, in una piazza San Pietro gremita fino all’inverosimile, pareva che tutti fossero pronti a seguirlo.

    Nonostante lui si fosse ben guardato dal promettere ricompense o chissà che altro, la gente non aveva esitato a restargli al fianco. In diverse migliaia s’erano fatti trovare verso sera in piazza San Giovanni, dove lui aveva dato appuntamento, e con quelli al seguito s’era lasciato Roma alle spalle per andare a portare la sollevazione generale nei territori dello Stato della Chiesa, quanto meno nell’Italia centrale, in Umbria, nelle Marche, in Toscana. Lui, del resto, era convinto che quella gente non stesse aspettando altro.

    Ma s’era sbagliato, e della grossa! Del resto, quanti errori aveva commesso, in quegli ultimi mesi! Quante giovani vite erano state sacrificate invano!... Solo adesso se ne rendeva conto. Si levò in piedi, prese la brocca dell’acqua e ne versò un poco nel catino: aveva un estremo bisogno di rinfrescarsi, ma soprattutto di schiarirsi le idee.

    Non era stato difficile eludere dapprima i Francesi, poi gli Austriaci che ne avevano preso il posto. Niente meno che il feldmaresciallo d’Aspre, il luogotenente del Granducato di Toscana, gli avevano messo alle costole, un uomo in gamba, ottimo stratega. Ma che con gente come loro non sapeva muoversi. Loro erano abituati a scivolare nel buio, a non farsi sorprendere. La guerriglia, del resto, era il loro pane, ogni giorno era la stessa storia. Il d’Aspre invece avrebbe voluto un esercito schierato sul campo di battaglia, davanti a lui: allora sì che gliel’avrebbe fatta vedere! Anche perché, conoscendo il suo uomo, quel Giuseppe Garibaldi che soltanto un anno prima gli aveva fatto vedere i sorci verdi in Lombardia, per l’occasione aveva mobilitato un esercito da far paura, con più di ventimila uomini, con tanto di cannoni e di cavalleria. Ma loro niente, la soddisfazione d’uno scontro in campo aperto non gliela avevano voluta dare, così erano sempre riusciti a precederlo, a non farsi incastrare.

    No, non erano stati gli Austriaci a deluderlo. Purtroppo, erano stati gli Italiani!... Arezzo gli aveva chiuso le porte in faccia, e così pure Città di Castello, come se fosse lui l’invasore. Ma lui da quelle parti era andato per sollevare la popolazione, non certo per fare conquiste! I suoi uomini del resto da un pezzo l’avevano capito, che quella gente ancora non era pronta per essere liberata. Così, ben presto delusi, sfiniti da tutti quei giorni di continui disagi e di pericoli, poco per volta se n’erano andati, erano tornati alle loro case. Per lo meno quelli che erano riusciti ad oltrepassare le linee austriache, perché in caso contrario, quando cioè cadevano nelle mani del nemico, venivano passati per le armi lì dove si trovavano, senza tanti complimenti, com’era successo solo qualche giorno prima al capitano Basilio Bellotti, il comacchiese, e a cinque dei suoi. Poco per volta gli uomini che con il Generale avevano lasciato Roma lo abbandonavano, come del resto è consuetudine in un esercito d’irregolari i quali, quando vengono meno le motivazioni che li hanno fatti accorrere, con altrettanta rapidità se ne vanno per i fatti loro.

    Fatto si è che a San Marino erano arrivati in non più di mille, stremati e male equipaggiati. Anche l’ultimo cannone che s’erano portati dietro, pure quello avevano dovuto abbandonare lungo la strada.

    Adesso il momento era venuto di prendere una decisione, e come al solito questo era un compito che spettava a lui, a lui soltanto. Se non che adesso, a complicare tutta la faccenda, c’era pure la strana malattia della sua donna. Al solo pensarci gli si stringeva il cuore. Tutto lui poteva affrontare, non c’era nulla che lo potesse fermare. Ma il pensiero che la sua donna stesse male, quello proprio non lo poteva sopportare. Gli rendeva difficile anche il solo pensare a qualcosa d’altro. Eppure, quello era il momento che bisognava essere lucidi, non si poteva esitare. Un’incertezza, una mossa sbagliata, e avrebbe potuto essere la fine per tutti loro.

    Il progetto con cui erano partiti un mese prima da Roma, quello di sollevare le Marche e l’Umbria, era fallito miseramente. I territori della Stato della Chiesa non erano ancora pronti, bisognava prepararli, lavorarci sopra. Occorreva pensare subito a un’alternativa. Un’idea che gli mulinava da qualche tempo per la testa, lui l’aveva. La cosa migliore che ancora avrebbero potuto fare era di correre a Venezia, a dare una mano a quella brava gente. La Repubblica, a quanto si diceva, ancora resisteva, ma di giorno in giorno la situazione si faceva sempre più critica. Il loro arrivo sarebbe servito se non altro a dare una nuova spinta, a rinfocolare gli animi.

    Sì, arrivati a quel punto, questa forse era la sola alternativa che ancora gli restava. Con ogni probabilità questa sarebbe stata la giusta decisione da prendere. Ma ancora una volta si rese conto che l’angoscia per le condizioni di salute di Anita non gli permettevano di ragionare con la lucidità necessaria. Il momento era delicato.

    È il caso che vada ad accertarmi di persona di come sta quella poveretta. Forse mi metterò tranquillo e potrò meglio decidere il da farsi.

    Uscì dalla stanza e prese a percorrere il vasto corridoio sul quale s’aprivano le porte delle celle lasciate spalancate perché circolasse un poco d’aria. La sua gente era dappertutto. Ovunque si girasse c’erano brande, materassi e sacchi a pelo stesi sul pavimento, sui quali giacevano uomini esausti. Nonostante tutte le porte e le finestre fossero aperte, nell’aria aleggiava un forte odore di ferite infette e di sudore. Per un istante il Generale s’arrestò interdetto a osservare quello spettacolo che inevitabilmente gli diede una stretta al cuore. Ma subito si riprese.

    Giunto in fondo al corridoio, aprì adagio l’unica porta rimasta chiusa, quella della stanzetta dov’era stata sistemata Anita. Un cattivo odore di malattia pure lì lo investì all’istante, facendogli per un attimo stringere lo stomaco. Il ronzio inquietante delle mosche era continuo. Nella penombra della cella s’intravedeva

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