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Il soldato che correva: Il diario di Edoardo G.
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E-book507 pagine6 ore

Il soldato che correva: Il diario di Edoardo G.

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Info su questo ebook

Un coinvolgente romanzo sulla Grande Guerra, la storia di un giovane soldato catapultato dalla provincia all’ostile ambiente dolomitico. Un dettagliato affresco degli avvenimenti dove la quotidianità della vita dei combattenti si intreccia magistralmente con la grande storia. Il diario di Edoardo G. narra l’intero corso del primo conflitto mondiale, dai primi inattivi giorni di guerra, carichi di interrogativi sul proprio destino, all’inferno delle battaglie combattute in un ambiente unico al mondo, quello delle Tre Cime di Lavaredo, del monte Piana, delle Tofane, spesso in condizioni ambientali al limite delle umane possibilità. Una storia cruda, priva di retorica, che guardandoti diritto negli occhi racconta l’annichilimento morale e lo sfinimento fisico del protagonista, silente metafora del lungo inverno dell’umanità. Quattro anni di violenze mai conosciute in precedenza, capaci di cambiare la vita di un uomo e di un intero paese. Non solo la storia di un soldato, ma il memoriale di chiunque abbia combattuto.
LinguaItaliano
Data di uscita7 dic 2018
ISBN9788829569663
Il soldato che correva: Il diario di Edoardo G.

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    Anteprima del libro

    Il soldato che correva - Massimo Gugnoni

    PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

    Copyright © 2018 by Massimo Gugnoni

    Progetto grafico e impaginazione a cura dell’autore.

    Per maggiori approfondimenti, foto e video correlati al libro consulta il sito https://ilsoldatochecorreva.altervista.org.

    Per informazioni e contatti: ilsoldatochecorreva@gmail.com

    Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Salvo dove diversamente indicato l’apparato fotografico è stato gentilmente concesso dalla casa editrice Ghedina & Tassotti Editori (https://www.tassotti.it/Prodotti/Libri).

    In copertina: fotografia gentilmente concessa da Alistair Hobbs (The Tank Museum, Bovington, Dorset, England, mostra temporanea).

    Ai sensi della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata e sanzionata la riproduzione, anche parziale, di questo libro e delle immagini con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm o con qualsiasi altra modalità attualmente nota o sviluppata in futuro senza esplicita autorizzazione dell’autore.

    Realizzare un libro è un’operazione complessa, che richiede numerosi e rigorosi controlli sia sul testo che sulle immagini. Non sempre, come dimostra l’esperienza, si riesce a pubblicare un libro privo di errori. Saremo quindi grati ai lettori che vorranno segnalarceli: ilsoldatochecorreva@gmail.com

    SOMMARIO

    PARTE PRIMA

    Il mare

    Dalla pianura

    1- 2 - 3

    La montagna

    1- 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12 - 13 - 14

    L’acqua

    1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9

    La quiete

    1 - 2 - 3 - 4

    La roccia

    1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8

    Il fondovalle

    1 - 2 - 3 - 4 - 5

    Le aquile

    1 - 2 - 3 - 4 - 5

    PARTE SECONDA

    Un lungo inverno

    1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6

    Fiamme primitive

    1- 2 - 3

    Il ghiaccio o la battaglia dei trogloditi

    1 - 2

    L’uomo primitivo

    1 - 2 - 3

    La nebbia

    Nero e bianco

    1 - 2 - 3 - 4

    Sui libri consultati

    Sito internet

    Ringraziamenti

    Autore

    Massimo Gugnoni

    IL SOLDATO CHE CORREVA

    Il diario di Edoardo G.

    Romanzo

    Si legge distrattamente nei libri di storia che la prima guerra mondiale causò la morte di otto milioni e mezzo o forse nove o forse dodici milioni di soldati. Ma dietro alle cifre aride ci sono dodici milioni di atroci sofferenze nello strazio delle carni, dodici milioni di pensieri disperati nell’istante prima di morire, dodici milioni di attimi di terrore, dodici milioni di mogli, figli, madri, padri, fratelli e sorelle tormentati dal dolore.

    Il soldato che correva

    Il diario di Edoardo G.

    PARTE PRIMA

    Il mare

    Non dormo da anni. Le lunghe ed interminabili ore notturne mi lasciano in eredità soltanto stanchezza e ansia, agitate per lo più da fantasmi irrequieti che da lungo tempo si aggirano nelle pieghe tortuose e nascoste della mente. La giovanile innocenza della notte si è persa allorché, improvvisamente, la vita decise di arrotolarsi, in base ad un misterioso disegno, attorno a strane pieghe costringendomi a partecipare ad eventi che mai avrei creduto possibili; fu così che mi ritrovai tutt’a un tratto uomo adulto, molto diverso da come me lo ero immaginato in gioventù.

    Ora, col senno del poi, vedo gli anni che hanno composto la mia vita simili ad una lunga fila di scatole disposte sul ciglio del sentiero. Ogni scatola un anno. Le prime scatole oltrepassate indifferenti, alcune riempite, altre con dentro solamente poche cose ed altre ancora rotolate inutilmente giù per la scarpata perse per sempre. Sono arrivati poi gli anni presi a calci, pieni di disillusioni o amaramente vuoti, volati via con la prima timida brezza ed infine un bel giorno, che quasi sempre arriva improvviso, nonostante si sappia con certezza della sua venuta, ti accorgi che la fila di scatole davanti a te si è accorciata irrimediabilmente e che ne rimangono ben poche da riempire. Sconsolato ti volti indietro e guardi per lo più tristemente ai tuoi anni volati via e a quei pochi ancora sul ciglio della strada che aspettano, interrogativamente, il loro turno, non sapendo se esso effettivamente arriverà mai.

    La mia prima timida presa di coscienza sulla conta delle scatole iniziò nell’estate del millenovecento quattordici, anno spartiacque tra una giovinezza che sarebbe finita di lì a poco ed una vita adulta violentata e sbattuta in faccia senza riguardo.

    Quell’estate della mia gioventù fu l’ultima che trascorsi tranquilla e spensierata. Mi accorsi di vivere in bilico, o meglio in quella particolare condizione in cui si è a ridosso di una sottile linea di confine tra la primavera della vita e la maturità; un periodo in cui tutto è ancora permesso, ma in cui appare già chiaro come ci sia qualcosa di indefinitamente grande che attende solo di essere scoperto, anche se ancora non se ne possiede la chiave per scardinarlo, capirlo e poter finalmente entrare nei meandri segreti della vita adulta.

    Ogni cosa, quell’estate, era entusiasmo, vigore, voglia di vivere, grandi progetti immaginati; le discussioni e i sogni condivisi con gli amici, i bagni in mare, le passeggiate lungo il corso o le camminate solitarie tra le dune, durante le quali capitava talvolta di incontrare qualche forestiero ben contento di fare quattro chiacchiere al suono della risacca in sottofondo. Gente di Bologna, di Modena, di Milano. Gente a cui piaceva parlare. Ed io, incuriosito, ascoltavo le loro vite facendo tesoro delle tante esperienze diverse, come quella volta che incontrai un ingegnere torinese che stava progettando un nuovo tipo di aeroplano. Ero affascinato da questa nuova scienza, leggevo avidamente articoli di giornale che spesso narravano di nuove imprese e neanche troppo segretamente nutrivo la speranza di potermi iscrivere alla facoltà di ingegneria, così da poter un giorno progettare nuove macchine ed essere complice, assieme ai piloti, di straordinarie avventure mai tentate prima.

    Tutto pulsava di vita in quell’estate, mi sentivo attivo come mai lo ero stato in precedenza. Provavo gusto ad interessarmi ai nostri piccoli poderi di famiglia, studiando il modo di farli rendere al meglio, di venderne alcuni e comprarne, con il ricavato, altri più redditizi.

    Ero permeato di ottimismo appena scalfito dalle notizie provenienti dal resto d’Europa. C’era la guerra nel resto del continente, ma a Rimini non ne arrivavano che gli echi lontani. Resoconti di giornali da località spesso sconosciute. Se ne leggeva, a volte se ne parlava, ma per lo più distrattamente. La parola guerra era solamente una parola scritta sulla carta. Pochi sapevano cosa realmente essa significasse e pochi ne avevano una coscienza precisa, giusto quelli che avevano combattuto in Libia. Ci furono discussioni e in seguito comizi sempre più affollati tra interventisti e neutralisti, ma non erano che parole al vento, a volte tra teste calde tanto da trasformarsi in vere e proprie zuffe, mentre la maggior parte delle persone, quando veniva chiesto loro se erano favorevoli alla liberazione delle terre irredente, rispondeva con un sì poco convinto, giusto per non fare brutta figura, ma non sapeva di preciso nemmeno cosa significasse la parola irredenta. In cuor loro sapevano che una guerra avrebbe portato solo disgrazie. L’unica preoccupazione era portare a casa il pane per la famiglia e con una guerra di mezzo ciò sarebbe stato molto difficile. Trento e Trieste libere, quante parole, quante illusioni. Una guerra veloce, l’Austria che cade perché impegnata su troppi fronti, la vittoria, un grande paese, tutto torna alla normalità. Ecco cosa si sentiva dire.

    Grandi cambiamenti quell’estate non ve ne furono, se si eccettua, dalla fine di luglio, l’abbandono della maggior parte degli austriaci e degli ungheresi dai nostri bagni, avendo i loro paesi dichiarato guerra alla Serbia.

    Sebbene i rapporti fossero tesi tra gli stati, non lo erano tuttavia tra le persone e capitava anzi che guardassimo con ancor più curiosità gli ultimi ritardatari ungheresi a passeggio sulla nostra marina in compagnia di mogli e figlie; a noi giovani queste ultime in particolare parevano di una bellezza principesca e dal tardo pomeriggio non potevamo fare a meno di osservarle, di nascosto e con invidia, nei loro balli notturni sulle terrazze e nelle sontuose sale del Kursaal¹, covo dei nostri sogni mondani.

    Ciononostante intervennero alcuni fatti, a volte insignificanti all’apparenza, a volte rilevanti, che sommandosi, passo dopo passo, resero la situazione sempre più tesa. Dapprima, appena scoppiato il conflitto in centro Europa, si riversarono in città, coi treni, un gran numero di nostri concittadini espulsi dall’Austria e dai paesi tedeschi, che lassù vivevano e lavoravano ormai da lungo tempo e ai quali si dovette trovare una sistemazione e un lavoro. Ci fu poi l’affondamento di una barca, con la morte di nove pescatori, colpita al largo da una mina galleggiante austriaca e ancora l’incendio dell’Hotel Hungaria², si disse doloso in quanto principale ritrovo dei villeggianti austriaci, ungheresi e boemi. Non sfuggì inoltre all’attenzione di chiunque il transito di sempre più treni militari diretti verso i confini, circostanza che provocò le proteste dei pacifisti. Ma soprattutto cominciò ad aumentare il numero dei richiamati nell’esercito. Schiere sempre più folte di amici e conoscenti ricevettero la cartolina precetto, mentre io continuavo a sperare che, per uno strano motivo, si fossero scordati di me. Ma più si allungava la lista dei conoscenti in partenza più capivo che la mia libertà andava restringendosi.

    Poi, improvviso come un fulmine a ciel sereno, bussò un carabiniere alla porta. Cercammo con precisione sulla carta geografica dove fosse Belluno e tra tutti i conoscenti e i parenti l’unica a preoccuparsi per la troppa vicinanza della città con l’Austria fu la mamma. E fu lei che per prima lesse la scarna comunicazione. Quel giorno, rincasando, la trovai in cucina con la testa abbassata e la lettera in mano. Non piangeva, ma le si leggeva nel volto, insolitamente iscurito, quel sentimento misto di impotenza e tristezza che se non avesse saputo del mio imminente rientro a casa l’avrebbe portata alle lacrime. Gli anni non avevano cancellato il dolore per la scomparsa di mio padre in terra d’Africa diciotto anni prima. Nel massacro di Adua il corpo non fu mai ritrovato e per mia madre fu peggio che saperlo rapito da morte certa.

    La mia libertà stava rapidamente evaporando, il mio futuro e i miei progetti non mi appartenevano più. Mi sentivo di fare grandi cose ma qualcuno o qualcosa mi stava tarpando le ali per non farmi spiccare il volo. Questo solo provavo.

    La partenza fu, a suo modo, una piccola festa, un’occasione per la mamma, i parenti e gli amici più cari, di ammirare la nuova stazione ferroviaria ricostruita ed inaugurata da poco tempo. Sorrisi, abbracci e la promessa di rivederci presto. In fin dei conti la guerra ancora non c’era ed era probabile, a sentire molti, che non sarebbe mai scoppiata. O, come dicevano altri, che sarebbe stata di breve durata. Probabilmente l’estate successiva avrei potuto riprendere i miei progetti.

    Ed è qui, caro lettore, che inizia il mio diario, l’annotazione di quel periodo della mia vita. Giorni, settimane, mesi che diventarono anni, trascinati fino al presente carichi di angoscia e insonnia.

    Sono stato lungamente in dubbio sull’utilità della presente testimonianza, ben sapendo che di pubblicazioni del genere ne sono pieni gli scaffali delle librerie. Ma devi sapere, caro lettore, che si arriva ad un certo punto della vita in cui diventa necessario agire per rendere appena sopportabile il ricordo e per far sì che tutto ciò che hai vissuto non venga dimenticato e rilegato in poche insignificanti righe sui libri di storia. Il mio agire è consistito nello scrivere, l’unica arma che mi è rimasta intatta dai tempi della gioventù. Vorrei portarti, caro lettore, dentro la mente di un giovane nemmeno ventenne obbligato a misurarsi con un qualcosa di più grande di lui. Qualcosa di umanamente non sopportabile. La condanna peggiore per un reduce è il costante senso di inutilità che, ripensando a tutto ciò che ha vissuto nei lunghi anni di guerra, può portare se non alla pazzia ad un permanente senso di depressione e frustrazione.

    Lo scopo del presente scritto, in definitiva, è stato anche il tentativo di lenire, almeno in parte, tale dolore, senza peraltro riuscirci. Ho usato la parola reduce per la prima e unica volta in questo libro. Odio essere definito reduce. Sono un uomo come tanti, nato negli anni sbagliati e a cui il destino ha riservato una generazione svanita sui campi di battaglia.

    Seguimi, lettore, dentro i miei pensieri, immedesimati in ciò che leggerai e che ti sembrerà frutto della fantasia. Purtroppo è la realtà vissuta da milioni di giovani in quegli anni. L’unica invenzione che troverai sono i nomi delle persone; pur essendo realmente esistite non ho ritenuto opportuno citarle nella loro vera identità per non turbare il loro sonno eterno.

    Edoardo G., 1933


    1¹ Kursaal: notevole edificio neoclassico, adiacente al Grand Hotel, costruito nel 1873, immerso in un parco di quattro ettari e collegato con un pontile ad una grande piattaforma in mare. L’edificio ospitava sale di lettura, conversazione, ristorante, caffè, sale riunioni e una grande sala da ballo rinomata come tra le migliori d’Europa (per le immagini e maggiori informazioni vai al sito cliccando qui).

    2² Chiamato in seguito Excelsior Savoia, oggi Savoia Hotel.

    Dalla pianura

    1

    Le ultime case di Mestre sono alle spalle del convoglio, la grande pianura veneta si mostra limpida dinnanzi a me e già, in lontananza, dove termina il piano, a non più di una cinquantina di chilometri, si intravedono le Alpi. Non avevo mai visto, prima d’ora, siffatte montagne; a me, uomo di mare, paiono impressionanti. Simili ad un muro che si erge improvviso a sbarrare la pianura. Imponenti, alte, innevate. Poi, avvicinandosi, il muro che da lontano sembrava invalicabile mostra le sue crepe, formate dalle valli dei fiumi che scendono ad arricchire la pianura. Entro intimorito, come un bimbo che guarda col naso all’insù qualcosa di meraviglioso, nelle viscere dei giganti di roccia.

    La vita in caserma, a Belluno, scorre tranquilla. Esercitazioni di tiro, marce, guardie, servizi e libere uscite. Tutto come da copione, tutto come ci si può aspettare dalla vita militare. Niente di cui lamentarsi. Anzi, per molti soldati la vita in caserma è migliore di quella che conducono a casa: un letto su cui dormire, biancheria e vestiti puliti, colazione e due pasti, niente di importante a cui pensare o di cui preoccuparsi. L’unica vera fatica sono le interminabili marce zaino in spalla. A volte giornate intere, a volte con pesanti carichi di munizioni, a volte, su scomodi sentieri, aiutando i muli appesantiti da grossi basti.

    Ma, con mia grande sorpresa e al contrario di molti uomini, marciare mi piace. Non mi stanco facilmente, quando cammino posso restare in pace coi miei pensieri, nessuno dà ordini, c’è silenzio e in questi frangenti il servizio militare non sembra così male. Mi piace la montagna, mi sento a mio agio, d’istinto mi oriento tra i boschi e agilmente balzo sulle pietraie. Tutto ciò non sfugge ai superiori che, notata la mia attitudine a muovermi in ambienti ostili e la mia resistenza fisica, mi assegnano ad una squadra speciale di osservatori. Il gruppo è ristretto, siamo pochi uomini, veniamo addestrati all’uso della carta topografica, della bussola, a muoverci il più vicino possibile alle linee nemiche, ad osservare, a fare schizzi di postazioni e a correre. Correre sempre per arrivare prima degli altri. Correre per distanziare il nemico, correre per salvarsi o correre per portare informazioni e salvare i commilitoni in attesa.

    Osservo i miei nuovi compagni, osservo me stesso, siamo uomini ormai adulti, eppure intravedo, nel viso di ognuno di loro, la spensieratezza. Lo sforzo fisico, gli ordini, la fatica e le alzatacce all’alba sono lì a ricordarci che siamo soldati, ma in fin dei conti sono fatiche superficiali, paragonabili ad una sorta di grande caccia senza animali o ad un gioco del nascondino per adulti.

    Ci conosciamo a vicenda, stringiamo amicizie, nella truppa cerco di avvicinarmi ai miei simili e di allontanare i poco di buono. Con interesse osservo il Regio Esercito, specchio del nostro Regno. Dal sud al nord, dal povero contadino al ricco commerciante, dall’onesto al disonesto, siamo tutti forzatamente destinati a convivere e a conoscerci. Scopro, con sorpresa, decine di lingue, abitudini e comportamenti differenti, appartenenti ad un’Italia a me sconosciuta.

    2

    Nella squadra speciale sono l’unico soldato di pianura. Gli altri sono uomini di montagna, vissuti da sempre nelle vallate alpine, per la maggior parte abituati a portare mucche o capre al pascolo. Uomini forti, resistenti alle avversità della natura e pronti a soffrire senza mai lamentarsi.

    Mi colpisce fin da subito un individuo magrissimo che, a causa della sua notevole altezza, sembra sempre sul punto di cedere, come una torre in bilico, sotto il peso dello zaino, ma instancabile è sempre l’ultimo a fermarsi. Mi aveva incuriosito vederlo, durante le soste o in qualche libera uscita, scalare qualche masso o qualche piccola parete; ero rimasto affascinato dal suo modo di procedere e di affrontare un elemento così ostile come la roccia. Inizialmente rimasi stupito di come riuscisse a trovare appigli e passaggi in punti apparentemente inaccessibili, o meglio ero affascinato da questo modo per me nuovo di sfidare la montagna e d’altronde la montagna stessa era per me una novità.

    Osservandolo capii che usava una tecnica ben precisa, in cui l’importante era avere sempre un appoggio, seppur minimo, sulla roccia. Una mano o un piede su un appiglio potevano essere sufficienti per sorreggere l’intera persona appesa alla parete e grazie a ciò poteva procedere, seppur lentamente, su superfici a prima vista lisce.

    Una domenica in libera uscita decisi di seguirlo standomene in disparte ad osservarlo. Tino non amava parlare. Pareva infastidito dalla mia presenza e ne capivo perfettamente il motivo. Era sempre stato abituato a condurre una vita solitaria in compagnia delle sue mucche negli alti alpeggi. Nonostante un leggero imbarazzo, conscio del fastidio provocato, continuai a seguirlo per diversi giorni e finalmente presi la decisione di imitarlo. Iniziai con una modesta e semplice parete alta un paio di metri. Lui fingeva di non vedermi, mentre io, con costanza, settimana dopo settimana, prendevo confidenza con la roccia migliorandomi a piccoli passi.

    Un giorno, già a qualche metro da terra, con i muscoli delle braccia che mi dolevano per lo sforzo e non sapendo più da che parte dirigermi perché la parete mi si presentava liscia in ogni direzione, accadde il miracolo. Mi rivolse la parola, invitandomi a fare attenzione e a seguire le sue indicazioni per non correre pericoli. Col suo forte accento da montanaro, il tono baritonale della voce che contrastava nettamente con l’esile magra figura, fui certo che avesse fatto uno sforzo enorme a rivolgermi la parola. Tuttavia da quel giorno, frase dopo frase, diventammo amici, tanto che nelle azioni di pattuglia fummo spesso in coppia. Scoprii che aveva imparato a muoversi appeso alle pareti rocciose per necessità: quando qualche animale al pascolo cadeva in un dirupo era lui che si calava per verificarne la morte o le ferite e per imbragarlo e recuperarlo.

    In breve tempo fui ben accetto anche dal resto della pattuglia speciale. Tra di loro, i montanari, si capivano d’istinto; anche senza conoscersi erano affiatati. Io ero l’elemento estraneo, diverso da loro. Alcuni non avevano mai visto la pianura, nessuno aveva mai visto il mare. Il modo di ragionare, ma anche il modo di vivere, tra una persona di montagna ed una di mare, è profondamente diverso, anche se legato dal comun denominatore dei capricci della natura. La nostra diversità era evidente: loro di poche parole, diretti nel dire le cose, anche quelle scomode, rudi e abituati a vivere all’aperto, io più portato ai giri di parole, a non urtare le persone con frasi che non ritenevo adatte, meno impacciato nei modi e più cittadino. Ma la grande differenza tra noi risiedeva nel linguaggio. Tra di loro parlavano per lo più la loro lingua, il ladino, dimenticandosi spesso che io non la capivo. Ascoltandoli capitava d’improvviso che si fermassero, mi guardassero incuriositi e ricominciassero a parlare in un italiano condito da numerose parole dialettali che probabilmente non avevano nemmeno una traduzione precisa nella nostra lingua. Oramai i discorsi iniziati in ladino e terminati in italiano erano una consuetudine, peraltro abbastanza divertente!

    Venivamo, quindi, da realtà differenti, ma era una differenza vissuta senza cattiveria, accettata come l’ordine naturale delle cose. Ognuno lo capiva e nessuno ne fece mai un problema. Anzi, alla fine dell’inverno formavamo una bella squadra unita. Vivere insieme per mesi e mesi fece sì che ognuno conoscesse pregi e difetti degli altri ed il sentimento prevalente tra di noi fu la stima reciproca. Si arrivò al punto che le poche domeniche libere divennero una gara nell’invitare a casa, nelle vallate vicine, i compagni. Fu così che conobbi la famiglia di Tino. Abitavano a San Vito di Cadore (San Viđo¹, mi correggeva Tino in ladino), l’ultimo paese italiano prima del confine austriaco.

    Con orgoglio ci presentò gli anziani genitori. Due persone pacate e sagge come sanno esserlo i montanari. Il padre, il buon Pino, dall’alto della sua figura imponente ormai ricurva e dalla fluente barba bianca che gli dava autorità, anche se era chiaro che questa era conquistata con le parole e coi fatti e non grazie alla barba, era prodigo di buoni consigli pratici per noi soldati e per Tino. L’estate successiva, finita la guerra, ci sarebbe stato da sistemare, difatti, il fienile, da ritoccare il tetto di casa e da fare questo e quello per le bestie.

    Accortosi che ero il più lontano da casa, mi prese in simpatia fin da subito. Più che di simpatia potrei parlare di affetto paterno. Volle che gli descrivessi il mare, volle sapere della mia famiglia, come vivevamo, se si stava bene in città, volle ascoltare qualche parola nel mio dialetto per lui del tutto nuovo. Si prodigò in consigli sulla montagna, sul freddo e, con mia grande sorpresa, la moglie mi donò un paio di pesanti calze di lana fatte da lei.

    «De chisti t’aaràs bisòin», che più o meno significava che mi sarebbero state utili.

    L’addio fu un sussurro del babbo Pino al mio orecchio:

    «Staşé apède se podé, tendéve a viçenda, séve cume dòi fradiéi …», si fermò pensieroso con la mano che accarezzava la barba sotto al mento. Ricominciò a parlare:

    «… state insieme se potete, controllatevi a vicenda, siate come due fratelli. Tino ti stima anche se non sembra … sai per il carattere … è un po’ chiuso. Lo conosco bene e lo capisco da come ti guarda, fìđete. Se scoppia la guerra e se dovesse succedere qualcosa voglio sapere la verità. Qualsiasi cosa succeda. Ti chiedo solo questo … da saé al vero».

    Non disse nient’altro, non ce n’era bisogno.

    Frequentare le famiglie dei compagni cementò la nostra amicizia. Romeo, maestro elementare, silenzioso e dall’aria intelligente; Giovanni, pastore in una vallata vicina; Tone Deo, il solo a cui era permesso dire certe cose anche in presenza dei superiori, in quanto dotato di una carica di simpatia innata grazie alla quale tutto o quasi tutto gli veniva concesso e perdonato. La sua partenza per l’esercito fu un piccolo dramma familiare: gli sforzi per governare gli animali e per la fienagione ricadevano ora sulle spalle dell’anziano padre e delle due sorelle più piccole.

    Particolare fu la visita alla famiglia del Vecio, così chiamato da tutti noi per via della sua età, trentadue anni. Amava alla follia i suoi tre gioielli, tre bimbi tra i quattro e i nove anni. Al solo nominarli gli si illuminavano gli occhi e vederlo assieme ai tre cuccioli pareva trasformarsi, diventava giocoso e affettuoso come solo un buon padre può esserlo. Un padre forte come un toro, capace di costruirsi qualsiasi cosa, anche la casa nella quale vivevano a Rocca Pietore, a poca distanza dal confine austriaco sebbene fosse anche lui originario di San Vito. Quella domenica di aprile, insolitamente calda, la bella moglie Caterina ci preparò un delizioso spuntino da consumare in un’allegra scampagnata sui prati liberati da poco dalla neve. L’atmosfera gaia e gioiosa venne interrotta improvvisamente allorché Tone Deo, insolitamente serio, interruppe le nostre chiacchiere spensierate:

    «Tiòo, vardà lasù in ciòu … ragazzi, guardate lassù!».

    Volgemmo lo sguardo a nord, alto nel cielo. Una grande nube, sorta improvvisa dal nulla, sovrastava una montagna poco distante. Ne ricopriva esattamente tutta la sua estensione gettandovi sopra uno scuro cono d’ombra. La spessa nuvola aveva la forma perfetta di una croce, nera e piatta la parte inferiore, tondeggiante come spuma e bianca la parte superiore. Guardammo in aria silenziosi, anche i bimbi si fermarono, la nube con la sua maestosità plumbea infuse timore; tristi presagi si addensarono nelle nostre menti anche se nessuno volle parlarne. La domenica non fu più la stessa².

    3

    I mesi passano, ci sarà o non ci sarà la guerra? Per tutto l’inverno e la primavera seguente culliamo la speranza che i combattimenti rimangano al di là delle Alpi. Tuttavia abbiamo notato che le nostre strade hanno ormai un unico senso di marcia: la direzione nord. Colonne interminabili di uomini, animali, carri e autocarri, armi e munizioni si ammassano spesso confusamente sulle strade che portano alle montagne. Ci pare chiaro che qualcosa si stia muovendo, anche se nutriamo la speranza che sia solo una prova di forza, un mostrare i muscoli ai nostri vicini.

    A metà maggio, con le licenze sospese da diverso tempo, ci viene consegnato l’equipaggiamento personale da campo. Corre voce che entro breve l’Italia entrerà in guerra. C’è chi dice che andremo a combattere sul Carso e chi nel Cadore. Tone Deo, fingendo entusiasmo per quest’ultima prospettiva, assicura che ci porterà latte fresco e formaggio delle sue mucche tutte le mattine. È l’unico che non ha perso la voglia di scherzare. Per il resto noi tutti siamo più taciturni, impegnati a riflettere, chiusi nei nostri pensieri, sulla futura collocazione e su cosa ci si debba aspettare.

    Non passano che pochi giorni ed arriva, fatidico, l’ordine di partire. Destinazione Cadore. In caserma c’è frenesia, fermento, movimento, quasi che dopo tanti mesi finalmente si possa cambiare aria, lasciare la comoda caserma per … non sappiamo esattamente nemmeno per dove e per quale impiego. Tone Deo, euforico, ci annuncia che avremo il miglior latte dell’intero esercito. Solo per la nostra pattuglia speciale, ci tiene però a precisare a bassa voce.

    L’ultima santa Messa, durante la quale il cappellano ci sprona a compiere il nostro dovere verso Dio e verso il Re, è partecipata e sentita come mai era successo in precedenza; gli uomini, assorti, sembrano cercare, speranzosi, parole di conforto.


    1¹ In Ladino, lingua di derivazione latina mescolata con quella di popolazioni retiche e con influssi dall’italiano e dal tedesco. Il ladino è tutt’ora parlato in alcune vallate dell’Alto Adige, del Trentino, del Veneto, del Friuli Venezia Giulia e del cantone dei Grigioni in Svizzera. In questo caso si tratta di ladino cadorino e più avanti nel testo di ladino ampezzano (per maggiori dettagli vai al sito cliccando qui).

    2² La nube a forma di croce sovrastava il Col di Lana, dove, pochi mesi dopo, sarebbero avvenuti sanguinosi combattimenti. Nel pionieristico volume Guida alle località teatro di guerra fra le Dolomiti, del colonnello austriaco W. Schaumann (Edizioni foto Ghedina, Cortina d’Ampezzo, 1972), un anonimo fotografo riuscì ad immortalare sopra il Col di Lana un’inquietante croce formata dalle nubi pochi mesi prima dello scoppio della seconda guerra mondiale (per la foto della nube vai al sito cliccando qui).

    La montagna

    1

    In un’alba fresca e nuvolosa, in cui l’oscurità non ha ancora ceduto il passo alla luce, lasciamo la caserma. Durante la notte non ho chiuso occhio e sebbene non lo voglia ammettere sono pervaso da un certo senso di inquietudine. Mi sento solo, lontano da casa, in un ambiente ostile che non è il mio, ho paura che mi succeda qualcosa. Quel che più mi angoscia è la paura dell’ignoto, è il non sapere se, sulle montagne, andremo a combattere, se ci cacceremo nei pericoli, se ci sarà qualcosa di terribile o se niente di tutto ciò avverrà. Silenziosi sugli autocarri Fiat, seguiti a distanza da carri trainati da animali, lasciamo la città alle spalle. Addio posto sicuro ed accogliente. A cosa pensano i miei compagni? Sono l’unico preoccupato o tutti abbiamo i medesimi pensieri, ufficiali compresi che forse sanno e non possono parlare?

    Costeggiamo il Piave, lo risaliamo, la valle si restringe sempre più, scavata tra le rocce dalle acque del fiume. Urla, ordini, imprecazioni, confusione di carri, cavalli, autocarri, file di uomini, tutti diretti a nord. Non si sposta una tal massa di uomini e mezzi solamente per mostrare i muscoli all’avversario. Questione di ore, giorni o al massimo qualche settimana. Qualcosa deve accadere.

    A Longarone inizia a piovere, dapprima leggermente poi sempre più insistentemente. La strada sale, intagliata nella roccia, la valle è stretta tra due alte pareti distanti tra di loro non più di qualche decina di metri e poco più in basso, nel mezzo, il Piave scorre furioso e incanalato tra le scure pareti. Si procede lentamente, l’interminabile colonna sembra bloccarsi per il troppo affollamento, la strada diventa un pantano, la pioggia cade violenta, le montagne si alzano ripide e scure sopra le nostre teste, senza vederne la fine, avvolte nelle minacciose nubi. Un fulmine squarcia l’aria, acceca ed elettrizza, un tuono poderoso sconquassa il cielo rimbombando da parete a parete, facendo tremare la terra sotto i piedi. Sì, lo confermo, ho paura. Nulla mi piace di questo ambiente. Tutto è nascosto e misterioso: le montagne, la luce, le ragioni della nostra marcia. Guardo Tino poco distante. D’istinto si gira, abbozza un sorriso, so che posso contare su di lui.

    La lunga fila di uomini e mezzi si arresta, siamo bloccati nella pioggia e nella fanghiglia, così come fermo sui vicini binari è un treno carico di soldati, almeno loro all’asciutto, sulla nuova ferrovia Belluno – Longarone – Calalzo intasata di convogli. Inzuppati d’acqua procediamo a piedi, migliaia di uomini in marcia verso l’alto, una colonna che si allunga a perdita d’occhio. Come farà l’avversario a resistere ad un simile urto?

    Dopo alcune ore la valle, tra le nubi e le nebbie improvvise, sembra allargarsi. Sotto una pioggia incessante, avvolti dall’oscurità e stravolti dalla stanchezza, viene dato l’alt a Pieve di Cadore, un piccolo paese, il primo in cui sento un’aria diversa, fredda e dall’odore di resina. È l’aria di montagna. Ci asciughiamo come possiamo, stendiamo qualche panno bagnato mentre un ufficiale, forse del luogo, indica di fronte a noi la casa natale del grande pittore Tiziano. Nessuno sembra prestargli attenzione, ognuno preoccupato piuttosto a cercare la miglior soluzione possibile per dormire, i più fortunati in una caserma, altri presso abitazioni, magazzini, ricoveri di fortuna, altri ancora nei fienili, in uno dei quali mi coglie un sonno improvviso e profondo.

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    Le nubi basse hanno una gravità che in pianura non possono avere. Avvolgono, frantumandosi in nebbia, le montagne, occludono alla vista i boschi, le ripide pareti, le cime. Ogni opera del creato è occultata, impenetrabile allo sguardo, scura, umida. Oltrepassiamo un piccolo paese ancor più in alto, Auronzo di Cadore, e la strada, seppur interessata dal traffico militare, è più sgombra di ieri; procediamo spediti, in ombrosi boschi di abeti sempre più imponenti e fitti, tra cime ancora più alte ed apparentemente irraggiungibili.

    Talvolta gli squarci di sole improvvisi aprono alla vista un paesaggio spettacolare di guglie rocciose, cime frastagliate, montagne imponenti, colossi di roccia ancora ammantati di neve. Gli abeti salgono fino alla base delle rocce o fino a grandi ghiaioni, punto di scarico dei residui della montagna. Radure verde smeraldo si alternano ad immense macchie scure di boschi, estese a perdita d’occhio. Sono ammirato e stupito nell’osservare il paesaggio, nonostante l’inquietudine per l’avvenire. Per i miei compagni, apparentemente, l’approccio alla montagna pare diverso: sono indifferenti, annoiati, immersi nei loro pensieri. D’un tratto capisco come tale comportamento non sia imputabile solamente al fatto di conoscere l’ambiente nel quale ci muoviamo, ma piuttosto che, se scoppierà la guerra, dovranno combatterla sulle loro terre, troppo vicino alle loro case, ai loro cari e ai loro pascoli.

    Quota milletrecento metri d’altezza. In questo punto che pare insignificante, non segnato sulla mappa, i genieri dell’esercito stanno lavorando per scavare trincee e posizionare reticolati. È il nostro campo base, situato all’inizio della strada che sale al passo Tre Croci e poco sotto il lago di Misurina, non distante dal confine austriaco. Tino si sente a casa, conosce perfettamente ogni angolo della vallata. Per anni, da ragazzino, aveva percorso la stessa strada per portare alcune mucche della comunità di Auronzo all’alpeggio sul monte Piana, un rilievo poco distante, appena sopra di noi. Mi racconta con trasporto, immaginandosi lassù felice e spensierato coi suoi animali, di come la cima dell’alta montagna sia in realtà piuttosto piatta (perciò si chiama monte Piana) e con dei pascoli per la verità non molto ricchi, ma alquanto panoramici. Il monte è diviso in due da un piccolo avvallamento e sulla sommità corre il confine tra Italia e Austria segnato da due cippi della repubblica di Venezia del 1753. Se la ricorda bene la data, scolpita a vernice rossa, perché ogni tanto vi si appoggiava con la schiena, controllando da seduto che le mucche, ignare dei confini, non passassero in Austria che poi quelli di Dobbiaco si sarebbero arrabbiati non poco. Da qualche anno la quiete della sommità è però interrotta, mi dice con una punta di rammarico, dall’arrivo durante la bella stagione dei sempre più numerosi turisti austro – ungarici. Per loro è stato costruito anche un piccolo rifugio¹, ben presto trasformato, viste le numerose presenze, addirittura in locanda. Questo almeno fino all’estate scorsa quando di colpo scomparve ogni forestiero a causa della dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia.

    Scatta il divieto di accendere fuochi, cala la prima fredda e umida notte in tenda. Il buio, là fuori, sembra riservare mille pericoli, il confine corre a poche centinaia di metri, forse gli austriaci ci stanno già spiando e sanno perfettamente quanti siamo e dove siamo, ma sdraiarmi di fianco a Tino, alla luce fioca della lanterna, mi offre un tranquillo senso di protezione e calore.

    3

    Finalmente, dietro le nubi, si scorge a tratti il sole, l’aria ghiacciata del primo mattino si addolcisce, i raggi solari, in tarda mattinata, scaldano piacevolmente il corpo. Gli uomini del Genio Militare continuano nella loro incessante opera di scavo di trincee e appostamenti, mentre nella vicina strada il via vai di carri e autocarri ricolmi di materiale è continuo. Tino, il mio fedele amico, e Tone Deo fanno a gara nell’indicarmi i nomi delle montagne circostanti. Romeo, sempre attento e saggio nelle parole, dice che si aspetta qualcosa per oggi. Sta osservando da qualche ora l’andirivieni frenetico degli ufficiali e dei corrieri in moto o in bicicletta dalla tenda del capitano Grasso. A giudicare dai visi e dai movimenti concitati pare davvero che ci sia qualche novità.

    Romeo difficilmente sbaglia; difatti dopo la santa Messa, radunati sull’attenti, ascoltiamo la voce perentoria del capitano:

    "Soldati di terra e di mare! L’ora

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