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Clinica Bella Vista
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E-book619 pagine9 ore

Clinica Bella Vista

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Info su questo ebook

Tutta la tragica vicenda di questo Romanzo, é stata racchiusa in una delle tante parentesi che si aprono e chiudono nel corso della vita, ‘per portarci come di fronte ad uno specchio, dove siamo costretti a riconoscere l’amara eredità storica, che l’uomo trascina in sé fin dalla notte dei tempi’.
Come nell’opera: Gli spettri, per Ibsen, anche in questa storia, la scelta della falsità conduce alla caduta, travolgendo i protagonisti e le loro famiglie, che pagano in prima persona e senza sconti per la propria ipocrisia. Dunque, gli spettri non sono che i fantasmi del passato, che tornano a turbare il presente dei vivi, ma anche i residui di superstizione che si faticano a dimenticare.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2016
ISBN9788892576520
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    Anteprima del libro

    Clinica Bella Vista - Peter Louis Arnell

    A.Tabucchi.)

    PARTE PRIMA

    Pomeriggio del 18 aprile. Al Forte, Versilia.

    Potevano essere le due, le due e mezza, le due e tre quarti, al massimo, minuto più minuto meno. Augusto Mandelli, se ne stava seduto in punta di sedere sul divano color grigio genesis, nel salotto di una delle ville di famiglia.

    Al Forte.

    Quando la villa era stata progettata dall’ing. Moretti, tra il verde e i pini marittimi, bianca come una cava di marmo, e maestosa come una cattedrale, alla gente di lì, anche se usa alle realizzazioni e opere d’avanguardia, aveva fatto spalancare la bocca per lo stupore. Si trovava in uno di quei posti dove solo chi avesse una barcata di quattrini si poteva permettere di sentirsi un castellano.

    Al Forte.

    Lo considerava, al giusto, il rifugio ideale per il week-end. Il Forte, lo sanno tutti, si trova a ‘due passi’ da Lucca, dove, circondata dalle colline, abitava stabilmente in una stupenda proprietà del XVIII secolo.

    Tra le dita di una mano una Barclay pacchetto rosso, considerata una delle migliori al mondo, nell’altra un bicchiere ‘napoleon’ con il suo cognac preferito: Frapin ‘Grande Champagne’, Augusto pensava. Potreste girare con il lanternino per tutto il Bel Paese, ma sì e no ne trovereste un paio o altri tre, al massimo, che bevono questa qualità di cognac, ma Augusto era quel genere di persone che, del meglio vogliono sempre il meglio, come scriveva Oscar Wilde, dichiarandosi tuttavia una persona semplicissima.

    A pranzo si era gustato ‘du spaghi, aio, oio e foco’, come diceva Berta, romana de Roma, e coratella d’abbacchio con carciofi cucinata come solo sapeva fare il donnone, nata in Trastevere, appunto, che tra i fornelli si destreggiava meglio di D’Artagnan tra le lame; il tutto annaffiato da un Chateau Beychevelle dell’Ottantotto, una delle migliori annate del secolo, del rosso girondino, e servito a tavola da Carlos Antonio, un ‘chapin’ rimasto in brache di tela, vedovo e con la sola fotografia del figlio di quattr’anni appena nel portafoglio, dopo il terremoto del Settantasei di Città del Guatemala.

    Augusto era già a debito di due cognac. Il terzo vagolava nella sua mente. L’alcol, lo sapeva a mena dito, non era la medicina giusta, semmai un veleno, simile al terribile acido carbossilico, per ringalluzzire quel fottuto spiritello che lo tormentava, e gli imponeva una forte quotidiana emicrania. A tratti spariva, ma ritornava, come se giocassero a rimpiattino. Ma non poteva più farne a meno, del cognac, intendo.

    Seduto, si godeva il silenzio, l’assoluta mancanza di suono o rumore, che a volte gli gravava addosso. Ma, a volte, solo rare volte, lo faceva anche sentir bene, per quanto potesse, uno che non era in grado di staccare la spina con il rischio, non poi così molto remoto, che il cervello gli andasse in ‘corto’. Intendo dire, uno che non ce la faceva ad isolare la mente dai pensieri, che gli ritornavano dal passato, come fantasmi, e neppure da quelli del presente, che non erano di poco conto e non assai lontano nel tempo.

    Era un bell’uomo;alto un metro e ottanta centimetri, con capelli molto più sale che pepe, occhi castano scuro e il naso aquilino tipico delle persone di nobile schiatta. Quando sorrideva, ormai molto raramente, mostrava i denti leggermente irregolari, che apparivano robusti, tra le labbra ben delineate, quasi fossero state trattate con un intervento permanente di micro-pigmentazione. Da poco stappato lo champagne per i cinquantacinque anni, era ancora miracolosamente in buona salute, emicranie a parte, e il suo peso non era aumentato oltre i sei o sette chili, rispetto a quando, trenta anni prima, o giù di lì, era entrato nel mondo degli affari già ben avviati dal padre, partito con una modesta iniziativa imprenditoriale da Prato, raccogliendo stracci per la cardatura.

    Invidiato da molti era da considerare un uomo ricco. Viaggiava sui sedili di una Mercedes 600 nera o, a scelta su quelli di una Bentley color panna. Marcus, il chauffeur, un alsaziano arrivato da poco in Italia dall’Africa, dopo quindici anni di Legione, all’occasione sarebbe stato in grado di trasformarsi, per lui, in un mastino da difesa, e di usare la .357 Magnum Rossi, che teneva appesa sotto l’ascella sinistra, quasi fosse un gangster. Era un omone grande e grosso come un armadio, con il volto segnato da una cicatrice ipertrofica di vecchia data che partiva dal lobo dell’orecchio destro e finiva dentro il collo della camicia.

    Possedeva giocattoli costosi: uno yacht Ocean Paradise da crociera di 55 metri in acciaio e alluminio, dotato di ogni confort e un’apparecchiatura sofisticatissima, e un Gates Learjet 35°. Quando si spostava sulle medie distanze, lo pilotava personalmente, con Björn Erikson, un ex pilota della SAS come secondo.

    Con il fratello Alberto, che occupava anche uno scranno del Senato di Roma, nelle file di Forza Italia, divideva la proprietà di un’industria cartaria in Porcari, tanto per dirne una, e di un sostanzioso pacchetto azionario della Banca Toscana. Nella Tenuta ‘il Picchio’, in zona Bolgheri, al centro della Maremma Livornese, sulle ultime propaggini delle Colline Metallifere, per dirne un’altra, con un paio di migliaia di ceppi, produceva il Sassicaia, ‘un vino equilibrato, armonioso, robusto quanto basta, come lo giudicavano gli esperti enologi, ‘grazie alla sua anima di Cabernet Sauvignon.’ Che dire poi delle sue notevoli disponibilità liquide? Già erano notevoli, ma dalla morte della prima moglie, a causa di uno spiacevole incidente nel mare Egeo, a poche miglia di distanza dall’isola di Lesbo, con già le luci della sera accese nelle casupole del porto di Chios, ben visibili, si erano decuplicate. Be’, non andava trascurata neppure la collezione d’arte moderna: pezzi acquistati per puro investimento, più che per reale apprezzamento dell’arte: Lucio Fontana, Jackson Pollock, Jason Martin, e Jonathan Meses, oltre a Andy Warhol, Moshi Kashi e di molti altri, non escluso l’ex enfant prodige inglese Matt Collishaw, dominate dal sesso e dalla perversione.

    Il patrimonio, e scusate se è poco, comprendeva inoltre decine di partecipazioni e interessi in giro per il mondo. Opportunamente occultate nel paradiso fiscale. Ovvio. Mica ci sono per niente le off-shore iscritte nei registri commerciali delle Cayman Islands, Barbados e delle Virgin Islands inglesi, o nelle Isole Marshall, un gruppo di atolli della Micronesia, a circa metà strada tra le Hawaii e l'Australia. Un Creso, insomma, ma un Creso che si era ridotto a ridere con la stessa frequenza di Crasso. Con tutto ciò, si sentiva anche e soprattutto un uomo solo, o meglio, questa era l’etichetta che gli piaceva cucirsi addosso, da quando suo figlio Carlo era morto, da circa un anno e da quando sua moglie Betty, la sua seconda moglie, era finita con una Toyota contro il fottuto muro di una casa, mentre percorreva a tutta tavoletta, secondo il rapporto della polizia francese, la ‘Cote d’Argent, nei pressi d’Anglet, la cittadina ridosso Biarritz: un altro increscioso incidente abbastanza recente. E si sentiva spesso solo per il fatto che la figlia Beatrice, laureata in psicologia, impegnata nell’Istituto Internazionale di Psicologia dell'Emergenza di Pisa, molto più spesso che no, era in giro qua e là, invitata a partecipare alle numerose conferenze scientifiche, che si tenevano nei vari angoli del mondo, o a cimentarsi in una delle gare dei mille sport a cui si dedicava.

    La villa al Forte, insomma, tra le case di vacanza, era la sua preferita. Be’, sì, c’era anche lo chalet di Crans Montana, nell’Engadina svizzera, però la montagna aveva finito di piacergli da un pezzo. A causa di uno sciatore principiante, chissà come arrivato sulla pista rossa, franatogli letteralmente addosso, era stato costretto con tibia e perone della gamba sinistra ingessate per più di quaranta giorni e altri 60 giorni da passare quasi sempre in letto. Quando il barometro cambiava, da parecchio tempo ormai, zoppicava ancora, ma leggermente, a meno che non gli tornasse comodo accentuare la ‘menomazione’, per attirarsi le attenzioni. Sapete com’è, no? Le fa molto male, vero signor Mandelli? , si preoccupava Milly, la sua segretaria personale, una rossa che a vederla ti restava la saliva tra su e giù, e ne avevi da deglutire per farla decidere a scendere dove doveva arrivare. E’ stata una brutta botta, babbo, dovresti riposare. Beatrice. Ce n’era un’altra di villa: in Costa Smeralda, a Baia Sardinia. L’aveva acquistata anni prima per soddisfare un capriccio della moglie Betty. Ma la Sardegna era troppo lontana, in tutti i sensi. Non faceva che ripetere: E’ mal frequentata, ostentata e invasa da un'orda di arroganti. Insomma, Augusto Mandelli, si considerava un uomo timido nel privato. Nel mondo degli affari no. No, nell’ambiente era considerato ‘a hard nut to crack’, un osso duro, uno di quelli che sapevano ogni cosa sui listini delle Borse internazionali, sui metodi che regolavano le transazioni dei titoli, sulle ipoteche, sui mercati valutari; su come imbastire un affare traendone il massimo profitto, e di come interpretare tra le righe le dichiarazioni di Alan Greenspan, il guru della finanza. Era, insomma, dotato del senso dell’opportunità e della tempestività che non gli faceva mai perdere l’equilibrio. Spesso era riuscito a cavalcare la cresta dell’onda facendosi trovare nel momento giusto in cui iniziava ad incresparsi, secondo il punto di vista generale, indubbiamente il più propizio. Tutto ciò, con la mancanza di ogni morale, l’abilità di farsi ben volere dalla gente senza in cambio averla minimamente in simpatia o nutrirne la minima fiducia, ma contemporaneamente convincendola con calda cordialità della sua amicizia, per nulla disinteressata, ma così sollecita del loro successo da trasformarli in complici; e una totale incapacità al rimorso o alla compassione lo avevano portato al punto in cui si trovava. Se non ci fosse stata quella maledetta emicrania, che lo tormentava sempre più spesso! Sì, Augusto, senza quella maledetta emicrania poteva dirsi…Be’, forse ci sarebbe stato qualcosa d’altro…

    Improvviso, il vento di bora si era alzato violento. Soffiava da est. La vetrata filtrava il calore del pomeriggio. I rami degli alberi, agitati in modo forsennato, proiettavano all’interno inquietanti ombre cinesi.

    Augusto spostò una tenda. Spiò fuori. In quel giorno non aveva programmato visite, né da fare né da ricevere Si era riservato tutte per sé alcune ore per visionare in tranquillità, per l’ennesima volta, i filmini girati da suo figlio in giro per il mondo. Era una piccola e innocente mania, ma pur sempre un tarlo che gli rodeva il cervello; una decisione irrazionale quella di rivisitare uno dei centri dolorosi della sua vita, sfidando i suoi demoni che tentavano di distruggerlo.

    I viaggi di Carlo erano iniziati con la Namibia, subito dopo la maturità. Si era messo in testa di andare alla scoperta del deserto più antico della terra, del mondo affascinante delle sue foreste e degli animali. Da allora in poi, almeno un paio di volte l’anno, aveva preso a volare in qualche angolo del pianeta. Sempre più lontano, e sempre più insoddisfatto che no. La Terra gli era diventata piccola, da racchiudere tutta in un pugno, o in una noce, per usare le sue espressioni. Non più sufficiente per soddisfare le sue pretese di conoscenza.

    Augusto, passò nel salotto-biblioteca. Appoggiò il bicchiere sul bracciolo di un’enorme poltrona di vimini imbottita e foderata color cardinalizio. Abbassò le tapparelle, e srotolò il telo bianco fissato ad una parete. Dopo aver pigiato il tasto per l’avvio del proiettore, si sedette sulla poltrona, e accese, con uno ‘svedese’, la Barclay numero ventidue o la ventitre del giorno.

    Spense la fiammella con una soffiata. Dopo aver agitato il legnetto rosso nell’aria, per disperdere un residuo fumetto inconsistente, lo depositò nel portacenere di cristallo massiccio color turchiniccio, posato sullo stesso bracciolo dove aveva messo il bicchiere ‘napoleon con il cognac ancora da consumare a metà. Il polso gli batteva sempre più velocemente. La parte alta dei globi oculari li sentiva bruciare, come se un sadico gli stesse puntando contro il cannello di una fiamma ossidrica.

    La pellicola, montata con i vari spezzoni dei viaggi di Carlo, iniziò a srotolarsi con il clop, clop, clop antipatico di sempre. Doveva decidersi di acquistare un nuovo proiettore. Quello lì era diventato obsoleto, troppo rumoroso.

    Quando le immagini iniziarono ad apparire sul telo, fu punto da un dubbio: uscivano distorte o era lui a vederle in quel modo a causa dell’emicrania, che stava peggiorando, anche se, tutto sommato, non si sentiva poi ancora così tanto male. Non provava fitte lancinanti alla testa, nessun senso di nausea o di stordimento, come invece accadeva sovente.

    Meglio spegnere il proiettore. Però non era quello che voleva. Nascondersi dietro il male fisico non era un rimedio. Beatrice, sua figlia, in veste di psicologa, gli ripeteva come un mantra, che la scelta più saggia era quella di affrontare i mostri che popolano i nostri incubi. E la ragione sembrava la più logica. Affrontare i nostri incubi alla luce, spesso ci appaiono meno tremendi di quanto non si supponga. Ma come faceva a confessare a sua figlia quali erano i veri incubi che lo incatenavano, fasciandolo dentro le bende strette del rimorso che lo assaliva, senza che lui volesse preoccuparsi veramente di quello che aveva fatto agli altri, né di quello che per causa sua era accaduto a loro; di chi aveva lasciato ville lussuose per andare ad abitare squallide case dove si sentiva un odore sgradevole di muffa; di chi era finito a spalare la neve a più di sessant’anni per campare; di chi aveva premuto invece il grilletto di una Smith e Wesson all’alba di un giorno in cui il sole prometteva stupende sensazioni, ed era stato trovato riverso sul piano del tavolo di cucina, dal più piccolo dei suoi bambini, svegliatosi pensando che stessero scoppiando ancora i petardi della festa che, la sera prima, aveva guardato con gli occhi assonnati al di là dei vetri; di chi si era lanciato dal terrazzo di un palazzo di sei piani con i bordi del cappotto svolazzanti come se fossero ali, ma che ali non erano.

    Bevve un sorso di cognac. Aspirò una boccata lunga dalla sigaretta. Appoggiò la schiena alla poltrona e si concentrò.

    La prima parte del filmato, mostrava Carlo alla guida di una moto-slitta in procinto di superare un breve avallamento di ghiaccio. Gualtiero, suo cugino, in quanto figlio di Mary, sorella di Giorgio e Augusto, sedeva sul sedile posteriore. Agitava una mano a chi li stava riprendendo: due puntini rossi, nell’immensità di un bianco terrorizzante, avvolti dai ghiacci. Una voce sconosciuta commentava: 1998, Grytviken, South Georgia, Antartide. Carlo Mandelli e Gualtiero Brandi, dopo 23 giorni passati tra i ghiacci raggiungono la ‘capitale’ dell’industria baleniera antartica, dove centinaia di migliaia di cetacei furono uccisi e fatti a pezzi nel giro di pochi decenni. Oggi resta solo un minuscolo insediamento fatto di poche case, una piccola chiesa di legno con il tetto aguzzo, un modesto museo, baracche e magazzini crollati sotto il peso delle abbondanti nevicate, che si susseguono per molti giorni dell’anno, ogni anno, e due scheletri di navi abbandonate alla ruggine, e la tomba di Ernest Henry Shackleton, l’esploratore che a bordo della nave Endurance partì per raggiungere il continente Antartico e tentare la traversata a piedi. Un’impresa considerata impossibile che lo costrinse, con il suo equipaggio prigioniero dei ghiacci per oltre due anni.

    La scena successiva si aprì sull’immagine di uno Zodiac carico di spettatori. Per l’improvvisa apparizione di una balenottera affiorata davanti alla prua, urlavano eccitati come matti. Erano imbacuccati di indumenti pesanti impermeabili. Alle loro spalle si vedevano enormi torri di ghiaccio scheggiate da spettacolari seraccate, pronte a staccarsi sotto l’azione del sole e del vento. La voce di prima etichettò l’evento. 1998, Paradise Bay, Antartide.

    Nella scena seguente, di tutt’altro genere, Carlo, sempre con Gualtiero, a bordo di un cutter da pesca. A qualche miglio dalla Bahia de las Calderas nel Sur di Santo Domingo. Un pescatore giovane accucciato infilava un uncino in bocca e lo tirava fuori dalle branchie di un grosso sgombro. Gli praticava un taglio lungo il fianco con un coltello dalla lama affilata e quindi passava l’uncino attraverso l’altro fianco. Infine legava strettamente la bocca del pesce con del filo di ferro, e l’uncino saldamente in modo che l’esca non scivolasse e tuffandosi nell’acqua non girasse su se stessa.

    Era un giovane nero. Portava un berretto da baseball con il logo dei Cincinnati Reds e un paio di pantaloncini di tela jeans, stinta come se ci avessero rovesciato sopra un flacone di candeggina. Il pescatore, più anziano solo di qualche anno, metteva in opera i due grossi teasers. L’altro applicava l’esca su due canne.

    Carlo indossava la cintura e la fermava con le cinghie, poi allungava fuori bordo una delle canne.

    Il pescatore più vecchio indossava un paio di jeans tagliati al ginocchio e una T-shirt bianca stampata con l’immagine del pacchetto delle sigarette Montecarlo: una servile imitazione grafica delle Marlboro. Gridava Tieni il calcio della canna sulla sedia. Allenta la lenza. Lascia che il pesce si danni quando lo prendi. Cojone, cojone! T’ho detto che se non fai così ti tira in mare.

    La voce a tratti s’interrompeva come se qualcuno con un paio di forbici tagliasse il nastro. Poi riprendeva, accompagnata dal cicaleccio e dal clop, clop, clop del nastro da 8 millimetri che si srotolava, ma con il ritmo irreale di una registrazione fatta a 45 giri e riprodotta a 78 giri. Una gran quantità di pesci volanti si stagliava all’orizzonte. A perdita d’occhio si vedevano piccoli tuna che saltellavano e guizzavano nella corrente.

    Augusto fece scorrere avanti la pellicola. La bloccò sull’immagine di Carlo che rideva pazzo di gioia. Stava in piedi sul molo di fianco a un marlin tenuto dritto sulla coda da due muscolosi pescadores bruciati dal sole. Indossava solo un paio di jeans con la cintura che gli scendeva sette o otto centimetri sotto lo sterno. Un ragazzino portava un malconcio cappello di paglia che lo faceva sembrare un vecchio. Sedeva su alcuni cartoni impilati contenenti le bottiglie della cerveza Presidente. Dallo scollo della sua camicia stampata a fiori, spuntava una collanina di legno azzurro, un antidoto contro il malocchio. Gualtiero scherzava con la pinna del pesce sventolandola irriverente come se fosse una banderuola…

    Nel successivo filmato, tra suonatori neri con trecce lunghe e barbe ispide, mentre Gualtiero batteva le palme sulla membrana di un tamburo ad un Reggae festival alla Jamaica, Carlo ballava con foga.…

    Augusto passò a quello successivo. Seduti sulle gradinate della Plaza de Toros, de la Real Maestranza de Caballería de Sevilla, le camicie sbottonate, il foulard rosso annodato attorno al collo, urlavano a squarciagola l’olè al matador…

    Avanti.

    Ad Anacapri, immerso a metà nella piscina dell’Hotel Caesar Augustus, in cielo il colore del tramonto a cui le luminarie della veranda aggiungevano una leggera sfumatura e in fondo, Ischia, Procida, il Vesuvio e la Penisola Sorrentina, Carlo era un Tritone felice di sguazzare.

    Ad Ibiza, suo figlio teneva un boa a mo’ di stola sulle spalle. Il nipote, con i bermuda a fiori, a torso nudo pilotava fra la folla di giovani hippy una ragazza con una gonna così corta, che avrebbe potuto benissimo farne a meno.

    Poi a Filicudi. A bordo di un bianco Swan, con le vele gialle, addossato al boma, suo figlio sorrideva lasciandosi baciare dal sole in costume adamitico…

    Poi cominciò la serie africana. A Marrakech, circondati da una frotta pressante di ragazzini, con la pelle ovviamente color caffelatte, foravano la folla di un souk, inseguendo sempre insieme: Carlo e Gualtiero.

    Avanti.

    In Camerun, accanto a due cacciatori Gbaya, con la loro gigantesca preda trasportata a spalla arrotolata su un grosso ramo, Carlo e Gualtiero posavano con un pitone vivo di almeno 5 o 6 metri di lunghezza attorno al collo e alla vita.

    In Gabon, in pantaloncini e sandali, attraversavano una palude, e ancora…

    Augusto tirò un’ultima boccata dalla sigaretta.

    Bevve il cognac rimasto nel bicchiere.

    Spense il proiettore.

    Si passò prima il dorso della mano sulla fronte e subito dopo sopra il labbro superiore imperlato di sudore. Con il gomito appoggiato sul bracciolo, si sentì invadere da una crescente ondata di disgusto. Una sensazione acida gli saliva dallo stomaco. Dopo aver fatto tutto il percorso di nausea, il voltastomaco gli arrivò in gola. Gualtiero, nella sua mente era onnipresente, attaccato a suo figlio come una piattola schifosa.

    Augusto lo odiava. Aveva lottato perché non accadesse. Aveva combattuto con tutte le sue forze per tenere a bada il lato oscuro di se stesso, ma aveva fallito più spesso che no. In pratica provava per lui risentimento per la sua unica colpa di essere ancora vivo. Sentiva ripetere nelle orecchie la frase della gente quando parlava di lui E’ un buono a nulla, non fa nulla. E’ simile a suo padre Era un’eco fastidiosa, martellante.

    Il vento si era irrobustito. Le cime degli alberi sbattevano furiose. Non era raro che il Forte fosse colpito da una tromba d’aria, un problema che, in primavera conosceva bene la Versilia. Istintivamente, Augusto prese il cellulare da una tasca. Chiamò Beatrice.

    Beatrice si trovava a Parigi per una serie di convegni.

    Timidamente, appena la voce della figlia si palesò nel suo orecchio, fece: Ciao, Bice.

    La figlia si meravigliò, ma non troppo. Bonjour, babbo! Sono le tre di sabato pomeriggio, qual è il problema per chiamare a quest’ora?

    Per un attimo, Augusto non riuscì a mettere insieme tre parole in croce. Guardò istintivamente l’orologio al polso come se volesse verificare che fossero veramente le tre. Quasi le tre. Poi belò. Be’, mi è venuta la voglia di sentirti.

    Il vecchio orso soffre di malinconia, eh?

    Lei non condivideva il suo desiderio di solitudine. No, non credeva alla sua dichiarata necessità di stare un po’ in pace dopo giornate di lotta passate nel mondo feroce degli affari. La considerava una debolezza. Però non lo aveva mai contestato apertamente.

    A quel punto, preoccupato di averla, forse, interrotta nel mezzo di una conferenza, si giustificò. No, sai, è perché…è perché sono al Forte. Vabbe’, mi dispiace, okay?

    Beato te, qui piove che Dio la manda, e immagino invece il Forte con un sole meraviglioso… No, babbo, non stavo facendo niente di così importante.

    A Parigi la pioggia è una costante

    Augusto non aveva alcuna voglia di riattaccare. Sentiva un gran desiderio di una voce amica. Come vanno i convegni, Bice?

    Bice scherzò. Pas mal! Hanno parlato un sacco di cervelloni, gli strizzacervelli, come li chiami tu.

    Hanno scoperto qualcosa di nuovo?

    No, babbo, in psicologia non c’è più nulla da scoprire. La medicina sì deve fare ancora un sacco di strada, ma noi... Freud ci ha fregato tutti. Per la miseria. Ha spiegato tutto lui. Be’, ora ti saluto, babbo, fra cinque minuti parla un giapponese. Si chiama Ishi, o qualcosa del genere.

    Interessante!

    Augusto finse di meravigliarsi. Anche i giapponesi studiano psicologia? Be’, conosceva fin troppo bene il loro modo di fare affari e di sicuro la psicologia, o meglio la psicologia di marketing la studiavano, eccome! Scusami se ti ho disturbato, Bice.

    Lei tagliò corto. ça ne fait rien, babbo, ti bacio e ti abbraccio forte. Bye

    A presto, Bice.

    Quando la squillante voce della figlia si spense dentro il suo orecchio, Augusto restò con il cellulare in mano, seduto nella stessa posizione per qualche secondo ancora, a riflettere. Beatrice era la maggiore, aveva da poco compiuto ventisette anni. Era sempre stata un tipo indipendente, una di quelle femmine cui mancavano solo le cose fra le gambe, per essere considerate dei maschi. Cavalcava da perfetta Amazzone. Si buttava giù a rotta di collo con gli sci ai piedi dalle piste nere e guidava un Honda 500 come il più fuori di testa dei centauri. Da un anno pilotava un Beechcraft Baron, quando non andava a buttarsi dalle cime con il parapendio, o non si lanciava con il paracadute. Osava l’estremo come sfida a sé stessa, e non come Carlo, che era stato animato solo dalla sete di sapere. Lui non si era mai paracadutato tanto per farlo, anche se non avrebbe esitato un istante in caso di necessità, e chissà quante volte si era trovato in situazioni di pericolo in Africa, nelle foreste Amazzoniche, o sulle cime delle Ande. Erano simili e allo stesso tempo, pur essendo fratelli, molto diversi.

    Augusto riandò alla finestra.

    Spostò la tenda.

    Spiò fuori, anche se non sarebbe stato necessario per rendersi conto che, il vento, anziché cessare, si era irrobustito. Le ombre delle chiome degli alberi scossi dalle sue folate, proiettate all’interno come arabeschi, continuavano ad essere un indizio chiaro. Doveva però uscire, andare nell’altra casa, la casa che Carlo aveva voluto costruire parte in muratura e parte con tronchi d’albero, sulla riva di un ruscelletto artificiale, e di uno stagno in cui galleggiavano le ninfee, esattamente nell’angolo opposto di un giardino giapponese dominato da betulle bianche e pini neri. Di lato, un ponticello di legno buttato su un altro ruscello scosceso, portava alla piscina che assomigliava a un ‘laghetto’ naturale con le rive piantate di lisimachia rosa, di cedri blu, di emerocallidi color oro antico e di ligularie gialle, che si intrecciavano agli iris e ai bambù, e si mischiavano ai rododendri, e a una quantità di azalee con fiori dai colori intensi e petali spesso campanulati, dal bianco al rosso acceso, di felci e di colchici.

    Era lì, in quella casa, che Carlo aveva abitato stabilmente. La considerava il suo rifugio, il suo nido di uccello implume costantemente alle prese con l’apprendimento al volo. Solo lì, aveva asserito di riuscire a vivere distaccato dai rumori mondani, coltivando le abitudini della propria vita in modo del tutto personale, in netto contrasto con gli altri. La sua era stata un’esistenza spesa alla ricerca di una spiritualità, di un modus vivendi criticamente controverso. Era stato in lotta continua, giorno dopo giorno, come se fosse costretto a nascondersi in preda all’ossessione di dover coabitare con un grande e tormentoso segreto nel cuore: l’anima a pezzi, nella spasmodica ricerca di sensazioni allucinanti e frustranti e di una punizione da cercare ad ogni costo.

    Sfidando il vento, Augusto attraversò il cortile sul retro della villa. Sollevò il gancio. Spinse il cancelletto di legno dipinto di verde, e si trovò di fronte all’ingresso della casa che era stata abitata dal figlio.

    Da un bel pezzo di tempo nessuno ci metteva più piede, escluso lui e Bice. Carlo non aveva mai gradito che altri vi entrassero. Gualtiero e la vecchia Sonia, la cameriera, a parte. Andando al Forte, Augusto passava perciò a dare un’occhiata, com'era uso prima, quando occorreva annaffiare le kenzie, dare il becchime alla gracula che aveva imparato a ripetere parole irripetibili durante la permanenza in uno dei peggiori bar dei bassifondi di Marsiglia, il mangime ai pesci del grande acquario d’acqua marina, grande quanto un’intera parete del salotto; arieggiare le stanze e i locali pregni dell’odore dei vari incensi. Carlo era solito bruciare Citronella, Patchouli, Sandalo, Rosa Mirra in grani, secondo i principi dell'aromacologia, dentro piccoli bracieri portati dall’oriente, mentre pronunciava formule rituali di invocazione, suoni e parole.

    Augusto spinse la porta di legno di sandalo. Si trovò nell’atrio. La zaffata di chiuso lo investì lasciandolo per qualche istante senza respiro. Da quanto non era stato lì? Al Forte, c’era stato quasi tutte le settimane, ma non nella casa, dove soffriva, gravato dai ricordi e dalla presenza delle sue cose. Era persino diventato pigro. L’inverno scorso, eccezion fatta per il Forte, per il solo diporto, non si era quasi mosso da Lucca. Aveva viaggiato unicamente per affari. No, si stava dimenticando del viaggio a Cuba. Con Alberto erano andati a pescare, dove era solito andare Hemingway, la vera fissazione del fratello. L’idea di fare una specie di pellegrinaggio nella terra di Castro, era diventata per lui una sorta d’impellenza fisiologica da soddisfare immediatamente. Asseriva a spada tratta che il suo idolo letterario scriveva solo di cose vissute e sperimentate. E come in precedenza era stato a Pamplona e in giro per la Spagna, e in Africa a cercare ciò che non c’é più, ora a Cuba aveva preteso di rivivere l’ennesima esperienza sulle orme di quel ‘matto' di Hemingway.

    Avevano iniziato con l’affittare, di fronte al Palacio de l’Artisaneria, una Buick rossa rigorosamente anni 50, con tanto di proprietario come chauffeur. A Cojimar, dopo un’ora buona di scassamento di reni, avevano scelto uno dei battelli da pesca ancorati nel porticciolo, e un marinaio robusto, scuro per natura, con un cappello di paglia in testa, e indosso solo un paio di calzoni e una canottiera, che si serviva di un aiutante nero. Che ogni sera si sbronzassero con la birra portata a casse sulla barca da Paco, il ‘comandante’, rientrava già nel copione senza doverlo richiedere, ma aveva fatto commentare ad Alberto con grande soddisfazione: ‘Te l’ho detto, Hemingway scrive solo ciò che ha vissuto’. Il noleggio del battello era stato semplice. La contrattazione rapida. La settimana era volata via veloce tra una pescata e l’altra, numerose coppe di Daiquiri spumeggianti di fresco lime, ghiaccio tritato, rum e zucchero bevuti alla Floridita, ‘il miglior bar del mondo’ secondo Hemingway, dove una sua statua in bronzo a grandezza naturale, realizzata dall'artista cubano José Villa Soberón, ne celebra la sua costante frequentazione:.un trionfo dei lussi anni 50 con il lungo bancone di legno lucido, i camerieri impettiti nelle rosse livree e la fragranza del rum che impregnava l’aria; e altrettanti Mojitos: rum, zucchero, succo di lime e menta, trangugiati nei fumosi e stretti locali della Bodeguita del Medio. Un classico insomma. E mangiate di gustose langostas, e di lechon asado, maialino arrosto, annaffiate da enormi bevute di cerveza seduti ad un tavolo di Eddy’s, uno dei paladar in cui si mangiava storditi dalla musica dal vivo. La variante, o forse no, era stato ascoltare il lamento dei pescadores. Dopo il boom, le acciughe erano sparite. C’erano rimaste solo le sardine. Non c’era verso di convincerli, anche se i più vecchi raccontavano che venticinque anni prima era successa la medesima cosa, ma all’inverso. Erano sparite le sardine e si era verificato il boom delle acciughe. Un rompicapo, non certo reso meno astruso dalla testimonianza di chi era ragazzo quando l’Habana Libre era ancora l’Habana Hilton e, al casinò del Riviera si vincevano e perdevano somme da capogiro con la stessa nonchalance di stappare una bottiglia di rum e di farsela in quattro e quattrotto. Giuravano su tutti i santi del Paradiso, e su i parenti defunti che al loro tempo era stato ancora l’inverso, e non perché ci fosse Batista. Insomma, non era una tragedia. Erano sparite le acciughe ma c’erano le sardine. Un’alocada, una matteria dell’Oceano, aveva sostenuto qualcuno. Un castigo de Dios, era stata l’opinione di qualcun altro, senza sapersi però spiegare il motivo del castigo, e se ne meritassero uno in più. Por Dios! Non c’erano già i tornados, l’embargo e ’el Loco’, come chiamavano oggi i delusi: Fidel. Un tempo era ‘El caballo’, in omaggio alle sue virtù virili, e quando si parlava di lui si diceva: ‘El Zorro’. Ma in natura niente avviene per caso. Ogni fenomeno segue una logica, anche quando appare illogico, come lo spiaggiamento delle balene, per esempio, e quasi sempre gli scienziati sono in grado di spiegarlo. Aveva filosofato così il professor Zapata. Professore in cosa non si sapeva, se non nel prendere la vita per il verso giusto, con il bicchiere del rum in mano a discutere con Enriquito, un ‘santero’ nero come il carbone, o meglio come uno degli schiavi negri dai quali discendeva, seduti al tavolino di uno dei mille bar del mitico Malecon, il lungomare- il più puzzolente e affascinante che conosca- che come una stola avvolgeva tutta la città fin dentro l’Habana Vieja, come il collo grinzoso di una vecchia decaduta signora nobile.

    Dipende dalla temperatura della superficie del mare, dalle correnti, dalle concentrazioni di anidride carbonica, da El Niño. Se le acque davanti alle coste del Perù e della California diventano più calde, le popolazioni di fitoplancton meno ricche di nutrienti sono portate verso la superficie. Senza el comer niente acciughe, niente uccelli marini e niente salmoni, perciò più sardine…" Forse era professore di biologia marina. Dopo l’immancabile visita alla Finca Vigia, comprata dalla terza moglie di Hemingway, Martha Gellhorn, in cui per tutta ricompensa lo scrittore si stabilì con la nuova consorte Mary Welsh, i due fratelli Mandelli avevano lasciato Cuba.

    Al ritorno, Augusto, si era occupato esclusivamente d’affari.

    "

    Augusto avanzò lentamente. Non è bene profanare la sacralità di un tempio. Non accese alcuna lampada. Si orientò con il filo di luce che filtrava dalle finestre chiuse.

    Andò nello studio.

    Aprì la finestra. Con fatica, lottando con il vento, spalancò le imposte di legno massiccio; poi le fissò al gancio esterno e richiuse la finestra.

    Tutto era rimasto identico, immutato nel tempo come Carlo aveva voluto che fosse. Il piano di legno grezzo sorretto da due grossi tam tam, ricavati da bidoni di latta dipinti di blu, fungeva da scrittoio. Era letteralmente coperto di riviste e di carte geografiche di gran parte del pianeta. Sopra ogni cosa spiccava una statuetta d’agata ‘ceroide’ raffigurante Pu Tai, la reincarnazione di Maitreya, colui che si faceva amare, simbolo dell’ambivalenza esoterica della fortuna e della sfortuna in cui credeva ciecamente. La libreria traboccava di volumi. Le sedie erano ricoperte di pelli maculate. Il tappeto rosso era un Kilim caucasico. Alle pareti erano appese maschere tribali, un’acha di pietra, varie asce, e alcune foto con Gualtiero. Sempre lui.

    Augusto si spostò nella camera da letto rimasta ugualmente intatta. Il grande letto a baldacchino era fatto, pronto a ricevere un viaggiatore; ai due lati i scendiletto peruviani in vera pelle originale di lama con al centro l’immagine dell’animale. Il piano del comò Biedermeier era ingombro all’inverosimile di piccole statue di cotto di epoca precolombiana. Nel centro, poggiata su un piedistallo di legno, dominava una ‘katana’ in avorio: la spada da Samurai da parata con il fodero e l’elsa finemente incisi. Un San Sebastiano, legato ad un albero infilato da diverse frecce, dipinto da un naif era il capoletto. Un séparè di seta cinese rossa celava l’ingresso dello spogliatoio. I suoi abiti, le camicie e tutto il resto apparivano appesi ordinatamente, come non era invece in ordine il salotto, una specie di bazar. Carlo aveva concentrato in quello spazio un’incredibile miscellanea di oggetti portati dai vari viaggi. Il gran divano, come il pavimento di legno, era anch’esso ricoperto da pelli maculate. In ogni angolo aveva sistemato ogni sorta di statue. Un particolare inquietante saltava subito agli occhi: la gran parte delle statue erano acefale. Un pappagallo di diaspro rosso, con la coda di lapislazzuli e ossidiana, appoggiato su un trespolo, era rivolto verso un grosso falco di lapislazzuli blu, appollaiato su uno spuntone di pirite. Con gli occhi rosso rubino, il rapace fissava una nicchia ricavata dentro una parete dov’era sistemata una figura femminile a misura intera, di marmo bianco. La statua, probabilmente Proserpina, figlia di Cerere; rapita da Plutone re dell'Ade mentre coglieva i fiori sulle rive del lago Pergusa, vicino a Enna, e trascinata sulla sua biga trainata da quattro cavalli neri, divenuta la sua sposa e regina degli Inferi, era la sola non acefala. In ogni angolo c’erano anche vasi di ceramica di vari colori. Una serie di pugnali con l’impugnatura in tormalina verde, la pietra che assicura denaro e successo negli affari, era infilzata in un asse appeso di lato della porta. Una specie di totem con dei piccoli crani poggiava ad una parete a lato della gigantografia di una scena del film ‘Notorius’ di Hitchcock: Ingrid Bergman, Cary Grant e Claude Rains, e il poster di Zorba il Greco…alias Anthony Quinn, -il murales originale è dipinto su un muro di Broadway.- Una quantità di libri era un po’ ovunque: sulla credenza, con i vetri verdi decorati con arabeschi in stile Liberty, e sul mobile bar, dove risaltava la bottiglia verde dell’assenzio, un distillato ad alta gradazione alcolica all'aroma di anice derivato da erbe quali i fiori e le foglie dell'assenzio maggiore (Artemisia absinthium), una sua vecchia passione poi abbandonata. La bottiglia era contornata da una serie di bicchieri decorati in stile orientale. La bottiglia e i bicchieri erano accanto a una sfera di unakite rosa fior di pesco grande quanto una boccia da boowling. L’acquario era vuoto, spento, morto, ma ancora fonte di maleodore.

    Con una nuova sigaretta che pendeva da un angolo della bocca, Augusto impiegò qualche secondo a togliere dalla tasca il cellulare per rispondere. Pigiò il tasto della ricezione e l’Inno alla gioia dalla nona sinfonia di Beethoven cessò.

    Augusto Mandelli…ah, ciao… Giorgio, come va?...non sei al golf?...ah…ho capito…è stata lì?...uhm…domani?...devo sentire Grecchi, è sempre molto impegnato, lo sai.…Credo comunque che si possa fare, provo a chiamarlo e ti richiamo… Come stanno le bambine?...é una cosa da niente dài, sono le malattie della loro età, lo sai… Ci risentiamo, ciao!

    Augusto si prese qualche secondo. Sentiva di aver bisogno di un drink. Per il momento si concesse di immaginare il gusto del cognac, la sensazione di tenere in mano il bicchiere di cristallo, il profumo del liquore. Pensò. Solitamente, il professor Grecchi, anche il sabato pomeriggio non abbandona i suoi pazienti. Guardò il suo Seiko e decise. Erano le quattro, un’ora favorevole.

    Spense il mozzicone in un portacenere ricavato da una conchiglia, del genere Chlamys glabra, digitò il numero memorizzato e attese con il cellulare incollato all’orecchio.

    La ragazza del centralino rispose. Buongiorno, clinica Bella vista. Sono Roberta.

    Buongiorno. Sono Augusto Mandelli, posso disturbare il professore ?

    Attenda in linea prego, vedo se non è impegnato, se posso passarglielo.

    Grazie.

    Augusto inspirò e abbassò gli occhi sul pavimento, quasi a cercare nel parquet, una crepa che non esisteva.

    Dopo un paio di minuti o tre con l’eco del refrain di ‘Maria, di West Side Story’ dentro l’orecchio, sentì la voce amica del professore che si informava con la solita, rituale, frase formale. Come stai Augusto?

    Discretamente, e tu ?

    Con i miei ‘bambini’ c’è sempre da fare, ma mi sento abbastanza in forma.

    Li chiami sempre allo stesso modo i tuoi pazienti, eh?

    Grecchi, detentore di un’idea tutta sua sulle patologie psichiche, filosofò. Be’, sai, vorrei tanto che fosse diverso, ma alla fine non è un male. Le cose viste dal loro punto di vista non sono sempre il peggio.

    Augusto minimizzò. Ti ho chiamato per un problemino.

    Il medico la buttò sul ridere. Be’! Se è solo per un problemino!

    Chiara, la sorella di Gualtiero…

    Tuo nipote?

    Sì, mio nipote. Insomma, oggi Chiara è stata a all’Alise, per parlare con Alberto

    Grecchi si meravigliò. Era così urgente per andare al campo di Golf di Pietrasanta?

    Domani vorrebbero venire in villa. Gualtiero, Chiara e la madre, mia sorella Mary. Gualtiero sembra stia di nuovo male. Quel ragazzo mi preoccupa. Farnetica, e Alberto ed io pensiamo… se posso osare, sarebbe opportuno…se tu potessi fare un salto da noi.

    Lo psichiatra fece scorrere le dita nella massa arruffata dei capelli e tagliò corto. A che ora ?

    Per me va bene a qualsiasi ora… ed é così anche per loro.

    Okay…vediamo, dunque. Dopo qualche secondo. Alle sedici?

    Alle sedici da me in villa. Grazie…a proposito , s’informò prima dei saluti, Augusto. Come sta Silvia…e i ragazzi ?.

    Tutti in perfetta salute, grazie. Parleremo domani, Augusto. A presto, un abbraccio.

    A domani, ciao.

    Augusto restò ancora una volta con il cellulare in mano, pensieroso. Si guardò intorno ospite della casa di uno sconosciuto. Aveva allevato i suoi figli pensando di essere un padre non proprio modello, ma in linea di come avrebbe dovuto essere un genitore. Avevano frequentato la migliore scuola in Svizzera, Le Rosey, una struttura nei pressi di Rolle, che vanta il soprannome di School of Kings, il giro ‘giusto’ di compagnie; mai alcun problema economico né uno stress emotivo, a parte la morte improvvisa della madre dovuta ad un increscioso incidente in mare, li aveva turbati.

    Lui e sua moglie, la sua seconda moglie, avevano vissuto rispettandosi, senza screzi evidenti o plateali dissensi. Lei aveva trattato Carlo e Beatrice come figli suoi. Le loro discussioni, inevitabili anche in ogni coppia pur affiatata, si erano sempre risolte civilmente, senza mai la necessità di alzare la voce. Erano stati una famiglia invidiabile, eppure, Carlo aveva vissuto in un disagio incolmabile. Qual era la causa? Gualtiero? Perché erano stati costantemente insieme, nonostante?... E ora quelle sue assurde pretese, di gettare fango addosso alla famiglia!

    Come un automa, aprì un cassetto. Tirò fuori un plico di fogli tenuti assieme con una spirale di plastica. Era il diario di Gualtiero relativo all’ultimo viaggio in Africa con Carlo, ma al quale mancava la parte finale rimasta nascosta o sepolta dentro la sua mente ottenebrata

    Scriveva: "Gennaio, 2012. Arrivare a Cape Town, fu come spiccare un magico salto in un mondo denso di mistero popolato dai neri usciti dalle township dove un tempo, un duro apartheid, li aveva relegati senza alcuna via d’uscita.

    All’aeroporto Malan, seduti in una sala d’attesa, circondati da un campionario di gente di varie etnie, rumorose, che si muovevano con i ritmi lenti dell’Africa, incontrammo Simon Coward. Il grosso inglese che pilotava un elicottero Huey-UH-1 con cui portava in giro per i cieli africani, verso le mete del paradiso, ricchi turisti"

    Augusto si prese qualche secondo di pausa. Quel diario lo costringeva a riflessioni che finivano per tormentarlo. Si sedette su uno dei divani, ma si alzò in piedi subito dopo. Immaginare di tenere un bicchiere in mano non era più sufficiente per calmare la sua ansia. Aprì il mobile dove Giorgio teneva abitualmente i liquori. Trovò solo una specie di fiasco di coccio color verde. Gli venne in mente di preparare un Caipirinha. Avrebbe dovuto però avere un limone, lo zucchero di canna, della Cachaca e un certo numero di cubetti di ghiaccio. Decise di rinunciare. Andò a sedersi su un ampia poltrona su cui era stata gettata una pelle maculata appartenente a una pantera. Abbassò gli occhi sui fogli e riprese a leggere.

    "…Era la solita Africa. Madri intagliate nell’ebano scorazzavano con i loro cuccioli di uomo aggrappati alle spalle. Bianchissimi, quasi rosei boeri, con un cappellaccio in testa, fumavano le Rothmans, fissando dritto sdegnosamente, sbuffando corpose nuvole di fumo come se volessero crearsi intorno una cortina per isolarsi dal resto diventato ormai così nero da far rivoltare nelle tombe i loro antenati. I turisti carichi di souvenir, già preoccupati del futuro mal d’Africa, spiavano per l’ultima volta il cielo striato all’orizzonte da filappoli rosa e d’oro, fotografando, a trecentosessanta gradi, ogni angolo visibilmente prendibile dalle vetrate dell’aeroporto. Uomini d’affari, con la ventiquattrore ammanettata al polso, nei meandri del free shop, acquistavano profumi foulard e tutto ciò che avrebbero potuto comprare a Londra a Parigi, o a Hong Kong, in un centro commerciale, qualche volta persino ad un prezzo inferiore.

    Coward ci mise fretta senza troppi convenevoli con il suo solito modo brusco derivatogli da due decenni d’Africa. Dobbiamo partire. Caricò, o meglio gettò i nostri bagagli su un Rover con i fianchi graffiati dalle coriacee spine delle acacie, e guidando nervosamente, dopo l’attraversamento di una pista di parcheggio della S.A.A. (South African Airways), si fermò vicino all’elicottero giallo come il becco di un tucano. Il cappello da cowboy gli conferiva il ‘look da testimonial della Marlboro’. Trasbordò i bagagli. Pochi minuti dopo indossando la calottina di pelle marrone il suo aspetto divenne quello di Charles Lindberg.

    Siete pronti, campioni? , chiese. Estrasse dalla tasca posteriore dei jeans una bottiglia piatta da un quarto di litro. L’etichetta mostrava l’immagine di un arzillo vecchietto canuto. Volete un goccio di ‘Grand-Dad’? ci propose, una sorsata di bourbon prima di partire, lo giuro su mia madre, è meglio di una medicina. Quando facemmo segno di no, portò la bottiglia alle labbra e bevve una lunga sorsata.

    Con un cigarillo pendulo da un angolo della bocca, dopo un lungo riscaldamento del motore, Coward diede gas. Con i rotori al massimo, e le turbine sibilanti, il coleottero d’acciaio si alzò. Ci avvolse una densa nube di sabbia rossa, che i venti caldi del nord scaricano lì dopo averla prelevata dal Kalahari,prima di proseguire verso sud, dove al largo dell’Oceano, incontrando le correnti fredde spiranti dalla gelida Antartide, creano turbini e vortici di fragorose tempeste.

    Quando uscimmo dalla cecità imposta dalla cipria rossa, con il sole negli occhi, Coward si divertì a scendere radente sopra i tetti delle ville con piscina, e a lambire le terrazze dei palazzi con le vetrate risplendenti. Sopra una macchia scura di miseria e di sporcizia, lasciando vagare lo sguardo, esibendo un’espressione schifata, fece segno con la mano, torse il naso e urlò. Non sentite che tanfo? Siamo sopra le baracche dell’up town. Non é certo uno di quelli che ha sostenuto la causa di Mandela, pensai. Passammo sopra Caledon, ai piedi delle Klein Swartberg, la città famosa fin dai tempi dei Khoikhoi per le sorgenti termali, la settima più vecchia del paese. Sopra il Breede, un filo d’acqua impegnato più avanti a difendere la sua sopravvivenza nascondendosi per alcuni tratti dentro gli anfratti di alte rocce, Carlo si esaltò, ricordando la volta precedente. Con una piroga l’avevamo navigato partendo da Swellandam, una strana città tutta bianca. Prima di Riversale, Coward si abbassò su un gigantesco Milkwood. Ha seicento anni quel fuscello , disse, e Carlo obiettò. Non posso crederci. Allora lui raccontò che cinquecento anni prima, il comandante di una nave aveva lasciato lì una lettera, che fu trovata un anno dopo da un ufficiale sulla rotta per l’India e perciò lo chiamavano ‘Post Office Tree’.

    Coward, quand’era in volo, sembrava un’altra persona, e non credo che dipendesse dal Bourbon, ma dalla gioia di volare. Quando il sole stava iniziando con i suoi dardi infuocati a colpire la fiancata sinistra, e a pennellare i campi coltivati con la luce smorzata del tramonto, Riversale passò via veloce sotto il ventre del coleottero d’acciaio

    In quel punto, il vento era magicamente sparito. L’inglese reduce di mille avventure, alla vista dell’Oceano, decise di scendere. Ora scendiamo , urlò. Sotto, la Plettenberg Bay brillava nello splendore delle sue acque frequentate dalle balene. Carlo indicò con la mano una massa scura sormontata da uno sbuffo d’acqua. Fece: Eccone una…Oddìo, là ce né un’altra, e un’altra ancora Il suo era l’entusiasmo classico di un bambino. Era felice, e non finì di esaltarsi innanzi alla maestosa bellezza della natura, che subito dopo era una valle piena di verde e di fiori, e poi il corso gonfio dello Storms River, infilato dentro la macchia immensa di un'intricata foresta baciata dalla riva dell’Oceano.

    Con ormai il sole alle spalle, arrivammo sopra l’Addo National Park. Coward spostò dalla bocca il microfono collegato alla cuffia. Qui si possono sentire gli ultimi barriti , disse mentre un attimo dopo, vicino a Port Alfred, appariva da un lato l’immensa township allungata sulle colline di Grahamstown e dall’altro, il luccichio delle acque del Great Fish aperte a foce verso l’oceano. Circa un’ora dopo sfiorammo East London, ma quando sorvolammo le splendide spiagge chiuse da alte dune seminghiottite da una folta vegetazione, e scendemmo verso le onde gigantesche della Nahoon Reef, Carlo impazzì letteralmente di gioia. In quel punto, le montagne d’acqua sono, infatti, così maestose da richiamare i giovani atleti dal corpo statuario, che sopra le tavole sembrano dèi scesi in terra per allietare la vista dei comuni mortali. Le ragazze, stupende dee, che il sole ammanta di una patina dorata, risplendono come i Buddha delle pagode thailandesi.

    Il villaggio, una spruzzata di capanne su un largo arenile, si trovava vicino alla foce del Great Kei, a ridosso di uno dei mille bastioni dove l’Oceano, divertendosi, rientrava creando una baia dentro la quale finiva per stemperare la sua sovraumana violenza. L’atmosfera era di un paese felice. Le tristezze e i dolori della vita erano banditi per costituzione e il primo articolo della stessa recitava: ‘Il paese è fondato sul diritto alla felicità’."

    Augusto interruppe la lettura, accese una sigaretta e aspirò con avidità una boccata lunga. Poi si passò le dita nei capelli. Il ricordo del suo passato cercò di affacciarsi alla sua mente, ma lui lo ricacciò indietro. Non gli andava di ripercorrere tutte le tappe che lo avevano portato ad essere l’uomo che era. Spesso si era chiesto come a ventiquattro anni, dopo solo sei anni di lavoro, le sue entrate fossero già così strabilianti. Augusto aveva imparato rapidamente che i soldi attraggono altri soldi. Funzionava

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