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I Passi Irrequieti del Fato: L'ultimo italiano: una saga in tre parti, #2
I Passi Irrequieti del Fato: L'ultimo italiano: una saga in tre parti, #2
I Passi Irrequieti del Fato: L'ultimo italiano: una saga in tre parti, #2
E-book203 pagine2 ore

I Passi Irrequieti del Fato: L'ultimo italiano: una saga in tre parti, #2

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Info su questo ebook

Si aspettavano una rapida e gloriosa conquista coloniale. Ma Il destino aveva altri piani.

I fratelli Gianni e Renzo Como sbarcano con un reggimento Bersaglieri a Tripoli, in Libia, dopo la dichiarazione di guerra del Regno d'Italia all'Impero Ottomano. Renzo, a cui la famiglia aveva affidato la vita del fratello più giovane, mette la propria vita a repentaglio per assolvere il suo compito durante una battaglia piena di insidie e carica di confusione, coraggio e crudeltà.

Angelina Scrivatti, nonostante preoccupati ammonimenti, intraprende il viaggio da Catrubello verso l' America per far onorare una promessa di matrimonio. Quando infine arriva in una cittadina mineraria nel Nord Michigan, trova l'uomo che ama in preda alla colpa e alla disperazione. I loro sforzi per costruire una felicità insieme si trovano presto coinvolti in un uragano di violenze etniche che conduce a una notte di inconcepibile tragedia, e a un' ultima occasione di redenzione personale.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita24 ago 2020
ISBN9781071558218
I Passi Irrequieti del Fato: L'ultimo italiano: una saga in tre parti, #2

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    Anteprima del libro

    I Passi Irrequieti del Fato - Anthony Delstretto

    PRIMA PARTE

    ‘L’OASI’

    Capitolo 1

    11 ottobre 1911: Tripoli, Libia

    Il barcone in arrivo sbatté sulla banchina di cemento con un sussulto, rimbalzò indietro, sbatté ancora. Più di cento fanti Bersaglieri con le penne di gallo cedrone sussultanti sugli elmetti, cercarono di riprendere l’equilibrio per rispondere al comando del loro luogotenente, SU!

    Nel vasto porto, brulicante di attività e risuonante di colpi di clacson e degli ancor più sonori fischi di sirena delle dozzine di imbarcazioni di ogni grandezza, si trovavano le navi veloci per il trasporto delle truppe Verona e Europa. Lo sbarco delle truppe del Reggimento 11° Bersaglieri e del 40° Fanteria, contemporaneamente a quello di materiale di supporto e rifornimenti assortiti, era già iniziato da un po’ da entrambe. Inviati con urgenza da Napoli due giorni prima, i vascelli erano arrivati con lo scopo di rifornire e rinforzare Tripoli, capitale della grande provincia costiera conosciuta come Tripolitania, l’ultimo gioiello della corona del Re Vittorio Emanuele III. Il grosso dell’Esercito Italiano di Spedizione era atteso a breve.

    Il soldato Gianni Como era in fila con gli altri membri della Quarta Compagnia sul barcone che sembrava una scatola rettangolare. Costruita da carpentieri navali e facile a rovesciarsi a causa della mole ingombrante, la goffa zattera di legno, corredata di lunghe panche e completa di barre laterali apribili, conteneva centoventi uomini. L’altra metà della Compagnia di Gianni, insieme ai Battaglioni 5° e 6° – il resto del 27° Battaglione – era a bordo di un convoglio di simili imbarcazioni che si trovava dietro in attesa di sbarcare. Le rumorose lance a vapore che trainavano via dal Verona la goffa barca sputavano dai fumaioli pesanti volute nere nel luminoso cielo africano. I gabbiani facevano virate e lamenti funerei nel vento marino. I marinai della Reale Marina nelle loro uniformi estive bianche manovravano le funi, legando il barcone su cui si trovava Gianni ai cunei bucherellati di ghisa murati nella vecchia banchina malandata. Gli uomini, pressati come sardine in scatola, si spingevano involontariamente cercando di stare davanti ai loro sedili. Grazie al cielo il mare è abbastanza calmo per lo sbarco, pensò Gianni, mentre l’imbarcazione sbatteva nuovamente nella parete di cemento. Come avrebbero potuto fare se il mare fosse stato agitato? Gli uomini trattenevano l’eccitazione, anche se per quelli che venivano dai villaggi di campagna i viaggi per mare, anche se brevi, non erano certo la norma. Gianni e gli altri nuovi coscritti erano i più irrequieti, meravigliati, ansiosi anche se non sapevano che cosa aspettarsi. I veterani più anziani, richiamati dalle riserve per l’invasione, erano concentrati a rimanere in piedi.

    Le truppe indossavano le nuove uniformi grigio-verdi, approntate per la campagna. Più caldo della merda bollente aveva detto il concittadino castrubellese di Gianni, Marzio Volta, nell’indossare per la prima volta la pesante giacca dell’uniforme. È un dannato materiale da cappotti per le Alpi, non per questa fornace aveva brontolato.

    Che donnetta l’aveva ripreso Gianni.

    Gianni indossava ciò che gli passava l’esercito senza lamentarsi. Ben consapevole della grande avventura nazionale che stava per compiersi, era orgoglioso e possessivo verso la sua uniforme. Manteneva morbidi con l’olio di oliva i suoi stivali di pelle marrone, la cintura, la cinghia del fodero della baionetta e le tasche delle munizioni. La sua gamella di legno, su cui era impresso 11° Bersag. Reg. 4° Co. con G. Como che lui stesso aveva inciso sulla banda metallica, era della capacità di mezzo litro. Di solito il suo materassino era strettamente arrotolato in cima allo zaino, ma con lo sbarco e il costante scontrarsi sul barcone, si era allentato e pendeva sulla sinistra. Pregò che gli occhi di falco del sergente Cena non se ne accorgessero.

    A Torino, durante l’addestramento, Gianni si era fatto fare una fotografia in uno studio subito fuori della base. Aveva indossato l’uniforme verde per l’occasione, con la mantella militare enfaticamente spinta all’indietro. Benché fosse un soldato semplice, stelle dorate ricamate gli decoravano sia il collare della casacca che il berretto. Sulla testa portava la vaira, il cappello formale dei bersaglieri nero a tesa rigida, simbolo iconico della élite dell’unità fucilieri. Lo portava spinto un po’ all’indietro e su un lato nello stile audace dei bersaglieri. Le sue lunghe piume di gallo cedrone – più lunghe di quelle che ornavano l’elmetto da battaglia – erano drappeggiate sulla spalla destra. Sotto l’angolo elegante della visiera i capelli biondi di Gianni, marchio del sangue Vacci di sua madre – tracciabile fino agli antenati Longobardi secondo la tradizione familiare – contrastavano fortemente, appaiati ai giovanili baffi spioventi. Nei toni seppia della foto originale gli occhi del soldato apparivano chiari in contrasto con il viso scurito da intensi allenamenti al sole. Nella versione finale corretta a mano con i colori, gli occhi erano di uno straordinario grigio-blu. Gianni aveva mandato una stampa color seppia alla giovane moglie Bianca, che era in attesa del loro primo figlio. Il ritratto colorato era andato invece immediatamente ai suoi genitori, Carlo e Tonia. Era appeso nell’ingresso di Casa Como, costantemente decorato da un festone di edera.

    Mentre aspettava, Gianni aggiustò più in alto sulla spalla destra la cinghia del suo fucile a catenaccio Carcano. Si assicurò che il sottogola del casco coloniale coperto di panno kaki fosse ben agganciato. Non poteva immaginare una scena peggiore del suo copricapo in volo nel porto, con tutte le orgogliose piume, appena messo piede in Africa!

    Gianni vide il Luogotenente Morella, il secondo in comando della sua compagnia, che guardava lo svolgersi delle operazioni da un punto del pontile. Era inclinato in avanti, con un piede sul bordo di pietra del marciapiede, con un mezzo sorriso rilassato in faccia. Questo era rassicurante per gli uomini sulla barca. Nonostante qualche momentaneo intoppo, lo sbarco del reggimento sembrava procedere abbastanza bene.

    C’era anche un certo numero di macchine fotografiche su treppiedi un po’ oltre, mentre finalmente l’unità iniziò ad avanzare, uno per volta, per sollevarsi dalla murata[i] dell’imbarcazione fino alla terra ferma. Giornalisti italiani, francesi, tedeschi, britannici e austro-ungarici si contendevano lo spazio vicino all’acqua, ansiosi di registrare lo sbarco a Tripoli dei primi due reggimenti di fanteria del Regno d’Italia.

    Reportage regolari della guerra Italo-Turca sarebbero comparsi sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo.

    Le truppe erano sbarcate per tutta la mattina. Il 27° Battaglione, a cui apparteneva la compagnia di Gianni, era fra gli ultimi a mettere piede a riva. Il 33° e 15° battaglione che comprendevano il resto del reggimento Bersaglieri erano già schierati in semplici file di quattro, annoiati dalla lunga attesa dei loro commilitoni.

    Lungo la riva a sud-est della banchina, anche il 40° Reggimento, un’unità standard di fanteria dell’esercito, stava scaricando rapidamente. Una piccola flotta di imbarcazioni da pesca siciliane, convertite al servizio militare nel porto di Siracusa e inviate per l’occasione, era occupata a portare casse di cibo e botti di acqua potabile per entrambi i reggimenti. Il 40° avrebbe presto finito, Gianni calcolò dal numero di soldati che si raccoglievano sotto i loro colori reggimentali, un blu vibrante e un rosso brillante. A differenza dei Bersaglieri, il 40° si stava adunando verso il centro città con l’apparente scopo di marciare verso sud. Chissà dove sono le posizioni dei Bersaglieri? si chiese Gianni. Non importa. Il nostro destino sarà presto chiaro.

    Lì vicino sulla banchina, una banda musicale della Marina in uniforme, suonava una musica di ottoni per tirare su il morale, anche se la maggior parte degli uomini, sollevati dal trovarsi di nuovo a terra, era già di buonumore. La lungamente promessa riconquista della Tripolitania, che per cinquecento anni era stata un possedimento dell’antico predecessore del Regno – Roma Imperiale -  era finalmente iniziata.

    La guerra con l’attuale occupante della Tripolitania, la Turchia ottomana, sembrava essere uscita dal nulla. Tutti sapevano che l’impero di sei secoli del sultano era nelle spire di un declino irreversibile. Nello stesso tempo il giovane Regno d’Italia fronteggiava tensioni sociali, malattie e una crescente emigrazione. Quale momento migliore per una crociata per guadagnarsi possedimenti oltremare, un’opportunità per risistemare la popolazione affollata e per il Regno di prendere il giusto posto tra le grandi potenze coloniali del ventesimo secolo!

    Era bastato appena un pretesto per mettere in moto gli eventi, e il 29 Settembre, meno di due settimane prima, l’Italia aveva dichiarato guerra. Il regime aveva velocemente sguinzagliato l’impaziente Marina Reale dai porti del Mediterraneo, e in pochi giorni la flotta era al largo delle coste della Tripolitania. Il 5 ottobre le sue grandi navi avevano iniziato a bombardare il pugno di fortezze costiere in mano ai turchi, che avevano risposto con una simbolica, discontinua protesta con cannoni Krupp obsoleti e a volte mal funzionanti. Mentre lo sbarramento navale distruggeva le fortificazioni sguarnite e in qualche caso vuote, la guarnigione turca di cinquemila soldati requisiva ogni cammello in città, lo caricava con provviste per tre mesi e si ritirava strategicamente a sud nelle colline del deserto, fuori portata.

    Millecinquecento marinai italiani erano sbarcati per assaltare e prendere possesso del territorio. Ma i turchi si erano solamente ritirati, non erano spariti. Sotto la capace guida del Colonnello Nesciat Bey, avevano usato i primi giorni dell’occupazione italiana per riaggregarsi. Con il rinforzo dei combattenti a cavallo reclutati nelle tribù del deserto che odiavano questi infedeli invadenti, gli ufficiali ottomani avevano condotto violente razzie esplorative contro le linee della Marina. Con quest’ultima obbligata a difendere undici chilometri di costa intorno agli accessi alla città, le strade di Tripoli erano rimaste senza sorveglianza. Si ebbero disordini civili a seguito di alcune azioni di saccheggio da parte della gente locale in edifici vuoti e baraccamenti abbandonati ancor prima che la polvere della ritirata ottomana si depositasse.

    Questi sviluppi scioccarono e destabilizzarono i nuovi liberatori di Tripoli, e fu inviato un urgente messaggio alle spedizioni di rinforzo che si stavano radunando in Italia: ‘Accelerate il vostro arrivo o rischiamo di perdere Tripoli!’. Adesso, a distanza di poche settimane, il 11° Bersaglieri e il 40° erano partiti da Napoli e sbarcati in supporto. Con i reggimenti appena arrivati che si preparavano a dare il cambio sul fronte, le unità della Marina erano rientrate in città per assicurare l’ordine civico.

    Le cose sono state senz’altro abbastanza calme qui, osservò Gianni. Infatti un buon numero di gente del posto osservava le operazioni di sbarco con apparente benevolenza, proprio come aveva predetto il governo italiano, fiducioso che la popolazione volesse scrollarsi di dosso l’oppressivo dominio ottomano.

    Gli spettatori che osservavano gli eventi alla banchina, parlavano animatamente fra di loro, e addirittura coinvolgevano qualcuno degli ufficiali e degli interpreti italiani con toni pacifici. Questi che stanno guardando l’arrivo dell’esercito saranno mercanti e qualche funzionario municipale, pensò Gianni, gente già a proprio agio nell’interazione con i mille cittadini italiani che chiamavano casa Tripoli.

    Il sergente Cena, un militare di carriera dalla carnagione scura e il torace largo, uscì minaccioso dal nulla. Mettiti in riga Como! A differenza di ciò che pensi non siamo in un cazzo di gita turistica! E rimettiti in ordine soldato, il tuo zaino è una vergogna! Come gli altri sottufficiali Cena parlava una lingua rudimentale comune che tutti gli uomini, per la maggior parte analfabeti e bofonchianti una serie di dialetti provinciali, potevano generalmente comprendere. L’espressione severa del viso e il tono amplificato, insistente e molto eloquente riempivano gli eventuali altri vuoti di comunicazione.

    Il battaglione doveva disporsi all’estrema sinistra degli altri battaglioni di Bersaglieri, con le spalle al porto. La 4° Compagnia, quella di Gianni, si affrettò a posizionarsi, frustata verbalmente dai propri sergenti e caporalmaggiori. Gianni trovò un posto direttamente davanti all’amico Marzio.

    Marzio, aiutami con il mio zaino disse voltandosi. Marzio si avvicinò e tirò in posizione il materassino sbilenco di Gianni, legandolo strettamente. Eccoti a posto disse.

    Grazie amico replicò Gianni. Risistemò la tracolla del fucile sulla spalla destra.

    Buoni ragazzi, buoni disse il Luogotenente Morella, passando loro davanti. Staremo qui un po’, d’accordo? Quindi sistematevi e aspettate. Senza tutte le chiacchiere. Nonostante l’accento abruzzese di Morella, nelle fila il conversare si spense alla svelta. Una volta che si fu allontanato, ricominciò, anche se con alcuni decibel in meno.

    Quando diavolo mangeremo? sussurrò Emilio, il soldato alla destra di Gianni. Era un piccoletto di Arona, vicino al Lago Maggiore. Ti dico, sto crepando di fame!

    Balle disse Marzio dal retro, canzonandolo. Non è fame ciò che senti, mio piccolo amico. È che oggi hai visto il tuo primo cammello da vicino ed è la paura di essere mangiato vivo che ti fa tremare negli stivali!

    Ma no! si risentì Emilio. Ti tirerò quel collo di gallina per questo, vedrai! Il trio, a cui si unì Patrizio, alla sinistra di Gianni, sghignazzò. Pensavo che i fannulloni del Mezzogiorno fossero neri disse quest’ultimo, inclinando la testa verso un paio di calabresi nelle file alla loro destra. Ora vedo che quei ragazzi sembrano colombe bianche come la neve a paragone di questi Musulmani. Indicò tre uomini in abiti civili sul marciapiede opposto. Due erano vestiti in modo semplice e avevano acconciature a bande di tessuto intrecciate; l’altro portava un completo bianco spiegazzato, con un fez rosso a nappe in testa. Il trio restituì gli sguardi ai soldati con cenni cortesi e sorrisi.

    Abbastanza amichevoli, no? disse Gianni.

    Abbastanza furbi da essere abbastanza amichevoli, vorrai dire. rispose Marzio. Si voltò per un’improvvisa distrazione. Porca merda! Cos’è quel mostro? Il reggimento ebbe un fremito, mentre i soldati allungavano il collo. Un nuovo rumore allarmante risuonò dal cielo mentre il rombo di un’elica rese la conversazione impossibile. Il monoplano a traliccio di legno, il cui pilota era pienamente visibile nell’abitacolo aperto, passò in volo a non più di cinquecento metri sopra le loro teste. Delle ruote enormi, simili a quelle di bicicletta, pendevano da due strutture somiglianti a scatole sotto la fusoliera dell’aereo. Due bianche ali ricoperte di tela, gigantesche per la truppa meravigliata, gettavano grandi ombre sul terreno nel passare.

    Gli uomini che si stavano radunando nelle unità rispettive eruppero in un grido spontaneo e incredulo di ammirazione alla magnifica vista. Si trattava di uno dei nove aeroplani del gruppo di Taubes austriaci e Blériot costruiti dai francesi che comprendeva anche i prototipi del Battaglione Speciale del Reale Esercito dispiegati per il teatro libico. Per la maggior parte degli uomini già aver preso un treno per la prima volta aveva destabilizzato la loro presa sulla realtà conosciuta. Ma quello che stavano vedendo ora – una macchina veloce sospesa a mezz’aria? - era inesplicabile, una sfida alla realtà, anche mentre la guardavano in alto a bocca aperta.

    Molti avevano sentito parlare delle macchine volanti, certo. Ma era di sicuro una favola, come la storia della vipera mangia-uomini, l’antico biscione che si diceva strisciasse nelle fogne di Milano. Ma questo? Come si poteva non credere ai propri occhi? Mentre l’apparizione si avvicinava, i soldati profferivano un Madonna! o si facevano il segno della croce, o afferravano le medaglione benedette sotto le loro casacche; alcuni uomini hanno fatto tutti e tre.

    Il pilota, munito di occhialoni, fece amabili cenni di saluto alla platea rapita. Salendo gradualmente un

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