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Navi di amianto
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E-book308 pagine4 ore

Navi di amianto

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La battaglia persa della Marina Militare Italiana non si è combattuta in mare, ma nelle sale macchine, nei dormitori e nelle sale mensa delle navi, dentro i sommergibili, negli Arsenali di La Spezia, Taranto e Augusta. La battaglia persa, che dura da decenni e non è ancora conclusa, non ha avuto come avversaria una flotta pronta a invadere le nostre coste, ma un nemico invisibile, l'amianto, che ha causato centinaia di morti.
È dal 1992 che il minerale è stato messo al bando da una legge dello Stato, eppure le navi hanno continuato a restare in servizio, a navigare con i loro equipaggi e con il loro carico letale. E ancora oggi, un quarto di secolo dopo, i marinai e gli ufficiali continuano ad ammalarsi, vittime del mesotelioma o di altre forme di tumore causate dall'inalazione delle terribili fibre che si insediano nei polmoni o nella pleura, dove possono restare latenti anche per trent'anni. E le bonifiche a bordo non si sono ancora concluse, nonostante il Ministero della Difesa assicuri che non c'è pericolo, che l'amianto è tutto rimosso o è stato messo in sicurezza dalla metà degli anni Novanta.

Il libro di Lino Lava e Giuseppe Pietrobelli, giornalisti de "Il Gazzettino", il primo cronista giudiziario di lungo corso, il secondo inviato speciale, non è solo la ricostruzione di un'istruttoria che ha messo sotto accusa i vertici della Marina Militare.
È anche il racconto di tante storie di bravi ragazzi che hanno dato i loro anni migliori e la loro vita professionale alla Marina, e che sono stati colpiti da un male che non perdona.
LinguaItaliano
Data di uscita24 gen 2018
ISBN9788899932145
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    Anteprima del libro

    Navi di amianto - L. Lava

    toghe.

    1. QUEI BRAVI RAGAZZI

    Sette ragazzi di belle speranze alzano i bicchieri e una focaccia a forma di colomba, nel giorno della Pasqua. Le salsicce penzolano dalla cassa degli attrezzi, improvvisato tavolino della festa. Alcune pagnotte sono rotolate da un sacchetto di carta e giacciono sul pavimento. Un fiasco di rosso è stato scolato a metà. Tranci di sgombro, olive e formaggio completano il banchetto nel ventre della nave. Ridono di fronte all’obiettivo i marinai, con la spensieratezza dei vent’anni, uno sguardo senza ombre, una vita tutta da vivere spalancata davanti a loro. Non sanno che la linea della storia è già stata contaminata, il tempo della passione non si è ancora compiuto, eppure il calvario appartiene a un momento ineluttabile del loro futuro. Imbarcati per amore del mare o per necessità, adesso navigano nel vento, anche se sono costretti a stare in fondo a un budello d’acciaio. Sono felici. Non sanno che l’amianto è in agguato, il male è già dentro di loro. E nessuno glielo ha detto.

    Flash. Un’altra immagine ingiallita conduce in un lungo corridoio, con i tubi ricoperti di asbesto, lo spumante appena stappato, le gole squarciate dalle risate, le mani che si agitano. Ilarità variopinta di una ventina di militari in tuta da lavoro. Ebbrezza gradevole e cameratesca. Un guardiamarina dalla barba nera, con la giacca blu dai bottoni d’oro, azzanna un piatto di spaghetti. Un altro è sorpreso con la forchetta a mezz’aria, un terzo si ingozza innalzando una lode da buongustaio alla pastasciutta. Scene di vita nel regno del vapore, dove l’aria pura viene portata giù attraverso le condotte, la temperatura è torrida, eppure l’atmosfera ricorda quella di una grande famiglia. Viso da scugnizzo e cappellino bianco, un altro flashback mostra un marinaretto che si fa ritrarre davanti a un pannello di controllo. Poi accarezza con fierezza un motore. Quindi indossa la cuffia radio e riceve gli ordini dal ponte di comando.

    Il tempo è indefinito, non il luogo. Siamo sottocoperta, l’ambiente è buio, l’esibizione di strumentazioni e apparecchiature è classica di un’unità da combattimento. Ma ci sono anche i locali del riposo. Le brandine sono appese a catene agganciate al soffitto, una sopra l’altra. Il materasso è una tela ruvida a righe bianche e blu, una semplice tendina è l’unica garanzia di privacy. Un fascio di tubazioni, a tratti ricoperte da una lanugine bianca, segue la curvatura interna dello scafo e attraversa il locale da una parete all’altra, sfiora le teste dei militari, diventa addirittura un comodo portariviste per chi è sdraiato a dormire.

    L’album dei ricordi fotografici – istantanee d’altri tempi – si è aperto su un passato lontano, diventando prova d’accusa in un fascicolo giudiziario molto più recente. L’amianto, il minerale soffice che rilascia fibre capaci di insinuarsi nei polmoni, spunta dovunque. Avvolge i tubi. Protegge dal calore. È nelle guarnizioni, dentro i macchinari, nelle porte tagliafuoco. Perfino nei forni delle cucine. Promiscuità di lavoro e di vita. Ma per decenni i marinai lo hanno ignorato. Non c’è cupezza nei loro sguardi, anzi un misto di orgoglio e di spavalderia. In fondo sono saliti sulle navi in tempo di pace, hanno trovato un buon lavoro, una comunità grande e ordinata capace di accoglierli, perfino di assecondarne le aspirazioni di carriera. Sono ragazzi integri, sani, i figli più forti dell’Italia del Dopoguerra che ha ricostruito un grande paese.

    Il destino ormai quasi compiuto è, invece, il letto d’ospedale dove giace l’ex sottufficiale Giovanni Baglivo, tecnico di macchina e meccanico di macchina a vapore sulle navi della Marina Militare. È il 5 agosto 2004, da appena una settimana è stato operato per mesotelioma pleurico, un male che non lascia scampo. Il registratore tascabile Olimpus Pearlcorder L200, in dotazione alla Procura della Repubblica di Padova, è acceso sul comodino. Fatica a respirare e a parlare, il militare pugliese di Tricase venuto a curarsi in Veneto, dove gli hanno tolto una parte del polmone destro. Sopravviverà soltanto fino al 4 settembre 2005. «Sembrava un condannato a morte» ricorda, molti anni dopo, Omero Negrisolo, uno degli ufficiali di polizia giudiziaria che ne hanno ascoltato il drammatico racconto. È il primo marinaio ammalatosi per l’amianto a mettere in un verbale, a futura memoria, le condizioni di lavoro nelle navi, il rischio a cui gli inconsapevoli equipaggi erano sottoposti.

    È una fotografia in bianco e nero della faccia nascosta della Marina Militare. Ciò che nessuno si aspettava, scoperta dissacrante del trattamento riservato ai fedeli servitori del tricolore nel regno della fatica e del sudore, senza regole né rispetto per la salute. Trattati come viaggiatori all’inferno senza biglietto di ritorno. Non ci sono sorrisi, brindisi alla vita e alla giovinezza, in questa istantanea senza speranza. C’è solo il rantolo di un uomo malato e stanco. «Io stavo in sala caldaie dove c’è una temperatura ambientale all’incirca di 40-50 gradi e una temperatura della caldaia diciamo di 450 gradi e una pressione di 50... Lascio immaginare che protezione avevano i tubi che conducevano questo tipo di vapore. In locale motrice arrivava lo stesso vapore con la stessa temperatura e con la stessa pressione, altrimenti non si poteva navigare. I primi 7-8 anni le guardie si facevano solo ed esclusivamente nel locale caldaie. Noi dovevamo stare lì sotto estate e inverno».

    Allora l’amianto era vissuto come una risorsa, non come una dannazione. «Siccome c’era parecchio caldo ci dovevamo spogliare, lavoravamo a braccia scoperte e senza nessun tipo di maschera, anzi io ho lavorato pure sulle testate di vapore della nave Impavido, che si trovano sotto la scaletta in motrice di prora...». L’immagine sembra provenire da un altro mondo, neppure troppo lontano visto che quel cacciatorpediniere è stato radiato nel 1991. «Un giorno era saltata una ‘dialico’, la guarnizione di vapore, e ha cominciato a fuoriuscire del vapore, che ha saturato quasi tutta la nave di caldo. Si doveva per forza intervenire. E io ho tolto via esattamente mezzo quintale di amianto per poter sostituire la ‘dialico’... stavo con una mazzetta da 12 chili, da 15 chili, una chiave da 48. Stavo a slip... a scarponcini, a slip, a lavorare così, senza nessun tipo di protezione».

    Evento imprevedibile, si potrebbe pensare. Invece, anche la routine era pericolo diffuso. «Le tubazioni erano chilometri, arrivavano in tutta la nave, pure dove si dormiva, con queste coperture di amianto o di quelle cose lì... pure nei camerini, nei bagni, dappertutto c’era questa cosa. Amianto, un nemico invisibile. E neppure annunciato. Non ci hanno mai allertato in tal senso. Mai. Io non ho mai saputo. Adesso lo sto sapendo, perché sto passando le conseguenze... Ci hanno mandati allo sbaraglio».

    Così sono stati ridotti quei bravi ragazzi, incapaci di difendersi da un’entità ostile di cui neppure conoscevano l’esistenza. Ma il tempo trascorso non induca alla sottovalutazione o al rilassamento delle coscienze di fronte a una malattia indotta da cause tecnico-ambientali, che qualcuno vorrebbe incolpevole figlia dei suoi tempi. I magistrati padovani non lo hanno fatto. Il pubblico ministero militare Sergio Dini ha aperto la prima inchiesta per la morte da mesotelioma pleurico sinistro di tipo epiteliale, avvenuta il 3 febbraio 2002, del puntatore cannoniere Giuseppe Calabrò. Il sostituto Emma Ferrero ne ha avviata una seconda, in Procura ordinaria, anche per il decesso di Baglivo del 2005. Da quelle istruttorie è nato il processo Marina Uno, primo tentativo di squarciare il velo sugli omicidi colposi che per decenni si sono consumati sulle navi della Marina italiana a causa dell’amianto e della mancata osservanza delle regole di tutela da parte degli ammiragli, alias datori di lavoro dei marinai. Il processo in Tribunale si è concluso con l’assoluzione, l’appello con la prescrizione dei reati. Ma il ping-pong della Cassazione ha rimandato tutto indietro, con una nuova assoluzione. Giustizia per il codice, giustizia negata per chi sta morendo.

    Giovanni Baglivo è una larva umana, nell’agosto 2005, un mese prima della fine. La lettura dei referti dovrebbe, una volta per tutte, scacciare la tentazione di rimuovere – con il fastidio che il trascorrere del tempo può indurre – un evento che si è ripetuto centinaia di volte. La Tac al torace e all’addome con mezzo di contrasto evidenzia «ispessimento della pleura di dx in esiti di pneumectomia... ispessito pericardio con presenza di nodulazioni, numerose formazioni cistiche al fegato. Linfonodi colliquiati mediastinici bilaterali. Aree di lisi ossea di tipo sostitutivo interessano le vertebre dorsali, lombari, a livelli dell’ala iliaca e dell’ileo di sinistra... esito frattura del collo del femore...».

    Una metastasi devastante, annotano i giudici d’appello: «Il tumore proseguiva infiltrando il pericardio e gli organi attigui. Specialmente in sede autoptica si riscontrava che, dopo l’asportazione del polmone di destra, sulla pleura di sinistra compariva una neoformazione lardacea che si espandeva infiltrando diffusamente la parete toracica, il polmone di sinistra, il pericardio, il diaframma... Chiare indicazioni di metastasi al fegato e nelle ossa che nella fase finale della malattia costringono il paziente allettato a sopportare il dolore». D’altra parte l’analisi del tessuto polmonare, con microscopio elettronico a scansione, aveva accertato 5 milioni 400mila fibre «con lunghezza geometrica media di 3,4 micron e diametro geometrico medio di 0,17 micron, 100% anfibolo».

    «Se un giorno ti diran che questo cuore riposa addormentato in fondo al mare, non piangere per il perduto amore: vissuto assai chi per la patria muore!». Chissà se Baglivo ha mai letto il saluto del marinaio, elogio anonimo al sacrificio. Il suo cuore però non è finito negli abissi dopo una battaglia, è stato sepolto dentro una bara al termine di una guerra persa. Quanti marinai uccisi dall’amianto si devono contare nella storia recente della Marina Militare italiana? Quanti ne ha contati l’inchiesta? Quanti ne dovrà contenere questo libro? La morte non conosce numeri. Ma chi ha vissuto nelle navi e nei sommergibili piange centinaia di compagni. Difficile dire quanti siano per davvero.

    «All’inizio, il decesso di Calabrò era l’unico a mia conoscenza. Ma poi mi resi conto che stavo toccando soltanto la punta di un iceberg, nel senso che trovai non due morti a Padova, ma qualcosa come più di 500 malattie e decessi asbesto correlati. E questo – siamo nel 2006 – soltanto toccando facilissimi canali pubblici di informazione». Così ha testimoniato l’investigatore ambientale Omero Negrisolo al processo Marina Uno. È stato lui a redigere la contabilità della morte, un elenco interminabile, ma purtroppo ancora incompiuto, di militari, anche di leva. Gli ammalati e i defunti identificati con patologie correlate ad esposizione a fibre di amianto sono stati in totale 563. E circa il 77% risultavano deceduti, una percentuale che saliva al 92-93% per il mesotelioma.

    È un dato agghiacciante, ricostruito in Procura attraverso l’analisi dei registri dei mesoteliomi, ma soltanto nelle regioni italiane che li avevano aggiornati. L’analisi di quei numeri ha indotto il professor Morando Soffritti, direttore scientifico dell’Istituto di oncologia e scienze ambientali Ramazzini di Bologna, a stimare in 10 su 100mila unità il tasso di incidenza annuale del mesotelioma nella Marina Militare. Quello medio della popolazione italiana è di 1,2 su 100mila unità, quasi nove volte di meno.

    L’amianto è stato messo al bando in Italia nel 1992, ma i suoi effetti letali sull’organismo umano continuano. Di circa 600 decessi di appartenenti alla Marina ha parlato nel 2012 il sostituto procuratore Dini alla commissione parlamentare d’inchiesta sull’uso di uranio impoverito. «Si tratta di un dato inequivoco. Non è invece possibile, ad oggi, determinare con certezza il numero di coloro che hanno contratto la patologia, considerato pure che il mesotelioma ha un periodo di latenza estremamente prolungato e che porta sicuramente al decesso». Così ha denunciato il magistrato. Gli esperti prevedono che il picco dei casi non si sia ancora registrato e che sia previsto per il 2020. L’interminabile elenco che costituisce il capo d’imputazione del processo Marina Tre – dove al sostituto Dini si è affiancato il sostituto procuratore Francesco Tonon – fisserà, cinque anni dopo l’audizione parlamentare, la contabilità dei decessi verso quota 600.

    Una storia che appartiene al passato? Nient’affatto. Non si è ancora conclusa la battaglia persa che la Marina Militare non ha combattuto in mare, ma nelle sale macchine, nei dormitori e nelle sale mensa delle navi, dentro i sommergibili, negli Arsenali di La Spezia, Taranto e Augusta. Dicono che l’amianto sulle navi non c’è più. Non è vero. Che comunque è stato confinato. Neppure questo è vero. Che il rischio per la salute degli equipaggi è nullo, essendo cessato al 31 dicembre 1995, come sostiene la Marina. Come vedremo, neppure questo corrisponde alla verità, perché le navi con l’amianto hanno continuato a restare in servizio e a navigare con gli uomini a bordo.

    Lo scandalo non sono soltanto gli ammiragli messi sotto inchiesta per omicidio colposo e processati a Padova. Lo scandalo è anche nei silenzi e nelle bugie, nei formalismi e nella burocrazia, nella cecità e nelle responsabilità negate. Perché la Marina fin dalla fine degli anni Sessanta sapeva che l’amianto era causa di tumori, ma sottovalutò il pericolo. Cominciò a muoversi con esasperante lentezza dopo il 1992. Soltanto l’inchiesta giudiziaria, dal 2003 in poi, ha dato una scossa, inducendo il Ministero della Difesa a cominciare in modo sistematico le bonifiche. Non a caso, buona parte dei soldi spesi dai ministeri per gli interventi – 35 milioni di euro – riguarda il periodo che va fino al 2015, a cui devono aggiungersi altri 10 milioni dell’ultimo accordo quadro per le bonifiche siglato nel dicembre 2015, che andrà a conclusione nel dicembre 2019. Altri interventi erano stati fatti nella seconda metà degli anni Novanta, ma a carico dei bilanci dei singoli Arsenali della Marina. Insomma, hanno cominciato a fare sul serio solo quarant’anni dopo la scoperta che l’amianto era causa di tumori e più di vent’anni dopo il primo allarme lanciato dal Ministero della Sanità nel 1986.

    I ministri della Difesa non hanno mai illustrato la natura di quelle spese al Parlamento italiano, tenendo segreti i nomi delle unità navali su cui sono stati effettuati gli interventi, per la maggioranza parziali e non risolutivi, la loro successione cronologica, i luoghi dove l’amianto non è ancora stato rimosso. C’è voluta la testimonianza di un ammiraglio, al processo Marina Due, nel febbraio 2017 a Padova, per avere la conferma ufficiale che le bonifiche furono pianificate solo dopo la prima, sistematica mappatura dell’amianto compiuta dal Rina a partire dal 2007-2008. A oltre 15 anni dalla messa al bando dell’amianto. Queste pagine entreranno anche nelle pieghe di tali misteri e reticenze – se non addirittura pubbliche bugie – cercando di svelarli.

    Le unità della Marina su cui sono stati imbarcati i marinai poi ammalatisi, compongono una black-list di quasi trecento navi (e sommergibili) stilata dalla Procura della Repubblica di Padova. Ma nell’elenco elaborato dal Registro Navale Italiano e ultimato solo nel 2010 risultano 149 unità in servizio, su un totale di 165, dove l’amianto era ancora presente, con l’equipaggio in piena attività. La mappatura Rina è diventata solo allora la base per pianificare le bonifiche, alla faccia di chi ha spergiurato che fossero già completate da anni. Ed è anche la confutazione del dicembre 1995 quale limite temporale oltre il quale non c’era più stata contaminazione. Impossibile che non vi fosse più amianto sulle navi, se la mappatura – premessa per le bonifiche – fu effettuata dodici anni più tardi.

    Oltre i processi, oltre le inchieste, c’è un altro grande scandalo, conseguenza di questo tragico gioco di illusionismo. È quello dei risarcimenti negati, di un riconoscimento ai marinai ammalati quali vittime del dovere che compensa solo in minima parte i danni. Inoltre, l’Inail nega che i marinai che non lavoravano come macchinisti o elettricisti sulle navi possano considerarsi vittime dell’amianto, anche se respiravano l’aria infetta, mangiavano e dormivano nei locali attraversati dai tubi rivestiti di asbesto. La burocrazia, senza retorica, può davvero uccidere due volte. Perché il malato che stava sopra coperta risulta diverso da quello che stava sotto coperta. E perché, più la linea del tempo si allontana dall’epoca dell’amianto conclamato sulle navi, più lo Stato rifiuta di riconoscere i risarcimenti. Come se i malati di asbestosi di dieci o vent’anni fa fossero diversi da coloro che scoprono di esserlo oggi, quando la causa scatenante è la stessa e il loro numero continua a crescere.

    E pensare che la Marina si è appuntata al petto medaglie di merito per tutele legislative formalmente assicurate ai marinai o ai loro eredi. In realtà, solo una parte ha avuto pensioni dignitose o risarcimenti adeguati. Troppi sono ancora in attesa che lo Stato paghi le sue colpe. E si ricordi di loro, bravi ragazzi innamorati del mare e delle navi, tra cui molti uomini del Sud saliti a bordo per tradizione o per trovare un lavoro. Militari comunque fedeli e generosi che hanno scoperto, spesso dopo essersi congedati, di avere dentro di loro un male spietato, ma nient’affatto oscuro.

    2. MALATI IN DIVISA

    "Ma dove vanno i marinai con le loro giubbe bianche sempre in cerca di una rissa o di un bazar, ma dove vanno i marinai con le loro facce stanche sempre in cerca di una bimba da baciar..."

    Era il settembre 1979 e la ballata di Lucio Dalla e Francesco De Gregori attraversava come lo scirocco i mari e i porti della penisola. Ma Antonio, vent’anni, di La Spezia, non si era lasciato sedurre dalle giubbe bianche dei due cantautori. Si era imbarcato perché era stato chiamato come marinaio di leva. Diciotto mesi in nave come furiere. Insomma, non gli era andata male. Ma oggi non ne vuole parlare. Non vuole neanche essere menzionato con il suo nome e cognome. Non vuole che i figli sappiano che è malato.

    Era il 2009 quando Antonio ha accusato i primi sintomi. Poi i risultati della Tac hanno rivelato che per trent’anni ha covato l’asbestosi polmonare. «Nella nave l’amianto era dappertutto. Dove si mangiava, dove si dormiva. Ma nessuno immaginava la sua pericolosità. Poi, quando ho fatto la Tac, i medici mi hanno detto che la mia malattia è stata causata dalle fibre di amianto», racconta a fatica. Ora vuole lottare, per vivere a lungo ed essere risarcito dallo Stato.

    Tutti vogliono lottare, vivere a lungo ed essere risarciti. Sono le parti lese dell’inchiesta condotta a Padova e sfociata nei processi agli ammiragli, i vertici della Marina Militare Italiana. Lo vuole anche Rolando Marconi, ultrasettantenne maresciallo capo elettricista. Originario di Piacenza, abita a La Spezia. Quando gli chiediamo come si sente, l’ex marinaio ha la voce molto stanca. È malato di asbestosi polmonare, ma dice che sta bene. Ha appena fatto una Tac e il male è ancora fermo. Rolando ha la voce roca anche perché sta tornando da un funerale. Ha dato l’ultimo saluto a un collega e amico coetaneo. «Fino a quindici giorni fa stava bene. Poi, all’improvviso, non riusciva più a respirare», dice il maresciallo. «La malattia ce l’hai dentro, ma non la senti. E se si fa sentire è finita».

    Il maresciallo capo si è arruolato il primo agosto 1960. «Mi piaceva il mare e volevo fare l’elettricista in una nave», racconta. «La prima volta mi sono imbarcato sulla Centauro e poi non sono mai sceso a terra fino al febbraio 1991, quando mi sono congedato: 365 giorni all’anno di lavoro su una fregata. Tutto era coperto di amianto, toglievamo la protezione dai cavi per ripararli e poi li ricoprivamo con l’amianto che avevamo a bordo», racconta Rolando. «C’era polvere dappertutto, ma nessuno ci badava. Nessuno ci ha mai detto di fare attenzione e di proteggerci».

    «Non ho mai saputo e non sono mai stato messo al corrente di essere esposto all’amianto e dei rischi che da tale esposizione ne sarebbero derivati», racconta anche il maresciallo capo elettricista Salvatore Angrisani, quasi ottantenne, originario di Bracigliano, in provincia di Salerno, e residente a Lerici. A quell’epoca l’amianto veniva trattato con le mani. «Un elettricista lavora giorno e notte per i controlli e le manutenzioni. E io dormivo anche abbracciato ai tubi del vapore coperti di amianto nella stiva». Per quale motivo? «Soffrivo di mal di mare». Un marinaio che soffre di mal di mare? «Mi sono arruolato nel 1955 e all’epoca c’era la povertà. Noi meridionali servivamo per riempire le caserme».

    Bravi ragazzi senza alternative. Dopo la scuola è stato imbarcato in un dragamine e poi in un sommergibile. Salvatore si è congedato nel luglio 1994. Ma i problemi sono arrivati nel 2010. «Avevo una cattiva respirazione e i medici, quando hanno saputo che ero stato in Marina, mi hanno fatto la Tac e mi hanno diagnosticato un’asbestosi pleurica». Gli elettricisti di bordo sono marinai altamente specializzati e devono intervenire su una miriade di apparecchiature elettriche ed elettroniche. Dalle più semplici resistenze delle piastre delle cucine ai più sofisticati e complessi turbo generatori di corrente, le centrali di bordo che erogano alta tensione. L’elettricista gestisce tutta la nave. Una nave in mare senza energia elettrica è morta.

    Al maresciallo Armando Carnelevare, di La Spezia, hanno diagnosticato ispessimenti e calcificazioni pleuriche. Ha indossato la giubba bianca nel 1965 per tradizione familiare, visto che suo nonno era ufficiale di Marina. Si è congedato il primo gennaio 1988. Aveva il grado di maresciallo meccanico navale di prima classe, conduttore di macchine termiche. «Ho lavorato in ambienti con temperature di 50 gradi. Se uno aveva una catena d’oro al collo e si avvicinava alle tubazioni, quando si alzava la catenina gli bruciava la pelle». I ricordi di una vita riaffiorano. «Per lavorare sui tubi dovevamo spaccare l’amianto con il martello e lo scalpello, senza mascherine. Finito il lavoro ricoprivamo il tubo con l’amianto che avevamo a bordo. Lo passavamo intorno al tubo e rimaneva provvisorio fino a quando la nave andava in cantiere. I lavori erano quasi quotidiani, sia in navigazione che in porto. I tubi coperti di amianto non erano solo nelle macchine, ma in tutta la nave».

    Una riparazione provvisoria, allora. Una diagnosi definitiva, oggi. Anche Carnelevare denuncia che nessuno lo ha informato sulla pericolosità dell’amianto. «Non ci è mai stato detto come dovevamo lavorarlo. Non ci è mai stata data alcuna disposizione». Anche lui ha scoperto la malattia quando era ormai in pensione. «Quando è scoppiato lo scandalo, all’inizio del Duemila, sono andato a fare le radiografie perché la respirazione non era più quella di una volta e mi hanno fatto la diagnosi. Mi hanno dato 20 punti di malattia, in quanto vittima del dovere. Ma dovevo averne almeno 21 per la pensione privilegiata».

    Storie così simili, così drammaticamente diverse. Antonio Cocozza, ultrasettantenne di Santo Stefano di Magra di La Spezia, si e congedato il 30 dicembre 1994 con il grado di maresciallo meccanico di prima classe e conduttore di macchine tecniche. È malato di asbestosi polmonare. «Vivevo a Napoli e sono entrato in Marina nel settembre 1958 come allievo meccanico. Dopo due anni di scuola alla Maddalena mi sono imbarcato sul dragamine Garibaldi. All’inizio lavoravamo sulle caldaie e poi sulle macchine e tutto era coibentato con l’amianto».

    Si ripete il ricordo dell’amianto spaccato con il martello e lo scalpello per aggiustare le condutture. «Poi ricoprivamo i tubi con l’amianto che avevamo a bordo. Questo avveniva quando un tubo perdeva vapore. Vale a dire, quasi tutti i giorni. Ma nessuno mi aveva mai parlato della pericolosità dell’amianto. L’ho saputo soltanto quando ero in pensione». A differenza di altri, Cocozza si è ammalato durante il servizio. «Quando ero sotto la naia sono stato male e sono stato ricoverato in un reparto per malattie polmonari, ma poi sono ritornato a bordo. Nel 1995 avevo la tosse e difficoltà di respirazione e mi hanno fatto la Tac».

    Sognava la vita di mare. Per questo il luogotenente nocchiere Tommaso Corona, originario di Napoli e residente a Santo Stefano di Magra di La Spezia, è entrato in Marina nel novembre 1967. «Volevo lavorare nella marina mercantile, ma la mia fidanzata non ha voluto e allora scelsi la divisa militare». Per anni è stato imbarcato nei vecchi rimorchiatori americani. Unità navali con equipaggi di sei o sette persone che facevano di tutto, anche i meccanici. «I rimorchiatori americani avevano amianto dappertutto. A prua avevamo immagazzinato i pezzi di

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