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Il Faro di Alessandria
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E-book203 pagine2 ore

Il Faro di Alessandria

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Info su questo ebook

Impero romano, IV secolo dopo Cristo. Il ricco Giulio Flavio Agricola vive una vita agiata nella villa paterna, tra banchetti, cultura, letture poetiche e filosofiche e dibattiti eruditi. Ma la Roma nella quale Giulio vive è la nuova Roma cristiana, una città in forte metamorfosi sociale e politica, e per lui, educato e affezionato alla vecchia e tradizionale cultura "pagana" e a un mondo che pian piano si sgretola, il cambiamento non è positivo.

Da Oriente, inoltre, giunge improvvisamente la notizia della sconfitta dell'esercito romano nella piana di Adrianopoli e della possibile avanzata dei goti, popolo che potrebbe distruggere le città orientali dell'impero, e con esse la cultura lì conservata e salvaguardata.

Inizia così il viaggio disperato di questo intrepido ragazzo, innamorato di un mondo che sta scomparendo nel vento veloce della grande storia, un viaggio il cui obiettivo è il furto dei più preziosi papiri e pergamene dalle biblioteche dell'oriente romano per preservare quest'ultimi dalla distruzione finale. Con lui, un anziano e cieco filosofo incontrato ad Atene e il bel Gaio, servetto e fedele amante.
LinguaItaliano
Data di uscita4 lug 2019
ISBN9788831626439
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    Anteprima del libro

    Il Faro di Alessandria - Giorgio Mazzotti

    nulla

    PROLOGO

    «Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse

    lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco generose travolse alme d’eroi,

    e di cani e d’augelli orrido pasto

    lor salme abbandonò (così di Giove l’alto consiglio s’adempìa), da quando primamente disgiunse aspra contesa

    il re de’ Prodi Atride e il divo Achi…»

    Una vergata miserrima si fece strada sotto la mia costola sinistra.

    «Ahia!»

    «Ma così me lo traduci, razza di scimunito? Flavio, è Omero per Artemide!»

    «E io sono il tuo padrone e…»

    «Tuo padre è il mio padrone! Tu sei solo un somaro che non sa tradurre!»

    Mi dispensò un’altra percossa.

    «Per Marte, Pirgopolinice, sono il figlio del tuo signore e fustigarmi, lurido schiavo, non puoi!»

    «Posso, io sono il tuo aio, per Atena Glaucopide, e ti bastono quanto mi pare e piace. Sei un asinaccio Flavio! Già da un anno hai la toga virile e ancora mi traduci Omero come fossi bulgaro!»

    «Ma che dici, che dici mai vecchiardo? Dimmi un po’ che cosa ho sbagliato, sentiamo…»

    «Tu interpreti, non traduci. Parafrasare non significa personalizzare il testo, per Apollo. Come pensi di imparare se ti ostini cocciutamente a procedere con la tua testa? Per Zeus, l’allievo impara solo se segue alla lettera i precetti del proprio aio e non se divaga, giovinastro! Ai miei tempi non era certo così, oh se non era così! Ai miei tempi tutta l’Iliade, l’Ilioupersis, l’Odissea e l’Eneide a memoria, altrimenti, cinquanta scudisciate per chiappa a testa, cinquanta!»

    «Ah beh, bel modo di insegnare!»

    «Come ti permetti? Io ho studiato ad Atene al Liceo e all’Accademia, il mio precettore era greco, greco di Grecia, intelligentissimo, fu allievo di Plotino e di uno stoico di cui ora non rimembro il nome, che a sua volta fu allievo del Divo Marco, Aurelio Imperatore! Progenie di geni, mica come la tua!»

    «Ma che farnetichi, che farnetichi mai, per Marte Ultore! Ma se non concordano gli anni? Quanti lustri avevano sulle spalle questi precettori, trenta a testa? E poi, Marco Aurelio non fondò mai alcuna scuola, tanto per la cronaca!»

    «Ma che cosa ne sai te, ma che cosa ne sai te, giovinastro d’un giovinastro? Io sono un erudito coltissimo, io ho studiato i testi e so come si debbono leggere!»

    «Tu i testi li avrai anche studiati, schiavo, ma non sai proprio come si insegna!»

    «Cosa? Insegnare è dispensare scudisciate ai giovinastri che non sanno apprendere, ecco che cos’è!»

    «Basta, non t’azzardare a dire più una parola! Tu non sei un aio, sei una cloaca illetterata, sei più ignorante di un goto e peggiore d’una serpe! Almeno, i primi sono analfabeti e certo non si spacciano, come te, per valenti precettori, mentre le seconde son belve selvatiche e non ragionano perché non hanno animus, povere loro. Tu invece…»

    «Cosa, anima? Cominci a blaterare come quegli stramaledetti sovversivi dei cristiani? Se ti sentisse tuo padre, oh Apollo Iperboreo!»

    «Ma cosa blateri? Ma lo vedi che non sai niente? Ho detto animus, nell’accezione di Lucrezio, e non anima! Ma non sai niente, ma basta, andrò da mio padre perché ti rimuova, subito, e così sì che vedrai le scudisciate!»

    «Non t’azzardare figlio d’un cane!»

    Ma m’azzardai, andai davvero, eccome se andai.

    I

    Questo, uno spaccato della mia quotidianità. Desolante, non è vero? Oh sì, ma io ormai ci ho fatto l’abitudine. Condivido ogni giorno con un precettore ignorante, borioso e pieno di sé, i miei affannosi studi. Che tristezza pensare che da costui dipende la mia preparazione culturale. Il fatto è che io amo studiare, veramente, anzi per me apprendere è un vero piacere, una gioia. Ma quella serpe di un aio, con il suo modo di fare pedante e tirannico, mi fa odiare ogni materia. È insopportabile, un vero parassita. Mangia alla mensa della mia gens da sei anni ormai, cioè da quando il mio precedente maestro, anch’egli greco, venne a mancare. Oh, quanto piansi quel giorno, l’amavo così tanto. Mi raccolse che avevo solo cinque anni quell’amore d’un grammaticus e m’insegnò, con smodata dolcezza e carezzevoli parole di miele, le lettere dell’alfabeto e quelle dei numeri, le misure e i pesi, le provincie dell’Impero e i nomi delle città, quelli dei fiumi e dei monti e quelli degli imperatori. Da Augusto a Graziano e Valente li cantavo e li canto ancora oggi che è un godere, e quando la mia lingua s’ingarbugliava o mi si incrociavano gli occhi perché non riuscivo a visualizzare bene il busto del corretto Dominus et Deus, il mio maestro, ridacchiando, mi carezzava il capino rasato e mi sussurrava:

    «Ricomincia da capo, così ripassi anche gli altri.»

    Ed era così dolce, suadente la sua voce, calda, come caldo è il torpore del lieto sonno in una notte di pioggia, caldo come caldo è il ritorno nel luogo dal quale s’è vista per la prima volta la luce. Il mio maestro aveva un qualcosa di divino, per anni pensai fosse Apollo e Minerva incarnati. Ma ahimè, egli era solo un uomo e come tale, raggiunta la veneranda età di sessantasette primavere, spirò nel compianto generale del mio palazzo. Fui sinceramente distrutto quando morì. Venne cremato secondo il costume dei padri e nonostante fosse uno schiavo greco. Questo perché chiesi espressamente a mio padre di riservare per il mio maestro un simile trattamento ed egli, controvoglia, decise alfine di concedermelo.

    Ancora oggi ogni volta che scorgo, aprendo gli occhi, l’urna cinerea dirimpetta al mio giaciglio, non posso che salutare la memoria del mio precettore con commozione e, sacrificato un poco di incenso sul piccolo altare del mio larario, recitare tutti e sessantanove i nomi degli imperatori del passato, compresi i dannati, compresi gli usurpatori. Questo in memoria del mio maestro e in virtù di ciò che egli, per molti e molti lustri, si consumò nel tentativo di insegnarmi. Perché, come mi diceva sempre la mia luminosa guida, ogni testimonianza del passato, ogni particella, ogni frammento, si ha il dovere di conservarlo e di proteggerlo sempre, a futura possibilità per i posteri di conoscere quello che è stato. Mai cancellare, soleva dire il mio filosofo, il passato, mai sopprimerlo, perché sarebbe crimine abominevole contro la maestà della Verità. Per te, dunque, mio amato Antipatrone:

    Augusto, Tiberio, Gaio Cesare, Claudio, Nerone, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano, Tito, Domiziano, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino, Marco Aurelio, Lucio Vero, Commodo, Pertinace, Didio Giuliano, Settimio Severo, Caracalla, Geta, Macrino, Diadumeniano, Marco Aurelio Antonino, Severo Alessandro, Massimino, Gordiano Primo e Secondo, Pupieno, Balbino, Gordiano Terzo, Filippo Primo e Secondo, Decio, Erennio Etrusco, Treboniano Gallo, Ostiliano, Volusiano, Emiliano, Valeriano, Gallieno, Cornelio Valeriano, Cornelio Salonino, Marco Aurelio Claudio, Quintillo, Aureliano, Tacito, Floriano, Probo, Caro, Carino, Numeriano, Diocleziano, Massimiano, Costanzo Cloro, Galerio, Flavio Severo, Licinio, Massimino Daia, Massenzio, Costantino, Costantino Secondo, Costanzo, Costante, Giuliano, Gioviano, Valentiniano e infine, Graziano e Valente.

    Ahimè, sciagura alla mia gens che s’è accollata il mantenimento di quel mangiapane a tradimento, mi dicevo. Quanto odio quel vanesio di un Pirgopolinice maledetto! Conobbi le vergate di quell’abominio prima del suo saluto, per Giove! Al confronto di quella zecca il mio maestro Antipatrone era una divinità discesa dalle candide rocce dell’Olimpo! Oh, odio tutto di quel dannato vanesio, odio la sua altezza miserrima, il suo fiato agliato, le sue mani grassocce e sudaticce, il suo capo rasato e lipidico, il fetore che la sua carcassa emana nei giorni di canicola di questa estate romana, gli occhi cisposi, piccoli e perfidi, il modo volgare di sermonare, sì! Lo detesto, lo detesto per tutti gli Dei e le Dee! E poi, ma che mi dice? Che vuol dire che insegnare rima con bastonare? Da dove mai l’aveva pescata una simile baggianata? Se mai mio padre ne fosse venuto a conoscenza, oh! Ma quel giorno avrei fatto giustizia, avrei confessato tutto a mio padre, eccome se l’avrei fatto! Quel giorno avrei detto tutto,avevo trovato il coraggio e avrei parlato e Mercurio mi avrebbe assistito! Sì, mio padre non potrà non darmi concilio, non potrà non prestare fede alle mie parole, mi dicevo, dopotutto suo figlio primogenito e l’unico maschio rimastogli io sono. Eh già, povero Tiberio Claudio, fratello mio. Venere e Bacco non perdonano, e nemmeno i lupanari dell’Urbe. Il tuo giovane e longilineo corpo apollineo, quella mattina di metà aprile, gli schiavi del nostro palazzo lo trasportarono in gran segreto fuori dalle mura di quell’eremo di piaceri, all’approcciarsi dell’ora prima, dopo tutte le vigilie di sospiri e gemiti che passasti quella notte di fuoco, per impedire che occhi indiscreti e bocche cicalanti potessero scorgerlo e malpensare. Che scandalo sarebbe stato infatti apprendere che il secondogenito del grande Lucio Flavio Agricola, patrizio irreprensibile, servo indefesso degli stellari domini del popolo romano e degli Augusti dominatori che ne reggono la compagine occidentale e orientale, è morto stroncato da una notte di lubrici piaceri venerei in compagnia di femminei uomini e virili donne. No, troppo per il tuo orgoglioso cuore oltranzista, troppo per i tuoi tronfi costumi secolari, per i Lari e per il futuro del tuo buon nome, padre. Troppo. Molto meglio dire ai canuti vecchi togati che affollano ancora oggi l’eburneo lastricato di un Foro romano svuotato di ogni antico significato e prestigio che Tiberio Claudio Agricola è morto cadendo da cavallo, su campi di sangue, in selve straniere, contro clave barbariche, attorniato da rauchi urli di algidi goti terrificanti, sopraffatto da impervie falangi di infernali parti mesopotamici. Morto per la patria, per gli Augusti e con onore, sì perché il valoroso destriero instancabile che tu gli donasti non lo poteva certo vilmente disarcionare dal dorso o schiacciarlo con la furia di impazziti zoccoli, no, e come avrebbe potuto? Sono stati i nemici della Pace romana e dei suoi naturali e sacri confini a trapassarlo e ferirlo mortalmente. Loro sono stati e solo a quel punto il gagliardo tuo seme, padre, si è piegato con gemito su desertica e straniera terra illacrimata. È morto con valore Tiberio, per la patria e le auguste insegne. E ai tuoi colleghi del Foro hai spiegato, grazie senza dubbio alla tua maestrale bravura persuasiva, che le lacrime che versasti quando apprendesti la notizia non furono di rammarico, bensì di felicità. Perché fiero fosti del tuo Tiberio, padre. E scommetto che i tuoi amici, seppur perplessi, ti hanno creduto davvero, e orgogliosamente invasati hanno ricordato il tuo secondo seme nelle preghiere del vespro, mente baciavano oranti i volti degli antichi Lari, e ringraziavano le armi di Augusto pacificatore e quelle di Costantino vendicatore. Che ipocriti padre mio, che grande ipocrita, padre mio. Ma questa è una delle possibili conseguenze sciagurate di una bugiarda eloquenza manipolatrice della Verità. E tu lo sai bene.

    In fin dei conti, che cosa aspettarsi da un padre come te, padre? Tu che trascuri la tua prole, prima e dopo il lutto che ha segnato tutti noi, che maltratti la sposa, che dilani le carni degli schiavi, che profani quelle delle schiave, che con furore pieghi la natura al tuo volere, ma che hai la toga, la toga, ovviamente sempre monda? Sì, la toga che custodisce la tua reputazione, la tua reputazione esterna che è sempre incrollabile, che è un tripudio di gloria; quella toga, quella toga è sempre pulita. Le mani lorde le hanno gli altri, mai tu, padre, e come potrebbe essere il contrario? È verità solo quello che tu dici essere verità perché la tua parola è legge, perché la realtà esterna è tuo capriccio, perché il tuo potere è incommensurabile. E questo non certo per timore degli Dei o di qualsivoglia altra cosa, no, certo che no; per il timore degli antenati, per il timore che la tua reputazione esterna possa essere sporcata, per l’irreprensibilità che un buon patrizio urbano, e quindi la sua gens, deve sfoggiare, per questo tu hai perso un figlio in guerra invece che in un lupanare, per questo vuoi maritare tua figlia al rampollo di una buona dinastia, che di Camilla potrebbe esser nonno, invece che dare audienza ai suoi voleri, per questo hai generato progenie con una donna che tuo padre ti ha imposto tempo addietro per moglie e con la quale non hai scambiato più di un saluto, invece che esserti ribellato a tuo tempo, per questo punisci gli schiavi per un nonnulla invece di realizzare che, a dare le natiche al flagello, mutate le volubili cose della vita, un giorno, tu potresti essere, padre.

    Che cosa aspettarsi da te, dunque? Da te che ti sta così a cuore la mia educazione da non aver scambiato con i miei precettori più di uno sguardo? Antipatrone bellissimo, visti i preamboli, non può che essere stato un miracolo del caso, dunque. O forse, beh, un regalo di mamma, lo sospetto da tempo, sai? Comunque sia, Pirgopolinice vanesio non mi sorprende che sia il mio attuale educatore, e che educatore per Minerva! Se fosse dipeso da lui insegnarmi l’arte alfabetica, avrei fatto prima a leggere le scurrilità scarabocchiate sui muri delle insulae, o udire le volgarità eruttate dalle folle dell’Anfiteatro Flavio per imparare l’arte dell’eloquenza. Perché certo quegli osceni modi di esprimersi hanno più eleganza dei suoi.

    E invece no, per volere della Fortuna, bendata Dea, Pirgopolinice è arrivato quando le arti basilari del bravo erudito le masticavo da un bel pezzo, grazie ovviamente agli insegnamenti proficui di Antipatrone. E dunque, per merito di Pirgopolinice, che cosa dovrei imparare di nuovo? O beh, stando a quanto dichiarato da te, padre mio, e da quanto vai ribadendo ogni vespro nel triclinio quando il nostro palazzo è raccolto per desinare, Pirgopolinice dovrebbe completare la mia formazione in modo tale da forgiarmi per la corte imperiale di Augusta Treverorum o per quella di Costantinopoli.Ma in pratica le cose sono ben diverse. Con quel parassita di Pirgopolinice non sto apprendendo un bel niente, solo ad essere più incivile di quanto già non sia per indole. Eh sì, per gli Dei, me ne devo liberare! Devo andare da quel cieco abietto di mio padre, sturargli per bene le orecchie e sgranargli come si deve la vista. Pirgopolinice deve andarsene, e subito, così gli devo dire, bello e forte, e così gli dirò, per Giove! Sì, quella zecca è inadatta alla mia formazione! E poi, già che sono in argomento, tenterò di introdurre a mio padre la faccenda della corte imperiale, mi dicevo. A me l’idea di andare via non mi garba proprio per niente, infatti! Io amo Roma, viverci è meraviglioso. Non sono fatto per gli intrighi delle corti o per i veleni della vita miliare. No, le sedi dei due attuali imperatori mi terrorizzano; una, posta sulle acque della Mosella, sul limitare del fronte, per volere di Graziano, mentre l’altra, dove sta suo zio Valente, è la città di Costantino, l’antica e riplasmata Bisanzio, pregna di ori e di voglia di rigenerazione statuale. Buffo che la romana aquila legionaria sia ritornata

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