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Nerone: La rinascita di Roma e il tramonto di un imperatore
Nerone: La rinascita di Roma e il tramonto di un imperatore
Nerone: La rinascita di Roma e il tramonto di un imperatore
E-book732 pagine8 ore

Nerone: La rinascita di Roma e il tramonto di un imperatore

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Info su questo ebook

Il giorno dopo il Grande incendio, Roma offre uno spettacolo di desolazione e distruzione. Tutto è irriconoscibile: gli edifici collassati sono diventati grandi ammassi di macerie, le strade e i vicoli ora sono degli avvallamenti, mentre nell’aria aleggia un acre odore di bruciato. Molti hanno perso tutto ciò che avevano e i campi per gli sfollati diventano la loro unica casa. Tutti guardano all’imperatore per ripartire, aspettano la sua guida per andare verso il futuro. Ma lui non è né un conquistatore di terre come Cesare, né un costruttore di imperi come Augusto. Dalle ceneri di Roma, Nerone emergerà come il Joker della Storia…

Intrecciando fonti storiche, dati archeologici e studi moderni, Alberto Angela ne ricostruisce la vita e indaga i suoi diversi aspetti umani, fatti di debolezze, passioni e follie. Quella che emerge è la figura di un artista poliedrico (cantante, musicista, poeta e attore), un audace auriga, un amante appassionato, un raffinato collezionista d’arte… Ma al contempo un abile negoziatore, un cinico assassino e un feroce repressore, come dimostra la persecuzione dei cristiani incolpati di aver causato proprio il Grande incendio, il fil rouge di questa avvincente Trilogia di Nerone. Il racconto ci permetterà di capire come un singolo momento del passato abbia plasmato il nostro mondo attuale. Se quella notte del 18 luglio del 64 d.C. non fosse caduta una lucerna accesa in un magazzino sotto le arcate del Circo Massimo, cosa ci sarebbe scritto oggi sui libri di storia? Senza la conseguente crocifissione di san Pietro, quale sarebbe stato il percorso del cristianesimo? Nella Roma odierna ci sarebbero il Colosseo e tutti i meravigliosi monumenti che ancora oggi possiamo visitare? Un’indagine meticolosa, originale e affascinante che offre una chiave di lettura nuova su Nerone, il suo impero e ciò che ci ha lasciato in eredità.

All’interno del volume una preziosa illustrazione inedita realizzata da Milo Manara, che ha voluto rappresentare Nerone seguendo le parole di Alberto Angela.
LinguaItaliano
Data di uscita9 dic 2022
ISBN9788830526051
Nerone: La rinascita di Roma e il tramonto di un imperatore
Autore

Alberto Angela

Alberto Angela, nato a Parigi nel 1962, è paleontologo, naturalista, divulgatore scientifico e giornalista, nonché autore di numerosi saggi e conduttore di molti programmi televisivi, tra i quali Passaggio a Nord Ovest, Ulisse - Il piacere della scoperta e Stanotte a... All’inizio del 2018 è andato in onda su RAI 1 con la trasmissione Meraviglie, dodici tappe di un itinerario alla scoperta dei grandi patrimoni dell’umanità; un programma che ha conquistato i telespettatori, i media e la rete, che hanno celebrato Angela come una star e parlato di un “marchio Alberto Angela”.

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    Anteprima del libro

    Nerone - Alberto Angela

    THE DAY AFTER

    29 luglio 64 d.C., poco dopo l’alba

    Il suo corpo coricato sembra voler assaporare ancora per un po’ l’abbraccio della notte, mentre lo sguardo è già rivolto verso l’infinito cielo azzurro del mattino. Ha gli occhi neri, le labbra carnose rosse come il fuoco e un sorriso contagioso. Impossibile non esserne attratti.

    Il diadema sui capelli corvini, così come il prezioso velo di seta finissima che dal capo le scende sulle spalle, ricorda a tutti la ricchezza della sua famiglia, forse aristocratica.

    Intorno c’è solo silenzio. Eppure siamo nel cuore di Roma, e a quest’ora del mattino dovremmo essere assaliti dal vociare di migliaia di persone o dagli infiniti rumori di una città da un milione di abitanti che si risveglia e si mette in moto al sorgere del sole. Invece tutto è fermo. Non è normale: l’assenza di rumori è inquietante, quasi angosciante. L’intera città è immersa in un silenzio spettrale come mai era avvenuto nella sua storia secolare.

    A guardar bene, anche questa donna non si muove: la sua espressione è fissa, e il lenzuolo che ricopre in parte il suo corpo non è quello di un letto aristocratico, bensì uno strato di detriti anneriti che si estende caotico tutto attorno a lei. Solo ora ci rendiamo conto che non si tratta di una donna, ma di una statua che emerge tra le macerie come un naufrago in mezzo alle onde.

    Improvvisamente un sandalo si poggia sul suo volto, calpestandolo, e vi rimane sopra qualche istante. È un sandalo di cuoio semplice, privo delle elaborate decorazioni delle calzature dei ricchi. Ed è piccolo. È chiaramente il piede di un bambino povero, uno scugnizzo della Roma di Nerone.

    In quel breve istante i due opposti della società romana si toccano, quasi a volerci dire quanto la tragedia dell’incendio abbia rimescolato tutto e tutti, cancellando età, classi sociali, sogni e progetti… Il bambino prosegue, lasciando un’impronta annerita sul volto chiarissimo della statua.

    Pochi passi timorosi tra le macerie instabili e il bambino giunge in cima a un cumulo di detriti, forse proprio ciò che rimane della domus principesca della ricca matrona che la statua raffigura. Davanti a lui si apre una distesa di rovine sconfinata e priva di vita.

    È un paesaggio lunare che si estende per chilometri: qua e là si ergono muri anneriti, resti di colonnati, tetti collassati, boschetti di travi carbonizzate, esili colonne di fumo… L’unica cosa che si muove sono i mulinelli d’aria prodotti dal calore del sole, carichi di cenere e fuliggine. Scivolano silenziosi sulle macerie come fantasmi. Sembrano i ballerini di una danza macabra che si muovono sinuosi in un orizzonte tremolante per il caldo estivo…

    Lo scugnizzo non riesce a crederci. Fino a pochi giorni fa, questa era la più grande e popolosa città del pianeta, la capitale del più potente impero. Un faro in tutto il mondo conosciuto. Era Roma. Ora non esiste più. Il Grande incendio scoppiato la notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 d.C. l’ha devastata in appena nove giorni.

    Il ragazzino ricorda tutto molto bene. È stato svegliato di soprassalto dal padre e, assieme alla sorellina, sono scesi di corsa lungo le scale male illuminate del grande edificio nel quale vivevano. Ricorda la confusione della gente, le urla, lo shock nel vedere adulti impauriti piangere e disperarsi. Indelebili sono le immagini dei crolli di balconi infuocati, simili a meteore, mentre correvano a perdifiato nella notte, il sinistro bagliore lontano di edifici che collassavano nel fuoco, le grida disperate di persone rimaste imprigionate tra le fiamme…

    La fortuna ha voluto che il padre conoscesse bene l’intrico dei vicoli anche al buio, perché di mestiere fa il postino (tabellarius). Solo così si sono salvati e sono giunti a casa di uno zio che lavora in un’azienda agricola appena fuori Roma, sulla via Flaminia. Poi il padre è tornato in città per aiutare a spegnere l’incendio e tentare di salvare le persone intrappolate: di lui da giorni non si sa più nulla. Per lo scugnizzo è l’unico riferimento nella vita, visto che la madre è morta di parto quando è nata la sorellina (la febbre puerperale è purtroppo molto comune nell’antichità).

    Ecco perché il ragazzino è qui tra le macerie, a cercare suo padre in quel che rimane del quartiere dove abitavano. Non è l’unico. Sono centinaia le persone che non hanno più notizie dei propri cari.

    Ora avanza confuso, quasi inebetito, nel tentativo di ritrovare la sua casa. Ma tutto è irriconoscibile.

    Ci sono solo immensi cumuli di mattoni anneriti, ringhiere di legno carbonizzate, tegole, tessuti bruciati, anfore rotte.

    Capisce subito che quei grandi ammassi di macerie sono in realtà case collassate, e gli avvallamenti, invece, le strade e i vicoli. Proprio come nelle città colpite da un terremoto. Ovunque aleggia un acre odore di bruciato. A volte si sente quello di carne arrostita, che gli stimola l’appetito in questi giorni in cui manca tutto, anche il cibo, ma è accompagnato dal lezzo di qualcosa che è andato a male. Prova un moto di nausea e un senso di ribrezzo: è probabilmente il corpo di una vittima rimasta sotto le macerie, preda del caldo di questa estate torrida. Non è un caso che si scorgano corvi concentrati in alcuni punti, e si vedano passare cani randagi, affamati.

    Non riesce neppure a orientarsi per le strade dove è nato e vissuto. Mancano tutti i riferimenti del suo quartiere: fontane, statue, incroci, botteghe, edicole religiose… Immaginate di togliere tutto questo dai luoghi in cui vivete: riuscireste a ritrovare casa? È facile intuire le immense difficoltà dell’amministrazione romana dopo l’incendio nel riconoscere o ri-attribuire proprietà, case e botteghe a chi ha perso tutto o vuole tornare a cercare merci o effetti personali tra le rovine…

    Sgattaiolando tra i ruderi, da bravo scugnizzo, il bambino è riuscito a eludere la sorveglianza armata che, per evitare saccheggi, probabilmente impedisce a tutti di camminare liberamente.

    Davanti a lui, alcuni edifici crollati o pericolanti descrivono un’area ancora leggibile. Si intuiscono strade e piazzette di quartiere, con i tipici bar (popinae) agli incroci e una serie di botteghe allineate bruciate solo parzialmente.

    Il bambino avanza in questa sorta di Pompei del fuoco. Sulle pareti si scorgono le chiazze formate dalla fuliggine e dall’acqua lanciata dai vigiles nella loro lotta contro le fiamme. Sembra di sentire ancora le urla e i comandi di questi soldati del fuoco mentre affrontano uno scontro impari.

    I tendoni semibruciati delle botteghe pendono immobili, come gli stendardi di un esercito sconfitto su un campo di battaglia. Sembra quasi che il tempo si sia fermato. Lo scricchiolio dei suoi passi nel silenzio assoluto accresce nel bambino la sensazione di essere rimasto solo al mondo…

    Per la strada ci sono detriti e oggetti di ogni tipo: anfore rotte, pezzi di sgabelli caduti da piani superiori ormai svaniti… In certi punti creano un intrico talmente denso da rendere difficile il passaggio allo scugnizzo. Proprio mentre cerca di scavalcare alcune statue di legno carbonizzate, accatastate in un mucchio confuso, si accorge che si tratta in realtà di… persone. O meglio, di ciò che ne resta. È un groviglio di corpi scuri, simili ai tizzoni di un focolare spento, con le braccia e le gambe ripiegate dal calore. E lui si trova nel bel mezzo. I volti sono deformati, senza più capelli, e dalle bocche contratte in un ghigno orribile emergono i denti bianchi. Con orrore nota che un refolo di vento porta via uno strato superficiale di cenere (ciò che rimane dei vestiti), dando la sensazione che i corpi si stiano dissolvendo davanti ai suoi occhi…

    È troppo per un bambino. Caccia un urlo e scappa via correndo a perdifiato. Inciampa, cade e si rialza proseguendo la sua corsa con le lacrime che gli annebbiano la vista. Una corsa che si ferma contro un corpo possente e due braccia che lo bloccano in una morsa. Lo scugnizzo alza lo sguardo e in controluce scorge il sorriso rassicurante di quello che a lui appare come un gigante dai capelli rossi. È Vindex, uno dei due vigiles che abbiamo seguito nei volumi precedenti dedicati al Grande incendio di Roma.

    Poco lontano c’è anche Saturninus, il suo giovane commilitone-apprendista, che sta rivoltando alcune macerie da cui si alza un filo di fumo. Là sotto, il fuoco cova ancora. In poche abili mosse, Saturninus espone le braci e dà loro il colpo di grazia.

    Nessun riposo per i due vigili del fuoco: sebbene abbiano lottato per giorni, è stata loro concessa solo una notte per riprendere fiato. I vigiles di Roma, infatti, sono stati decimati, uccisi dalle fiamme, dal fumo o dai crolli. L’organico è compromesso, e il pericolo che l’incendio riparta è più che concreto. I sopravvissuti stanno facendo un altro sforzo titanico ed eroico che nessuna fonte antica ha descritto ma che certamente c’è stato. Bisogna pattugliare le rovine, smassando i detriti sospetti per snidare e spegnere eventuali focolai sepolti. E poi hanno anche il compito di vigilare sulle rovine e proteggerle dagli sciacalli.

    Le scene che hanno visto nessuno le ha mai raccontate, tuttavia è facile immaginarne l’orrore e la devastazione. È assai probabile che, attratti dalle loro grida, abbiano curato degli ustionati gravi e salvato dei sopravvissuti rimasti imprigionati sotto le macerie o dentro rifugi improvvisati.

    Esattamente come è successo in altri grandi incendi della Storia, come quelli di Tokyo, Dresda, Amburgo, Londra o San Francisco, davanti ai loro occhi si saranno materializzate scene strazianti di madri bruciate assieme ai propri bambini, corpi abbracciati in un ultimo, estremo tentativo di proteggersi, o resti così consumati dalle fiamme da non essere più riconoscibili come corpi umani…

    Sono immagini terribili del day after che però è doveroso ricordare, perché si trattava di persone come voi e me, anche se la Storia le ha dimenticate e gli scrittori antichi non le menzionano…

    Ma ora è tempo di pensare al domani.

    Tabula rasa

    Il piccolo scugnizzo in cerca del padre con il quale abbiamo iniziato il racconto è ovviamente un personaggio di fantasia, anche se di ragazzini in quella situazione ne saranno esistiti tantissimi, come nel nostro dopoguerra. Per noi, però, quel bambino rappresenta qualcosa di importante: simboleggia la nuova Roma, giovane e sperduta, che ricomincia a vivere dopo la colossale tragedia. Già, ma cos’ha davanti a sé?

    Roma offre al mondo intero uno spettacolo spettrale di desolazione e distruzione.

    Solo le foto di Hiroshima, Nagasaki, Colonia nella Seconda guerra mondiale, o Aleppo e Mariupol in tempi più recenti, possono darvi un’idea di quello che vedono i romani sopravvissuti.

    Qualche fusto o schiere di colonne ancora allineate nei crolli indicano i luoghi dove sorgevano templi considerati eterni: da quello di Vesta, in cui era custodito il fuoco sacro, nel cuore del Foro, all’Ara Maxima dedicata a Ercole, vicino alle sponde del Tevere.

    Le aree che oggi i turisti di tutto il mondo vengono ad ammirare sono distrutte e dovranno essere ricostruite. Dalla valle dove in futuro sorgerà il Colosseo (valle Labicana) fino al Tevere (dove attualmente si trova la famosa Bocca della verità) si estende una spianata calcinata con ruderi anneriti che emergono come lastre tombali di un cimitero abbandonato.

    Persino il gigantesco Circo Massimo, che passerà alla Storia come il più grande stadio mai costruito dall’uomo, per ora è uno scheletro di travi annerite schiacciato al suolo. Si innalzano solo le due estremità in pietra: i carceres, da cui partivano le quadrighe con un boato della folla che si sentiva in tutta Roma, e l’Arco di Stertinio, sotto il quale passavano i cortei dei generali vittoriosi durante le parate trionfali. Fasti che ora, a pochi giorni dallo scoppio dell’incendio, sembrano appartenere a un’epoca lontanissima.

    Un ragioniere del catasto romano vi farebbe l’elenco tecnico di ciò che è scomparso in questi termini: delle quattordici circoscrizioni (Regiones) della Roma di Augusto solo quattro si sono salvate dal fuoco. Sette sono seriamente danneggiate, tanto che Tacito le descrive dicendo che rimanevano solo pochi ruderi rovinati ed abbruciacchiati. I tre quartieri restanti, secondo la sua testimonianza, sono completamente distrutti o abbattuti al suolo: il III (valle del Colosseo e colle Oppio), il X (il Palatino), l’XI (dal Circo Massimo e dalla valle del Palatino fino al Tevere). Inoltre, gli farebbe eco Svetonio, sono state spazzate via un numero infinito di case popolari […] anche le case degli antichi generali ancora adorne delle spoglie nemiche, e i templi degli dei, alcuni votati e dedicati fin dal tempo dei re, e altri durante le guerre puniche e galliche, e tutto quanto era rimasto degno di essere visto o ricordato fin dall’antichitàSenza contare le innumerevoli perdite umane aggiungerebbe Cassio Dione.

    Insomma, a essersi volatilizzata assieme al fumo che si alzava dalla città in fiamme è stata la storia stessa di Roma. Anzi, la Storia in generale…

    Nerone tra le rovine

    Nella valle del Foro, una piccola folla di uomini scava lentamente e con estrema attenzione tra le macerie annerite di una grande dimora patrizia. Avvicinandoci, ci accorgiamo che molti indossano tuniche da schiavi imperiali, e che assieme a loro ci sono anche dei pretoriani.

    Sono tutti sporchi di fuliggine sulle gambe, sulle braccia, sui vestiti e persino sui volti grondanti di sudore. Non c’è da stupirsi, il caldo soffocante di luglio rende opprimente anche queste ore mattutine. Ciò che più si nota è la totale mancanza di ombra: eppure, fino a qualche giorno fa, il sole aveva spesso difficoltà a infilarsi tra i palazzi stretti e a raggiungere il suolo. Ora Roma sembra una conca infuocata per il riverbero abbacinante.

    Con enormi sforzi e mille cautele il gruppo di uomini ribalta una porzione di muro che reca ancora le tracce delle violentissime fiamme che hanno distrutto l’edificio. Come quando si gira una pagina, all’improvviso appare il lato sepolto. È incantevole, incredibilmente intatto, con un elegante affresco dai colori vividi. A noi appare come un capolavoro assoluto, da esporre nella sala più prestigiosa di qualsiasi museo di archeologia. Ma in quest’epoca antica, dove gli affreschi sono ovunque, sembra soltanto un’opera molto bella ma non particolarmente pregiata… se non per un dettaglio: decorava la casa paterna di Nerone.

    Ci troviamo infatti tra i resti della sua casa natale, la domus dei Domizi Enobarbi, posta ai margini del Foro romano che inutilmente si era tentato di salvare quando l’incendio, dalla valle Labicana, era arrivato come una belva affamata. Davanti a questi affreschi, Nerone correva da bambino, prima ancora che sua madre si risposasse con l’imperatore Claudio, spianando la strada al figlio così che diventasse il nuovo sovrano, l’uomo più potente del pianeta.

    Quando l’incendio ha aggredito questa dimora (come abbiamo raccontato nel volume precedente della Trilogia), si era appena riusciti a mettere al sicuro l’essenziale, ma l’arredo, le statue e le suppellettili meno importanti erano stati abbandonati alla furia delle fiamme.

    All’improvviso il gruppo si ferma. In quella che sembra una via di mezzo tra uno scavo archeologico e un intervento di recupero tra le macerie di un terremoto, le mani smettono di togliere detriti e ceneri. Tra i resti anneriti è emerso un piccolo busto di marmo pregiato.

    Un ordine viene impartito e tutti si fanno da parte chinando il capo.

    Due occhi chiari, forse verde-azzurri, non hanno mai smesso di fissare la scena in silenzio. Sono quelli di Nerone. La vista di quel volto scolpito che sembra guardarlo gli ha provocato un tuffo al cuore. Il suo respiro ha improvvisamente accelerato, così come il battito cardiaco. La tristezza nel vedere distrutto un luogo a lui così caro si è mescolata al sollievo di ritrovare quella scultura ancora intatta e all’impatto emotivo causato dallo sguardo della statua. Per un attimo Nerone richiama alla memoria tutta la dolcezza dei ricordi, degli odori, delle voci, delle atmosfere vissute nella sala dove un tempo si trovava quel busto. Il busto di suo padre.

    L’imperatore esce da sotto il grande telo a frange dorate che alcuni schiavi tengono sospeso sopra la sua testa con delle canne. Seguito da vicino da due guardie del corpo, avanza deciso, camminando con agilità sulle rovine fino a chinarsi davanti a quella piccola statua ancora semisepolta.

    È un oggetto al quale è molto legato. Con le mani lo libera e lo solleva, per poi portarlo a sé e fissarlo. Tutti intuiscono che gli sta parlando con la mente. In quel momento cala un silenzio più pesante del calore soffocante.

    Nerone chiude gli occhi per un istante, poi fa un profondo respiro e li riapre colmi di lacrime. Si rialza e con delicatezza porge la scultura a uno dei suoi servi più fidati, prima di tornare alla sua piccola corte, sotto l’ombra del tendone.

    Poco dopo, il corteo si muove attraversando lentamente la spianata del Foro tra due ali di folla, tenuta a distanza da cordoni di pretoriani. Nerone sorride e saluta con ampi gesti regali i romani assembrati su ambo i lati del percorso, raccogliendo ogni volta un’ovazione.

    Una donna con i vestiti in parte anneriti dall’incendio supera il cordone e si inginocchia davanti al corteo. Posa un fagottino con tracce di bruciature sulle lastre marmoree del Foro e a capo chino distende le braccia verso l’imperatore, i palmi rivolti al cielo in segno di supplica. Avvolto in quel fagottino c’è suo figlio di pochi mesi, che piange senza sosta. Le braccia del piccolo portano evidenti tracce di ustioni. La folla è ammutolita. Il corteo si ferma. Un pretoriano della scorta sta per intervenire per allontanare di peso la donna entrata nel perimetro di sicurezza dell’imperatore, ma Nerone gli fa cenno di fermarsi. Ha intuito quanto sia delicato e simbolico il momento, di fronte a tutti, nel Foro.

    Esce dall’ombra della tenda portatile e avanza verso la donna, scortato da alcune guardie del corpo sorprese da questo fuori programma. Si ferma a qualche metro da lei. Il protocollo, e anche motivi di sicurezza, gli impediscono ovviamente di avere contatti diretti con la plebe. La donna sente il suo sguardo addosso e alza lentamente la testa. Ha il volto rigato dalle lacrime e nella sua espressione sono scolpiti i lunghi giorni di sofferenza.

    Per pochi, interminabili secondi i loro occhi s’incrociano. Nerone sorride e fa ancora qualche passo… rompendo ogni convenzione, di fronte agli sguardi sbigottiti di tutti. Lentamente e platealmente poggia la mano sul capo della donna inginocchiata. Poi, con poche, secche parole, ordina ai suoi di occuparsi del piccolo e della madre e fa alzare la donna prendendo le sue mani distese. Due pretoriani e una schiava imperiale accorrono, allontanando la donna dall’imperatore e raccogliendo con cura il fagotto. Mentre se ne vanno, Nerone li segue con lo sguardo e poi si gira verso la folla, che esplode in un boato di tripudio. Il suo nome viene scandito e acclamato dai presenti, consapevoli di aver assistito a un evento eccezionale. Nerone ritorna alla sua corte con passi lenti e calcolati, rivolgendo uno sguardo d’intesa ai membri più stretti, in particolare Poppea, che lo ricambia ammiccando…

    Chi c’è assieme a Nerone?

    Abbiamo immaginato una scena che nessuna fonte antica ha raccontato. Ma è assai probabile che, nei giorni seguenti all’incendio, situazioni simili siano avvenute realmente. Nerone, infatti, deve aver attraversato in più occasioni la città devastata, innanzitutto per esaminare di persona la situazione, e poi per farsi vedere dal suo popolo.

    È importante che l’imperatore mostri in modo tangibile la propria vicinanza alla città, e vista l’eccezionalità degli eventi non è da escludere che abbia più volte infranto il protocollo (d’altra parte, in tempi molto meno critici, abbiamo assistito a casi altrettanto clamorosi: il principe William ha recentemente abbracciato un suddito nella folla che lo acclamava in strada, cosa impensabile per un membro della famiglia reale britannica).

    Qual è lo stato d’animo di Nerone? Non lo sappiamo, però possiamo intuirlo. È vero, regna ormai da quasi dieci anni, ma è molto giovane (non ha ancora compiuto ventisette anni) e soprattutto non ha mai fronteggiato una crisi come questa. Anzi, nessuno lo ha fatto prima: neppure Claudio, che in verità aveva anche lui affrontato un enorme incendio, benché non di queste dimensioni. Nerone sarà l’unico imperatore nella Storia a dover fare i conti con una catastrofe che ha messo in ginocchio la capitale e distrutto gran parte delle proprietà imperiali, compreso lo stesso palazzo dove vive il sovrano, la Domus Transitoria.

    Il minimo che si possa dire è che Nerone è sconvolto. E forse anche impaurito. Di certo ha bisogno di aiuto, conforto e consiglio. A chi può appoggiarsi? E di chi può fidarsi?

    Mentre attraversa la città in rovina, ovviamente non è solo. Nella scena precedente abbiamo lasciato di proposito nell’ombra la corte, senza mettere a fuoco i suoi membri. Ma chi sono?

    Non può mancare Poppea, onnipresente nelle occasioni più importanti. Poi c’è la sua scorta personale, ovviamente. E a ridosso del suo anello protettivo troviamo i più fedeli consiglieri. In primis Tigellino, il famigerato prefetto del pretorio, figura cinica e feroce, abile nel gestire il potere, con una rete di informatori in tutta la città. E Lucio Fenio Rufo, l’altro prefetto del pretorio.

    Sono presenti anche i vertici delle forze che hanno combattuto contro l’incendio, dalla carica più alta dei vigili del fuoco al prefetto dell’Urbe, Tito Flavio Sabino, un nome da ricordare perché tornerà nei prossimi capitoli.

    Immaginate la pomposità del corteo tra le rovine. Pur trovandoci in una delle più gravi emergenze della storia di Roma, è comunque importante per il decoro della corte. E allora scorgiamo i consoli in carica, e tanti aristocratici, molti dei quali rientrati precipitosamente dalle proprie fastose ville al mare o in campagna alla notizia che le fiamme lambivano o divoravano le loro ricche domus. Per tanti di loro la presenza nel corteo ha quindi anche un altro scopo: in pochi giorni è andata in fumo la casa dei loro avi, oggetti e simboli della propria famiglia e della propria gens sono ormai cenere. All’imperatore, quindi, bisogna presentare la delicata questione degli indennizzi… e per questo è importantissimo stargli accanto e farsi vedere. È impossibile però avvicinarlo e rivolgergli una richiesta diretta, a tu per tu. Bisogna contare su qualcuno a lui vicino che possa fare da tramite. Già, ma chi può essere?

    Tra i volti presenti nel corteo scorgiamo proprio la persona giusta. È Seneca. L’anziano filosofo, una volta tutore di Nerone, è di nuovo al suo fianco.

    Sì, è vero, i loro rapporti si sono molto deteriorati in questi ultimi anni. Soprattutto dopo la morte di Burro, il vecchio prefetto del pretorio con cui Seneca ha gestito i primi anni del potere di Nerone. Una volta rimasto solo, il filosofo si è progressivamente allontanato dall’imperatore.

    Mettetevi nei panni di Seneca. Temendo per la propria vita, ha rinunciato a cariche e persino donato parte dei propri averi a Nerone, per poi ritirarsi a vita privata.

    Come mai Nerone lo odia sempre più? Forse una delle cause principali è Poppea, con la quale il filosofo ha pessimi rapporti.

    Ma Seneca, da navigato politico, sa che ora è troppo importante presentarsi dall’imperatore, farsi vedere al suo fianco in questa immane tragedia. Ecco perché è qui.

    Però deve aver notato, come altri nella corte, che non tutta la folla acclamava Nerone. Alcuni sono rimasti in silenzio. E dal loro sguardo si capiva benissimo che lo ritenevano il vero responsabile dell’incendio. È una calunnia, come oggi ritiene la maggior parte degli storici, ma nel day after di questa catastrofe si sta diffondendo a macchia d’olio.

    Spente le fiamme, insomma, un nuovo fuoco sta iniziando a divorare gli animi dei romani. E serpeggia allo stesso modo. Da una scintilla se ne genera un’altra. E la prima scintilla è nata proprio nel cuore della corte dell’imperatore, tra le famiglie aristocratiche e i molti senatori che mal digeriscono Nerone e il suo modo di stare al potere…

    Rabbia ai posti di blocco

    Il sole non è ancora arrivato allo zenit, ma la sua luce accecante sembra schiacciare ogni cosa. Tre figure umane avanzano in questo panorama infernale. Sono deformate e tremolanti per l’aria rovente. È un’immagine che potrebbe provenire dalle distese infuocate della Dancalia, in Etiopia, non dal cuore di Roma. Da lontano sembrano fiammelle scure che ondeggiano all’orizzonte. Già, fiamme nere dopo quelle abbaglianti dell’incendio.

    Stringendo gli occhi si riescono a distinguere le fattezze di Vindex, Saturninus e del piccolo scugnizzo. I due vigiles stanno accompagnando il bambino nell’unico luogo sicuro per lui: un enorme campo profughi al di là del fiume. Ormai conoscono bene i sentieri da seguire tra le macerie, sono quelli percorsi dalle ronde dei loro colleghi e dai soldati delle coorti urbane per sorvegliare i resti della città e contrastare l’azione degli sciacalli. Per lo stesso motivo è logico ritenere, anche se non ci sono giunte notizie a riguardo, che intere aree siano state precluse a chiunque, in attesa di organizzare le visite dei legittimi proprietari alle botteghe e alle abitazioni distrutte. È altrettanto logico immaginare le scene che si presentano ai posti di blocco, come quello che i tre stanno superando ora.

    Vindex, Saturninus e lo scugnizzo arrivano davanti ad alcune transenne che sbarrano una strada sgombra di detriti, circondata da cumuli di macerie e rovine annerite. A un cenno del capo, un loro collega scosta una sbarra e li fa passare. Subito dopo, i tre si trovano di fronte a una folla urlante, a stento tenuta a freno da un cordone di vigiles e di guardie urbane. È una calca eterogenea, composta da giovani e vecchi, schiavi e liberti (cioè ex schiavi liberati), ricchi e poveri, uniti però da un unico pensiero: convincere le guardie a lasciarli ritornare a frugare tra i resti delle proprie abitazioni o delle proprie botteghe, per recuperare quel poco che è rimasto. È difficile contenerli. È gente disperata, che ha perso tutto, a volte persino i propri cari, che spera di ritrovare tra le macerie. Molti sono feriti, con bende a coprire le ustioni.

    Si sentono urla, imprecazioni, minacce, specialmente da parte dei ricchi, abituati a ottenere ciò che vogliono ma non a doversi mescolare a una moltitudine di plebei che sgomitano. Per questo alcuni rimangono all’ombra delle loro lettighe e mandano avanti gli schiavi a parlamentare con gli ufficiali del posto di blocco. I quali però sono irremovibili. Nessuno può passare, pena l’arresto. I prefetti sono stati chiarissimi e inflessibili.

    Naturalmente è facile immaginare che senatori e aristocratici, o i loro parenti, grazie a conoscenze e agganci di altissimo livello, in queste ore abbiano ottenuto qualche permesso speciale. Ma non è il caso di questo posto di blocco.

    Vindex, Saturninus e il piccolo trovatello si allontanano, mentre il livello delle discussioni si alza sotto un tendone provvisorio dove si trovano gli ufficiali con il grado più alto.

    Il numero delle vittime non è mai stato accertato

    Appena qualche giorno fa la strada che stanno percorrendo i due vigiles e il bambino era una delle vie più trafficate di Roma e si faceva fatica a camminare in linea retta. Bisognava schivare le persone che vi venivano incontro, evitare schiavi con grossi sacchi sulle spalle; eravate sospinti da gente che andava di fretta, dovevate infilarvi come un gatto negli spazi liberi tra i passanti, cercando di non pestare piedi o, peggio, inciampare nella tunica di qualche liberta. Alzando lo sguardo avreste visto attorno a voi varie lettighe che sembravano galleggiare sulla folla, aprendosi a fatica la strada come una nave nel mare in burrasca.

    E poi eravate immersi in un vociare indistinto, e avreste colto frammenti di discorsi, risate, esclamazioni, mentre vi avvolgevano effluvi di profumi, di sudore, o di cibo messo a cuocere da qualche parte. Mentre la più varia umanità vi scorreva ai lati, sguardi intensi, espressioni distratte, occhi inquisitori vi accarezzavano… Chissà dov’è finita tutta quella gente.

    Quel mondo è scomparso. Per sempre…

    Ora è tutto diverso. A colpirvi, innanzitutto, è il silenzio. Un silenzio pesante, surreale, carico di angoscia. Gli unici rumori che udite sono quelli dei sandali delle persone che incrociate. Sandali che per la tristezza si trascinano su una strada ricoperta da uno strato di cenere che ammanta ogni cosa. Anche le vesti, le scarpe e le gambe delle persone.

    Le rovine annerite, l’odore di bruciato e la cenere sono un assaggio di ciò che accadrà in modo ancora più catastrofico nell’area vesuviana tra non molto: esattamente tra quindici anni e tre mesi.

    I due vigiles e il bambino si trovano davanti allo scheletro annerito di un’enorme insula collassata su se stessa. Guardano il cielo. Ad allarmarli è una piccola colonna di fumo che s’innalza da quello che una volta era il cortile interno del caseggiato, non visibile perché circondato dall’alta cornice delle macerie. Istintivamente affrettano il passo, arrampicandosi sui cumuli di detriti. Potrebbe essere un nuovo innesco, un ritorno di fiamma del fuoco che cova sotto i resti crollati. Giunti in cima, però, si fermano sorpresi.

    La colonna di fumo si alza dall’unica area sgombra del cortile. È una pira funebre. Le fa corona un capannello di persone a capo chino. Evidentemente abitavano qui e hanno ritrovato i resti di un familiare tra le macerie. Ora li stanno cremando.

    In realtà, tutto questo non dovrebbe accadere: ci sono riti e tempi da rispettare, e soprattutto è formalmente vietato cremare e seppellire chiunque dentro il perimetro della città. Ma siamo in un’emergenza senza precedenti. La mancanza di qualsiasi riferimento amministrativo e la rapida decomposizione dei corpi in questo caldo insopportabile spinge molti a far da sé, e presto.

    Il pericolo ovviamente è quello di far ripartire l’incendio, ma la pira è stata allestita in un’area ripulita da resti o macerie. E, a essere onesti, qui intorno non c’è più nulla che possa ancora bruciare. Vindex non interviene perché a poca distanza dal gruppo scorge due colleghi arrivati prima di lui che vegliano, in disparte, perché tutto vada bene. Il dolore è ormai il sentimento più diffuso in questi giorni. Nessuno ha la forza di combatterlo.

    Non sapremo mai quante scene simili si siano ripetute tra le rovine o fuori città. La domanda che tutti da secoli si pongono è: quante vittime ci sono state nel Grande incendio di Roma? Non esiste una risposta precisa. Il loro numero rimarrà per sempre sconosciuto. Eppure deve essere stato molto alto. Tutte le fonti antiche, a cominciare da Tacito, insistono sulla morte di tantissime persone. Sono stime vaghe, ma se le rapportiamo a una città di un milione di abitanti, siamo probabilmente nell’ordine di decine di migliaia…

    Non bisogna, infatti, pensare soltanto a chi è stato avvolto dalle fiamme (le descrizioni di Tacito sono eloquenti, con persone che si lasciavano morire nel fuoco dopo aver perso la famiglia), ma anche a coloro che sono rimasti intrappolati nelle proprie case e sono stati uccisi dal crollo degli edifici. Oppure a quanti sono soffocati a causa dei fumi o, peggio, dell’anidride carbonica. Per non parlare delle molte vittime che si trovavano per strada, e nel tentativo di mettersi in salvo si sono perse nei vicoli, o sono state travolte dal crollo delle facciate, o calpestate dalla folla in fuga. Alcuni poi devono essere morti per motivi banali, per esempio inciampando o cadendo dai piani alti.

    A loro bisogna aggiungere un numero ancora più grande di feriti, tanti dei quali hanno poi perso la vita nei giorni e nelle settimane seguenti dopo una dolorosa agonia.

    Capolavori scomparsi

    Tra le vittime del Grande incendio, però, non ci sono soltanto le persone, ma anche un patrimonio inestimabile: sono bruciati i musei di allora. Basta fare qualche considerazione per rendersi conto di quali tesori siano andati in fumo.

    A rendere vulnerabili i bellissimi capolavori artistici che avremmo visto nella Città Eterna era il fatto che non fossero custoditi in pinacoteche o musei (che non esistevano ancora), ma sparsi per Roma, spesso all’aperto. L’arte doveva essere accessibile a tutti, e l’Urbe era così un immenso museo a cielo aperto. Andando in giro per le strade poche ore prima del Grande incendio avreste potuto facilmente ammirare sculture di Lisippo, Fidia, Prassitele, o dipinti di Zeusi e Timante.

    Molte opere si trovavano nei portici, come quelli di Livia, Ottavia o Vipsania, vere oasi dove la gente amava recarsi per lasciarsi alle spalle il caos cittadino. Erano in realtà delle piazze chiuse, spesso alberate, circondate da lunghi colonnati sotto cui passeggiare all’ombra e al fresco. Tra un argomento e l’altro, chiacchierando con un conoscente, sareste passati davanti a capolavori assoluti della storia dell’umanità. Le fiamme, il calore e i crolli li hanno inghiottiti per sempre.

    E poi c’è il Foro. Qui potevate fermarvi ad ammirare due dipinti di Apelle: Castore e Polluce e La vittoria di Alessandro. Per i romani erano opere immortali, esattamente come lo sono per noi oggi quelle del Rinascimento custodite agli Uffizi o gli affreschi della Cappella Sistina. Certo, erano state anche un po’ ritoccate secondo il gusto romano, con restauri che oggi nessuno autorizzerebbe: come racconta Plinio il Vecchio, l’imperatore Claudio ordinò di sostituire il volto di Alessandro Magno con quello di Augusto… Ma in fondo anche il Giudizio universale di Michelangelo, dopo il Concilio di Trento, ha subito delle modifiche spesso irreversibili.

    Oltre che al Foro e nei portici, le opere si trovavano anche nei templi e nei luoghi di culto. Di conseguenza, esattamente come oggi i turisti a spasso per Roma possono ammirare all’interno delle chiese dipinti e sculture unici al mondo (solo per fare due esempi, i quadri di Caravaggio nella chiesa di San Luigi dei Francesi, o il Mosè di Michelangelo nella chiesa di San Pietro in Vincoli), lo stesso facevano i romani e i forestieri nella Roma di Nerone prima dell’incendio. In molti templi e luoghi di culto, infatti, i generali romani, a cominciare da Cesare, avevano offerto alle divinità le opere più belle delle loro conquiste, in gran parte provenienti dall’area greca. Immaginate quanta bellezza! Quadri e statue che non conosceremo mai. In buona parte sono andati distrutti in quell’inferno… e ciò che è stato salvato dalle fiamme è comunque poi scomparso nei secoli.

    Roma era un luogo assoluto dell’arte classica, più ricco del Louvre, dei Musei vaticani, del British Museum messi assieme…

    E che dire delle opere egizie riportate da Cesare o Augusto che si trovavano nel tempio dedicato a Iside? Non sappiamo che fine abbiano fatto. Tra i pochi capolavori egizi della capitale che si sono salvati ci sono i grandi obelischi, invulnerabili alle fiamme.

    Tra le vittime culturali del fuoco bisogna poi aggiungere le grandi biblioteche e gli archivi storici. A Roma prima dell’incendio c’erano cinque grandi biblioteche, ognuna con migliaia di opere dell’antichità. Come fa notare la studiosa Catherine Salles, l’incendio di Nerone ha distrutto quasi del tutto la biblioteca del Portico di Ottavia, e forse anche quella dell’Atrium Libertatis. Certo, di molte opere esistevano probabilmente varie copie in giro per l’Impero, ma il danno è comunque incalcolabile. Per non parlare degli archivi privati o di quelli dei santuari.

    Gioielli, collezioni private e… alberi

    Parlando di santuari, bisogna anche considerare i tesori, i gioielli e le preziose opere religiose ivi custodite, come accade ancora oggi in tutti i luoghi di culto del mondo. E non si trattava soltanto di oggetti d’oro o d’argento.

    Secondo Galeno molti medici in epoca romana consideravano i templi delle specie di casseforti dove depositare i farmaci di loro invenzione con cui avevano fatto fortuna, e dei quali erano gli unici a conoscere le formule. Un’infinità di questi medicamenti deve essere andata distrutta.

    E che dire delle piante bruciate in pochi secondi? Plinio descrive sei preziosi esemplari di bagolaro (Celtis australis) piantati nel giardino del console Cecina Largo. Noto oggi anche con il nome di spaccasassi o caccamo, è un albero tipicamente mediterraneo che può superare i venticinque metri di altezza e vivere fino a duecento-trecento anni. Da Plinio sappiamo che nessuno fu in grado di salvarli. In pochi minuti si trasformarono in imponenti torce, finendo carbonizzati…

    Se entriamo poi nel campo delle passioni private dei singoli, soprattutto se ricchi, l’elenco dei tesori andati distrutti in una città così vasta diventa infinito…

    Già all’epoca, per esempio, vasi e gioielli etruschi erano considerati antiquariato, molto prezioso da collezionare. Per non parlare delle rarissime sete delle matrone provenienti dalla Cina, dei tessuti tinti con la costosa porpora, delle sculture in avorio indiano, dei vetri soffiati che raggiungevano prezzi da capogiro. O anche dei profumati legni orientali con venature iridescenti usati per realizzare letti e tavolini. A questo elenco parziale vanno poi aggiunti i pannelli intarsiati di legno pregiato che si trovavano su molti soffitti, come si può vedere a Ercolano.

    E poi, ovviamente, pensate a tutti i gioielli in oro che non sono stati salvati, come anelli, collane, bracciali o diademi tempestati con zaffiri dallo Sri Lanka, ambra dal Baltico, smeraldi… E nelle case non c’erano solo pietre preziose: spesso vi si trovavano mosaici e marmi pregiati provenienti da cave lontane… Ciò che è andato distrutto non ha prezzo. E questo perché per generazioni Roma ha attratto a sé ciò che di più bello si poteva trovare nel mondo conosciuto.

    A questo proposito, il più grande e facoltoso collezionista della città e forse di tutto l’Impero è proprio Nerone. Eppure neanche lui, l’uomo più potente dell’epoca, è riuscito a salvare le sue preziose raccolte. L’incendio le ha divorate assieme ai suoi palazzi. E questo vi dà un’idea dell’entità del dramma economico per qualsiasi abitante della città… Tutti hanno perso qualcosa, chi i propri beni, chi la vita.

    Un occhio di smeraldo

    Una mano avvolge una colonnina di marmo. È bianchissima, costellata da piccole macchie della pelle. Le unghie sono molto curate e due grossi anelli d’oro con dei castoni appesantiscono le dita. In uno si distingue un cammeo con Apollo che guida una quadriga. L’altro invece reca un sigillo imperiale. Evidentemente Apollo e i carri da corsa sono molto amati dal loro padrone. Ma di chi è la mano?

    Non è facile distinguerlo. La colonna fa parte di una grata di marmo finemente cesellata che ricopre la finestra di un palazzo sontuoso. È un vero capolavoro, frutto di maestranze orientali esperte e molto costose. Di chiunque si tratti, ha i mezzi per permettersi cose che gli altri possono solo sognare… La curiosità sale. Chi sarà mai?

    Nella penombra, dietro l’intreccio di marmi e figure scolpite, si intravede solo la sagoma di un uomo. Il gioco delle finestrature rivela alcune parti del corpo che appaiono e scompaiono a seconda dei suoi movimenti. Ecco balenare una porzione della coscia muscolosa, più in là un lembo della tunica, in alto una ciocca di capelli. Poi, solo per un attimo, si scorge un occhio. Non c’è il tempo per capire il suo colore, intuiamo solo che è chiarissimo. Viene quasi istantaneamente ricoperto dal cristallo verde di un monocolo con il quale l’uomo osserva il mondo fuori dalla finestra. È un piccolo dettaglio, sufficiente però a tradire la sua identità: è Nerone.

    Come facciamo a saperlo?

    Plinio il Vecchio, che ora si trova a poche centinaia di metri da lui, nella sua casa, forse solo lambita dalle fiamme e miracolosamente integra (come abbiamo spiegato nel primo volume di questa Trilogia), ci tramanda che Nerone usava uno smeraldo, forse dalla forma schiacciata, per guardare i combattimenti dei gladiatori. Bisogna ricordare che Plinio definisce smeraldo non solo la pietra dura che oggi conosciamo, ma un’ampia varietà di pietre verdi. Quindi non è detto che si trattasse di uno smeraldo stricto sensu. Quello che nessuno storico ha capito è perché lo facesse.

    Possiamo chiederci se usasse questo monocolo verde perché aveva un difetto della vista, forse una miopia (Per lo più essi sono concavi, così che accorciano il fuoco della vista), oppure se lo usasse a mo’ di occhiali da sole colorati, per riposare lo sguardo dal riverbero del sole.

    Entrambe le spiegazioni sono valide per la scena che abbiamo di fronte. Dopo una mattinata passata sulle macerie, per sfuggire al caldo soffocante Nerone, infatti, è rientrato per pranzo nel fresco di un grande palazzo nei Giardini di Mecenate (Horti Maecenatis), nel quadrante nordest di Roma, a poche decine di metri da dove le fiamme si sono fermate. È una delle poche dimore rimaste intatte e abbastanza grandi e accoglienti per ospitare l’imperatore e parte della corte.

    Che lui l’abbia scelta come base stabile di questo primo periodo dopo l’incendio, in cui è essenziale far sentire la propria vicinanza al popolo, è ovviamente nel campo delle ipotesi. Solo una volta che l’emergenza passerà e Roma si trasformerà in un enorme cantiere per la ricostruzione è verosimile che l’imperatore si trasferirà nel suo grande palazzo imperiale di Anzio, l’unica sede dove può riprendere la fastosa vita di prima, grande a sufficienza per accogliere la corte e fresca per la vicinanza al mare.

    Secondo alcuni storici, è proprio in questo ampio parco appartenuto anticamente al grande amico di Augusto, Mecenate, che si innalza una struttura molto alta, forse una torre o una serie di terrazze, che consente di godere di una vista spettacolare sulla città. Con malignità, i nemici di Nerone hanno diffuso la falsa notizia che in cima a questa torre l’imperatore abbia cantato accompagnandosi con la sua cetra mentre Roma bruciava… È certamente una fake news per screditarlo, che purtroppo ha attraversato i secoli e ormai fa parte dell’opinione comune su Nerone.

    Come abbiamo spiegato nel volume precedente, le cose stanno in realtà in modo ben diverso. Nerone non ha probabilmente mai cantato di fronte alla sua città agonizzante. Era sconvolto come tutti.

    E ora? Passato lo shock dell’incendio, superata la grande paura di vivere in una catastrofe di cui per giorni non si riusciva a immaginare la fine, assorbito il trauma di vedere scomparire davanti agli occhi palazzi, templi, monumenti legati alla storia di Roma e a nomi scolpiti nel tempo, compresi i luoghi che più amava, dal Circo Massimo alla Domus Transitoria… come sta ora Nerone?

    Possiamo solo supporre quale fosse il suo stato d’animo in questi giorni. Facciamo qualche ipotesi e qualche ragionamento.

    Nerone ha l’ansia da prestazione?

    Nerone è un essere umano, come voi e me. Ora che il peggio è passato, sta quasi certamente subendo il contraccolpo della tragedia. Anche se nessun autore antico ne ha mai parlato, è facile intuire la probabile ansia, se non addirittura l’angoscia, per la scomparsa sia del passato che conosceva, sia del futuro che dava per scontato.

    In nove giorni, il fuoco ha cancellato ogni legame con i fasti di un’epoca a cui Nerone sente di appartenere. Da questa finestra la sua vista spazia su un deserto rovente privo di riferimenti. Assieme ai luoghi storici della città, alle statue, alle dimore e a interi quartieri, sembrano essere scomparsi anche i valori che li hanno generati e che servivano da esempio fondante della cultura romana. Bastava uno sguardo a un tempio, a un porticato con le sue statue di bronzo greche, e di colpo si era investiti dal nome di Roma. E dagli sforzi per costruirla. È come se si fosse spezzato un ponte con la grandezza del passato.

    Nerone non è un conquistatore di terre come Cesare, né un costruttore di imperi come Augusto: in fondo, pensava di dover semplicemente amministrare un’epoca straordinaria ricevuta in eredità, godendo del suo sfarzo e gestendo un rapporto con il popolo e con la città che considerava casa sua… E così ha fatto per dieci anni, da quando è salito al potere (per ottenerlo non ha certo dovuto faticare, visto che la sua ascesa è stata opera della madre Agrippina). Ora tutto questo è scomparso. È tabula rasa. Assieme a Roma sembrano essersi dissolti la continuità con i grandi del passato e l’appoggio dei suoi avi. È esagerato ipotizzare che, vista la sua vita trascorsa essenzialmente a palazzo e nei divertimenti o a contatto con il popolo in grandi feste (dal Circo Massimo ai banchetti pubblici), si senta vulnerabile, abbandonato da quel mondo che lo ha protetto fin da quando è nato come le mura di una casa? È un’ipotesi destinata a non trovare mai conferma.

    Indubbiamente, però, la scomparsa di Roma e della saggezza antica che l’ha generata deve aver avuto un effetto sulle sue certezze.

    A questa sensazione di smarrimento bisogna aggiungere poi un’altra terribile fonte di stress per questo ragazzo che, lo ricordiamo, ha poco più di ventisei anni e mezzo: il peso della responsabilità. Ora tutti guardano a lui per ripartire. Aspettano la sua guida per andare incontro al futuro. E Nerone non ha certo l’esperienza e il carisma di tanti suoi predecessori, doti essenziali per riuscire a prendere per mano un popolo o le legioni. Escludendo Caligola, e forse anche Claudio, almeno in parte, i nomi che lo hanno preceduto risuonano per grandezza come un colpo di gong nella Storia: Augusto, Cesare, Silla, Scipione… solo per citarne alcuni. Lui sarà alla loro altezza? Voi come vi sentireste al posto suo? È possibile che Nerone nel suo intimo senta una vera ansia da prestazione che gli pesa sulle spalle come un macigno? Per tutti noi sarebbe così. E per lui? Nerone non ha certo avuto la nostra educazione: è stato allevato in una corte di veleni lontanissima dalla vita comune del popolo. È azzardato trarre conclusioni, ma considerando l’enormità della tragedia, e il verosimile impatto sulla sua psiche, anche questa è una possibilità.

    Joker emerge dalle ceneri di Roma

    Va detto che queste ansie e queste angosce sarebbero state ancora più tremende se l’incendio fosse scoppiato all’inizio del suo regno, quando era un adolescente inesperto. Allora, però, c’era chi avrebbe risolto ogni cosa: sua madre Agrippina, vera imperatrice che regnava dietro le quinte, e i suoi tutori, il filosofo Seneca e il prefetto del pretorio Afranio Burro. Lo stesso imperatore Traiano più tardi dirà che quelli furono anni d’oro per Roma. Ora quelle figure non ci sono più per consigliarlo e proteggerlo… Ma è proprio la loro assenza che apre la porta a un’altra ipotesi su ciò che prova adesso il giovane imperatore.

    In questi ultimi anni, infatti, Nerone ha iniziato a cercare i propri spazi con crudeltà inaudita e freddo cinismo, facendo uccidere la madre troppo ingombrante e persino la moglie Ottavia che, a differenza di Agrippina, era del tutto innocente, e allontanando Seneca, il suo più prezioso istitutore (Burro nel frattempo è morto). Quindi tutto lascia pensare che, assieme all’incertezza riguardo al presente, nella mente di questo giovane uomo ci siano un insopprimibile desiderio di indipendenza e la volontà di poter fare le proprie scelte nella vita. L’incendio gli ha dato una straordinaria opportunità.

    In questo senso, Nerone ha lo stato d’animo di un ragazzo che sente finalmente la libertà a portata di mano: è pervaso dall’entusiasmo di ripartire, di

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