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A San Giovanni piovono petali di ciliegio
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E-book100 pagine1 ora

A San Giovanni piovono petali di ciliegio

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Info su questo ebook

Il racconto narra la storia del riscatto di un'esistenza dopo lo sprofondamento in un passato indelebilmente segnato dalle ingiurie della moderna degradazione.
Al centro di tutto vi è il mistero di una casa, uno di quei ruderi delle periferii industriali delle grandi città, accanto ai quali passiamo frettololamente e senza accorgerci di nulla.
Il tema è quello della salvezza che può venire da un ritorno al passato.
LinguaItaliano
Data di uscita18 giu 2014
ISBN9786050308051
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    Anteprima del libro

    A San Giovanni piovono petali di ciliegio - Vincenzo Nuzzo

    "Io lo so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno"(Michelstaedter)

    "Tutti cercano il riposo e la pace" (Oblomov)

    "Ma perché non sei scappato, non sei corso da qualche parte, e ti sei distrutto in silenzio?" (Oblomov)

    "Ma Oblomov non partì né dopo un mese né dopo tre" (Oblomov).

    "O stolti esseri umani, incapaci di prevedere / il destino della gioia o del dolore che incombe" (Inno omerico a Demetra)

    "Ma chi non è iniziato ai misteri, chi ne è escluso, giammai avrà simile destino, nemmeno dopo la morte, laggiù, nella squallida tenebra"

    Prefazione esplicativa.

    Come quasi tutte le cose che scriviamo, questo racconto è nello stesso tempo anche un saggio.

    Per cui in esso la fantasia di persone e luoghi, che ogni narratore ricava immergendosi nel proprio personale inconscio, è frammista a materiali di lettura e riflessione.

    E come dovunque nella nostra opera questa concomitanza rappresenta una vera e propria simultaneità, perché l'accostamento tra materiale narrativo e materiale saggistico non solo non è affatto casuale ma ha anche un senso e quindi un'intrinseca coerenza.

    In entrambi i casi, dunque, cioè sia nel caso del materiale narrativo (così tanto soggettivo), e sia nel caso del materiale di riflessione su testi (molto più oggettivo), si tratta di elementi estremamente personali.

    Naturalmente possiamo comprendere perfettamente se il senso che in tutto ciò si rivela risulterà chiaro solo al sottoscritto ed affatto invece al lettore. Purtroppo possiamo fare ben poco per evitare che sia proprio così.

    Orbene, il critico letterario che leggesse queste dichiarazioni potrebbe dire che ciò inficia in partenza il valore del libro, trattandosi con esso di qualcosa di meramente auto-biografico, e che quindi non tiene conto dei possibili interessi e gusti di un potenziale pubblico.

    In questi casi il giudizio sommario del critico è di solito il seguente : ‒ "Hai scritto solo per te e non per il pubblico!. Ed in genere si tratta in questo caso di una sentenza che chiede allo sfortunato autore anche un'umile confessione : ‒ Ammettilo!".

    Può darsi che tale contestazione sia giusta e che lo sia dunque anche il collegato giudizio di condanna. Non lo neghiamo!

    Ma anche per questo crediamo di non poter far nulla, o almeno pochissimo.

    Questo pochissimo potrebbe consistere nelle spiegazioni che possiamo tentare di dare a chi volesse ascoltarle.

    Abbiamo sempre avuto la strana ma incoercibile sensazione di scrivere molto più per un pubblico trascendente che non invece per un pubblico storico. Ed anche se più volte ci siamo sforzati di evitarlo, di fatto mai ci siamo riusciti.

    Se non temessimo di eccedere in superbia potremmo forse dire a tale proposito che uno dei capi di accusa rivolti a Socrate nel processo che poi lo condannò alla pena capitale, fu proprio quello di aver osato ritenersi un sapiente in virtù di una suggestione daimonica (Platone, Apologia di Socrate) . Ed il suo ricorso ad un Daimon, la cui voce sarebbe stata nientedimento che il sacerrimo oracolo di Delfi, finì per configurare addirittura l'accusa di aver voluto introdurre in città nuove ed abusive divinità.

    Accusa severa almeno quanto quella che abbiamo lasciato pronunciare al nostro critico.

    Questo accade quando nel pensare o nello scrivere si è ineluttabilmente determinati da un'ispirazione che più che con la letteratura ha a che fare con il contatto con occulte e misteriose forze invisibili.

    Ed in realtà siamo portati a credere che il nostro vero talento sia questo e non quello narrativo, filosofico o letterario

    Ma potremmo addurre a nostra difesa anche la testimonianza di un uomo e pensatore ben più concreto di Socrate, e cioè quel Confucio (Kongzi) la cui lettura ha avuto una parte così grande in questo scritto.

    Non citeremo qui la sua sentenza perché sarà lo stesso protagonista del racconto a farlo.

    Il non essere riconosciuti in vita può essere, egli dice, esperienza inevitabile.

    Questo afferma il saggio. Ma ciò, egli aggiunge, va messo in conto, perché chi è veramente saggio sa che è solo il Cielo a riconoscere un'opera e non certo gli uomini.

    Ma del resto dev'essere ricordata qui anche la sentenza con cui l'altro protagonista filosofico di questo racconto, Carlo Michelstaedter, iniziò il suo libro : ‒ "Io lo so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno" (Carlo Michelstaedter, Persuasione e rettorica, pag. 35 ).

    Del resto anche Kongzi aveva detto proprio all'inizio dei suoi Dialoghi : ‒ "Non essere riconosciuti dagli uomini, e non inquietarsene : non è da signore?" ( Confucio, I Dialoghi, I, 1, pag. 47).

    È dunque con queste considerazioni affidiamo questo scritto a chi vorrà avere la bontà di leggerlo.

    Mio padre me ne aveva sempre parlato di San Giovanni, ma io non l'avevo mai vista.

    Né pensavo di doverla mai vedere.

    Anzi nemmeno mi era mai stato detto dove si trovava la vecchia casa di famiglia, un palazzetto, si diceva, non lontano dalla linea ferroviaria che oggi si chiama Circumvesuviana, e che quando mio padre era giovane assomigliava ancora moltissimo all'antica linea borbonica Napoli-Portici.

    Quel palazzetto si era tentato invano di venderlo negli anni settanta, dopo che l'intera zona si era completamente trasformata in una caotica e sudicia periferia industriale. In alternativa si sarebbe dovuto restaurarlo, perché, essendo ormai stato abbandonato da più di vent'anni, era ormai proprio cadente. Nessuno, però, in famiglia se la sentì di affrontare l'ingente spesa, e peraltro non si sapeva nemmeno per quale scopo lo si sarebbe fatto, visto che nessuno pensava ormai più di abitarlo. Ed affittarlo non era nemmeno il caso, visto che il valore degli affitti in zona era calato di molto.

    Ed allora il palazzetto era stato semplicemente dimenticato.

    Ci si era messa l'anima in pace e lo si era lasciato decadere, poco a poco, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, decennio dopo decennio. Da solo, come un cane abbandonato per strada, senza più nemmeno memorie, senza più legami, senza più alcuna provenienza. Da solo ad affrontare la pioggia acida, il freddo ed il caldo, ed il futuro.

    Ed è proprio così che lo vedo ora davanti a me.

    Ancora sorprendentemente vivente, sebbene ossuto e spelacchiato come un cane vecchio, orbo e cieco, sordo ed ormai appena ansimante nel suo cantuccio, incapace del tutto di camminare così come di qualsiasi atto vitale. Proprio come un vecchio e decrepito cane, del quale tutti si chiedono per quale assurdo miracolo sia ancora in vita.

    Il rudere è ancora sorprendentemente in vita.

    Tutto l'intonaco è caduto ed i vecchi mattoni di tufo, ancora saldamente l'uno legato all'altro dalla malta, sono completamente a nudo, anneriti di quella specie di oro brunito che è tipico delle costruzioni di questa parte del sud d'Italia. Come se ne trovano anche ancora in campagna, in quei casali e masserie anch'essi abbandonati tempo fa da famiglie che si sono trasferite altrove, in più comodi, eleganti e moderni appartamenti della più vicina cittadina, o di Napoli, o di Roma, o di diosolosaquale altra città d'Italia o del vasto mondo.

    Dietro le inferriate ormai dello stesso colore di escrementi rinsecchiti, i balconi sono ciechi. Qualcuno di essi è stato chiuso con assi ormai putride e sconnesse dietro le quali si indovina un buio fondo, graveolente di muffa e di escrementi animali ed umani.

    Il portone di ingresso è esso pure decrepito e sbilenco, ma, così saldamente sbarrato com'è, suggerisce come la tenace intenzione di voler difendere ad oltranza ed in eterno, oltre che la sua antica grazia ancora evidente, anche un qualche prezioso mistero ancora racchiuso nelle profondità nascoste dietro di esso.

    Ai suoi lati vi sono due larghe aperture, una volta finestre, che qualcuno, chissà chi, ha provvisto, durante questi anni di abbandono, di battenti di ferro forse per ricavarci dei magazzini di deposito. Ma anche questi battenti sono ormai tutti bruni di ruggine, oltre che essere ingobbiti e

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