Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il sangue della lupa (Romulus Vol. 1)
Il sangue della lupa (Romulus Vol. 1)
Il sangue della lupa (Romulus Vol. 1)
E-book313 pagine5 ore

Il sangue della lupa (Romulus Vol. 1)

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

In contemporanea con la serie evento di Matteo Rovere in onda su Sky, Il sangue della Lupa è il primo volume della trilogia Romulus.

Molti secoli fa, ottocento anni prima della nascita di Cristo, le Terre dei Trenta sono stremate da una lunga siccità. Il Lazio arde, i campi hanno smesso di dare frutti, e i villaggi mormorano. La colpa è soltanto di re Numitor. Il sovrano di Alba Longa e della Lega dei Trenta è un vecchio a cui gli Dei si rifiutano di parlare, sordi davanti a ogni sua supplica. Per questo è stato convocato d'urgenza un consiglio dei popoli albani. Se Numitor sarà dichiarato indegno di regnare, a succedergli dovranno essere i suoi giovani nipoti: due gemelli tanto diversi tra loro quanto legati da un affetto autentico e senza precedenti.

Enitos, forte e impulsivo, appassionato, istintivo, e Yemos, riflessivo e cauto, ma capace di profonde intuizioni.

Nonostante la giovane età, potrebbe essere giunto per loro il momento di salire al trono. Non sono però i soli ad attendere con trepidazione il giudizio degli Dei.

Nel tempio abitato dalla Dea Vesta e dalle sue sacerdotesse, una di loro, la tormentata Ilia, figlia di Amulius, fratello minore di re Numitor, ha il cuore dilaniato da una profonda passione e da un terribile senso di colpa.
Teme di essersi macchiata di un peccato che l'ha resa indegna agli occhi di Vesta. Mentre gli Dei giocano con le vite e i troni dei mortali, nella vicina Velia, un'altra delle trenta città della Lega Albana, un nuovo gruppo di giovani è pronto per affrontare i Lupercalia: sei mesi da trascorrere nei boschi, al termine dei quali o torneranno uomini, o non torneranno affatto. Tra loro c'è Wiros, un orfano gracile e solitario, che osserva con timore la selva in cui dovrà vivere. Pare sia infestata da una divinità crudele e selvaggia che è stata bandita da tutti gli altri Dei.
Rumia, la Madre dei Lupi.

Luca Azzolini racconta la storia dell'origine di Roma in un modo assolutamente originale e senza precedenti, unendo all'accuratezza storica lo stile contemporaneo e diretto che ricorda quello dei grandi maestri del romanzo storico e fantasy degli ultimi anni, da Ken Follett a George R. R. Martin.
LinguaItaliano
Data di uscita29 ott 2020
ISBN9788830519879
Il sangue della lupa (Romulus Vol. 1)

Leggi altro di Luca Azzolini

Correlato a Il sangue della lupa (Romulus Vol. 1)

Titoli di questa serie (3)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il sangue della lupa (Romulus Vol. 1)

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il sangue della lupa (Romulus Vol. 1) - Luca Azzolini

    (N.d.A.)

    PROLOGO

    Alba, Terre dei Trenta, Lazio. VIII sec. a.C.

    Il travaglio era iniziato già da parecchie ore e non se ne vedeva la fine. Le grida di Silvia, figlia di re Numitor, sovrano di Alba e delle Terre dei Trenta, arrivavano fino al capanno dell’aruspice sulla collina che dominava la vallata. La giovane lottava senza posa. Il ventre largo e appesantito. Le donne di famiglia la vegliavano rapaci, facendo ciò che era in loro potere per alleggerire quel fardello. Nessun vagito, però, aveva ancora allietato la Casa del Re.

    Come gli era stato ordinato da un emissario del sovrano, il sacerdote aveva fatto accendere i fuochi all’interno dei bracieri. Bacche e foglie di mirto erano state bruciate e un sottile fumo viola aveva raggiunto le ultime stelle. Non mancava molto all’alba. L’aria, calda e soffocante, era già di per sé un presagio.

    L’aruspice scrutò le fiamme. Poi, con un gesto imperioso del lituo, il bastone cerimoniale simbolo del suo potere, indicò un montone presente in un recinto. Due giovani dall’aria efebica, con i capi coperti da veli di lino candido, annuirono.

    Era un animale sano e forte: il più bel montone di tutta la città di Alba Longa. Il vello bianco, alla luce incerta dei bracieri, sembrava dorato.

    «Una creatura tanto amata dagli Dei» mormorò l’aruspice. «Trascinatela sull’altare» ordinò.

    Poi un terzo giovane, anch’egli con il volto coperto, predispose una pelle di agnello sopra la pietra nuda. Accanto depose un coltello di bronzo dalla lama a foglia. Infine, aiutò l’aruspice a indossare il mantello frangiato e l’alto cappello a cono che imponeva il suo ruolo.

    Il montone prese a scalciare, ma i giovani lo tennero per le corna e lo issarono sull’altare. L’aruspice afferrò il coltello e passò la lama sulla fiamma.

    «Padre Giove, Signore di tutti gli Dei, veglia sulla mia mano» recitò, mentre il taglio della lama smuoveva i peli bianchi sul ventre dell’animale. Soltanto una carezza. «Fiero Marte, principe di tutte le battaglie, possa il mio braccio non esitare mentre compio il tuo volere.» La lama risalì verso la gola del montone. Gli occhi dell’animale ruotarono terrorizzati verso un cielo tinto di viola e malva. L’alba era sempre più vicina. «Madre Vesta, patrona del focolare domestico e triplice Dea, invoco la tua guida per la divinazione che mi attende.» Le dita si strinsero attorno all’impugnatura del coltello. Le orazioni ebbero termine e ci fu un affondo, uno soltanto, ma netto e deciso. La lama si fece definitivamente strada nella carne cedevole del montone. Fu un taglio rapido, alla gola. Un fiotto caldo investì i piedi dell’aruspice e i due giovani che tenevano fermo l’animale. Poi il montone lanciò un gorgoglio rauco imbrattando di sangue l’altare e i sacerdoti.

    «È così pieno di vita!» esclamò appagato l’aruspice, traendone dei presagi. «Il parto andrà a buon fine. Sarà lungo e difficile, ma un Dio veglia sul trono di Alba.» Non aveva più alcun dubbio. Rapido, lasciò che la lama si facesse spazio nella carne calda. Dalla gola tornò verso il ventre e il montone sembrò spaccarsi in due come un frutto troppo maturo. L’aruspice frugò i visceri con le dita e trovò ciò che stava cercando: il fegato, così traboccante di vita e sangue. Lo sollevò alla luce incerta dell’alba e i fuochi nei bracieri divamparono. Il sacerdote l’osservò a lungo, colto da un dubbio improvviso: l’organo era più grande del normale, quasi gonfio. E, sì, era troppo freddo. Troppo rigido e duro.

    «Quale presagio è mai questo?» si chiese l’aruspice. Recuperò il coltello e, mentre la notte portava con sé un ultimo grido dalla Casa del Re, affondò la lama di bronzo. Il fegato si aprì simile a un fiore nero, rivelando l’interno. I giovani accanto all’altare indietreggiarono, inorriditi e confusi.

    Due pietre scivolarono fuori. Una bianca. L’altra rossa.

    L’aruspice le vide cadere sul vello, in un mare di sangue necrotico. Solo allora l’aria si riempì di un vagito, seguito da un altro più debole. L’aruspice posò il coltello e guardò il sole sorgere sopra Alba. «Che gli Dei ci assistano» trovò la forza di dire, mentre da qualche parte davanti a lui, dal bosco che circondava la città, si levò una voce.

    Era il canto di un lupo.

    Ci fu un solo, profondo ululato.

    Forse il grido di una Dea.

    Diciotto anni dopo

    I

    I LUPERCALIA

    Velia, Terre dei Trenta, Lazio. VIII sec. a.C.

    Fuoco. Il cielo era di fuoco. I campi ne erano arsi e la città era ridotta a una distesa di cenere, ossa e vecchie pelli tese a seccare. Altesia, regina di Velia e moglie di Spurius, sentiva l’odore della disperazione arrivare a folate fin dentro il loro capanno. Non bastavano le pezze imbevute di essenze o le foglie aromatiche ad allontanare quel fetore pestifero. Il sole non dava tregua, il caldo stringeva la città nella sua morsa. Le strade di Velia, le capanne di legno, paglia e malta, le recinzioni degli animali e le campagne, erano deserte. Anche la grande casa del sovrano pativa come tutte le altre. Per quanto fossero solide le pareti di legno, fonde le palizzate e spessi gli strati di argilla e tufo che sormontavano la paglia del soffitto, il caldo si faceva strada fino a loro come una serpe, portando con sé il suo veleno.

    «Quando pioverà?» chiese Altesia a suo marito, che con l’aiuto di due ancelle era intento a vestire gli abiti rituali dei lupercalia.

    Nelle loro stanze private, l’odore di polvere e quello di sudore si mescolavano all’afa intensa del tardo pomeriggio.

    Lui fece un cenno incerto con la testa. Chi può mai saperlo?, sembrava voler dire, stanco di sentirselo chiedere. Oltre alle preghiere che rivolgevano agli Dei, oltre ai sacrifici, ai canti e alle offerte, non c’era molto altro che si potesse fare. Nemmeno i sacerdoti sapevano cosa pensare. Aveva interpellato gli aruspici per leggere nelle viscere degli animali la volontà divina; aveva chiesto agli àuguri di interpretare il volo degli uccelli e pregato gli aeromanti di leggere i segni del cielo, il volgere delle nubi e magari percepire l’eco lontana di un tuono. Tutti avevano fallito.

    Gli Dei non parlavano più agli uomini. Non si levava alcuna voce dalle lontane sorgenti del Tevere, né dai boschi sacri o dai cieli indecifrabili. Tacevano.

    Quel silenzio, però, affondava a piene mani nella terra. La siccità spaccava le zolle, bruciava i raccolti e rovinava le messi. Di notte, l’afa toglieva il respiro come un sudario steso sopra le Terre dei Trenta, e di mattina il caldo ardeva il mondo senza pietà come un feroce nemico.

    Altesia aveva contato i tramonti: quarantadue. C’erano stati quarantadue giorni di sole senza una nuvola né una goccia di pioggia. Le uniche a cadere erano state le lacrime dei contadini che avevano visto perdersi bestie e raccolti. Quanto ancora potevano andare avanti?

    «Non temere, mia cara.»

    Spurius raggiunse la moglie, la circondò con un braccio e insieme fissarono Velia.

    Dall’alto di uno dei sette colli che circondavano la città, sembrava di guardare dentro un campo di battaglia. C’erano tende abbandonate, capanni in rovina e pagliericci sporchi. Il letto del fiume era arido e spaccato, e al suo interno cresceva un’erba grassa nutrita delle carcasse dei pesci.

    «Sono sicuro che c’è un Dio in ascolto, da qualche parte.»

    «Tu dici?»

    «Voglio crederlo.»

    Altesia tenne gli occhi fissi verso le colline bruciate. Faceva fatica a riconoscere la sua terra in mezzo alla calura che si levava dal suolo come nebbia. Quello era il luogo in cui era nata: lì aveva perso i genitori, trovato un marito e messo al mondo tutti i suoi figli. Allora perché gli Dei si erano tanto accaniti contro di loro? Che cosa avevano fatto di così sbagliato? Inspirò a fondo, senza tuttavia riuscire a darsi una risposta convincente.

    «Sì» ammise a se stessa quasi malvolentieri, «forse hai ragione, forse ho bisogno di crederci» disse, «ma solo perché mi spaventa immaginare il contrario. Non voglio pensare a un tempo in cui gli Dei non ascoltano le preghiere e sono ciechi davanti alle nostre lacrime.»

    «E allora non farlo. La pioggia arriverà. Dobbiamo solo avere pazienza e pregare perché questa pena abbia fine.»

    Altesia si voltò per guardare Spurius con un sorriso incerto. Era uno dei più valorosi sovrani nella Lega dei Trenta Re. Aveva appena superato il fiore degli anni, più di quaranta estati si erano rincorse su quel viso segnato dai dolori, dalle battaglie e dal sangue versato. Era invecchiato, ma ai suoi occhi era ancora il re che l’aveva voluta per moglie. Aveva una folta barba grigia con solo una spolverata di bianco vicino alle tempie. Portava i capelli tuttora lunghi e scuri, arricciati contro il collo, ma aveva gli occhi fondi e neri come certe gole di montagna quando scende la notte. Sì, era ancora un uomo autorevole. Le sue ancelle di certo ne convenivano con lei. Si alternavano ogni notte dentro il loro letto quando la regina non poteva compiacerlo, ma in fin dei conti questo non la infastidiva. Lei aveva ben altro, e lo aveva capito con gli anni. Aveva il suo cuore. Nessun’altra poteva vantare tanto. Soltanto lei. Altesia.

    «Lascia che ti aiuti, mio re. Avvicinati.»

    Altesia si fece passare il lungo mantello di pelliccia da un’ancella, una stola antica che soltanto i re-sacerdoti della città potevano indossare durante i grandi riti. Chissà, forse la cerimonia che si apprestava a compiere avrebbe placato gli animi volitivi degli Dei. Altesia se la passò sul viso per sentirne la morbidezza. Respirò piano l’odore selvatico, di fiera, che le ricordava tanto la sua patria. Voleva essere lei a posarla ancora una volta sulle spalle nude del marito.

    Spurius l’accettò di buon grado. Indossò i monili in osso e i bracciali di rame antico. Poco dopo, un equites della città si fece annunciare. Varcò l’ingresso del capanno e fece un rigido inchino.

    «Signore» disse, «i luperci sono stati radunati.»

    «Bene. Che abbiano inizio i lupercalia

    Altesia lo vide uscire e in quel momento fu colta da una vertigine inattesa. Qualcosa, forse uno spirito malevolo, le aveva fatto correre un lungo brivido sulla pelle. Una strana sensazione, come un fastidio. Ed ebbe la certezza che la cerimonia non sarebbe stata come quella dell’anno precedente, e nemmeno come quella dell’anno prima ancora.

    Si strinse nelle spalle per cacciare il freddo e quel presagio. Poi scrutò l’ombra di suo marito svanire per le vie di Velia.

    *

    Il secchio era pieno di sangue. Gli uomini ressero la carcassa dell’ennesima capra finché anche l’ultima goccia non cadde nel recipiente di bronzo che era usato da decine di generazioni per quel preciso scopo. Solo allora Spurius annuì. Il sangue era nero e parecchio denso, ancora caldo. Ci si poteva specchiare dentro, tanto era lucido.

    Gli fece tornare in mente un giorno di molti anni prima, quando il luperco era lui. Ricordava l’attesa, l’emozione alla bocca dello stomaco e l’ansia che l’aveva divorato, come l’intuizione precisa che presto sarebbe cambiato tutto. Sarebbe diventato un uomo. Un guerriero. La paura, che spreco! L’aveva provata come tutti i giovani. Ma la vita, adesso lo capiva, andava conquistata.

    Soltanto i ragazzi più promettenti della città, i più fieri e vigorosi, partecipavano ai lupercalia. Giovani ai quali si chiedeva un primo sacrificio: vivere sei mesi nei boschi, fuori da Velia, finché non fossero stati pronti a tornare più forti di prima, e ripresentarsi cambiati come uomini veri. Completi. Ma per cambiare – Spurius ne era certo – non bastavano la volontà o il desiderio. Si cambia solo quando ci si trova davanti a un ostacolo che ci impone di superare noi stessi e che ci chiede di migliorare.

    «Quando si versa il sangue. Per noi o per gli altri» mormorò il re, fissando il catino.

    «Mio signore?»

    Uno dei suoi guerrieri si chinò ad ascoltarlo, ma Spurius scosse la testa. Alzò la mano e lasciò correre il passato che sempre più spesso negli ultimi tempi veniva a disturbarlo. Stava forse diventando vecchio? Il sovrano di Velia sospirò, rinunciando ai ricordi. La città era deserta, il tempio vicino. Il rito doveva avere inizio. Doveva raggiungere i luperci e far cominciare la loro vita da adulti.

    Non c’era tempo per la nostalgia.

    *

    Nella grande capanna al centro di Velia, nel tempio dei lupercalia, Wiros si torceva le mani cercando di calmare il battito irrefrenabile del cuore. Era buio e faceva caldo. Dall’esterno arrivavano solo fragori lontani e infernali. Parevano tamburi di guerra suonati da mille guerrieri e grida di battaglia che uscivano da altrettante gole. Immerso nel crepitio di una fiaccola, non riusciva a percepire altro. Avvertiva il frastuono dei suoi pensieri e l’ansia che cresceva a ogni istante. Il capanno circolare in cui era stato condotto quella mattina era diventato tutto il suo mondo. Era stato sprofondato nell’ombra e nel fumo. Erano svaniti i confini di Velia, erano scomparse le sue strade, le decine di capanne, le colline e le palizzate in sua difesa. Non aveva la minima idea di quante ore fossero trascorse dall’ingresso nel tempio. Non sapeva nemmeno chi fossero gli uomini armati che li tenevano rinchiusi là dentro, una decina in tutto, con alti copricapi a cono, vesti di cuoio e verghe di pelle di bue che facevano schioccare per aria se qualcuno osava lamentarsi o provava a scappare.

    Non sapeva nemmeno come ci fosse finito, a prendere parte ai lupercalia. Proprio lui, così magro e con quegli zigomi affilati e sporgenti, quasi emaciato. Non era mai stato un ragazzo prestante, nemmeno da bambino, i capelli castani fin troppo lunghi sul viso scuro e ombroso e quell’aria sempre distaccata, tanto da farlo sembrare più giovane della sua età. Si teneva in disparte anche quando non avrebbe voluto o dovuto starci. C’era forse un giovane meno adatto di lui? No, certo che no. Non sapeva quale Dio stesse giocando con la sua vita a quel modo, ma sapeva una cosa: che tutt’attorno c’erano altri ragazzi suoi coetanei, come lui rinchiusi per quell’antico rito.

    Li sentiva respirare e gemere; alcuni ridere e altri piagnucolare come tante anime impaurite dagli spiriti dei boschi. Erano una trentina e puzzavano come maiali in un lercio porcile. C’era ovunque un odore pestilenziale di merda e piscio caldi. I corpi non lavati e i fiati pieni di bile ammorbavano l’aria torrida. A parte una fascia di pelle di capra, stretta in vita, erano totalmente nudi e scalzi come animali al macello. Un ragazzo grassoccio e dagli occhi sporgenti aveva vomitato fra le risate degli altri. Poi si era piegato a terra nonostante i colpi di verga e di bastone.

    «Pietà! Pietà di me! Basta, vi supplico… Non ce la faccio!»

    Non si era più rialzato. Tremava e stringeva le gambe al petto, implorando il perdono di suo padre e dei suoi avi perché stava gettando disonore sulla sua famiglia.

    «Alzati, Vibius! Muoviti, non dargliela vinta!» lo incitava qualcuno che lo conosceva, ma il ragazzo non faceva che scuotere la testa, umiliato e stanco. Piangeva, e i singhiozzi si mescolavano alle risate.

    «Alzati, codardo! Non puoi restare per terra!»

    Wiros intravide la sua sagoma nella penombra piegarsi avanti e indietro, incurante degli sputi e degli insulti. Gli arrivò prima un calcio in faccia, poi uno al ventre. Alla fine, ebbe pietà di lui e smise di guardare.

    Tutti e trenta i luperci avevano i volti coperti da maschere di argilla e fango. Non sembrava esserci più niente di umano in loro. Wiros li sentiva pregare i manes perché non li tradissero e supplicare i lares, le anime defunte dei loro antenati, affinché non accadesse loro nulla di male e perché non si rendessero ridicoli o indegni agli occhi della loro gente. Gli uomini lì attorno berciavano e sputavano grumi di catarro per terra a ogni invocazione. Il fumo delle fiaccole grattava quelle gole, le rendeva rauche e dure.

    Wiros non sapeva se pregare con gli altri. Aveva forse importanza? Non quel giorno. Gli Dei, in fin dei conti, non gli avevano mai sorriso. Con un gesto grattò la cicatrice a forma di V rovesciata che portava incisa alla base del collo. Fin da bambino aveva cercato di non farci caso, lo faceva sentire a disagio. Un altro segno che gli ricordava quanto fosse diverso dagli altri e quanto il Fato lo avesse deriso per tutta la vita. Le sue certezze quel giorno sembravano essersi ridotte in polvere. Perché era stato scelto? Non che gli altri fossero meglio di lui, questo no. Sentiva, però, che quella soffocante capanna colma di giovani in cui era stato segregato poteva rivelarsi una sfida ben più ardua di quanto non sembrasse. Bastava guardare negli occhi i figli di Velia, che nonostante il caldo, il sudore e i corpi lucidi, sembravano in attesa di una risposta a tutti i loro timori che arrivasse dagli Dei in persona. Ma questo non accadeva mai e Wiros lo sapeva bene.

    Alcuni di quei ragazzi li conosceva già da prima. Erano i figli dei grandi guerrieri Velienses, personalità in vista e destinati a grandi cose. Uno di questi era Taurus, un ragazzone robusto, dalla carnagione terrigna e dalle spalle nerborute. Era il più alto fra tutti i luperci. Agli occhi di Wiros pareva già un uomo fatto e finito. Aveva un torace ampio come quello di un vitello e mani come pale per il farro; le guance erano glabre, i capelli ricci gli s’incollavano per il sudore alle spalle. A diciassette anni sapeva spezzare il collo a un cervo. A mani nude. Senza pietà. Senza rimorso. Perché il sangue è vita, e la vita in gioco è sempre la propria. Se ne stava al centro della capanna con i piedi sporchi ben piantati nel terreno, incurante degli uomini che di tanto in tanto lo costringevano a fare un passo indietro per tornare nel cerchio dei luperci. Quando accadeva, Taurus rideva soddisfatto come se gli avessero fatto un complimento. Non aveva paura, o almeno non mostrava di averne. Nella sua cruda forza fisica stava il suo potere, ma anche il suo limite.

    Accanto a lui c’era Cnaeus. Un rivolo di luce cadeva dal soffitto e il giovane ci si era messo sotto. Desiderava che tutti lo vedessero e che ammirassero la sua insolenza. Wiros l’osservò furtivo, senza mai alzare gli occhi. Non voleva dare l’impressione di fissarlo in modo sfrontato. Però doveva dargliene atto, sembrava molto sicuro di sé. Era figlio del più valoroso guerriero di Velia, il braccio destro del re. Aveva occhi scuri come il metallo appena strappato dal suolo, la fronte spaziosa e una barba folta color del bitume. Non era grosso come Taurus, i due non erano nemmeno paragonabili, eppure non sembrava importare molto, perché faceva più paura lui di tutti gli altri rinchiusi là dentro: l’altro era grosso e forte, ma Cnaeus aveva qualcosa nello sguardo che metteva i brividi. Era un’intelligenza fredda. Anche sotto il volto coperto di fango e pigmento porpora, simboli di rinascita e vigore, si vedeva chiaramente che non avrebbe perso l’occasione per mettere in risalto il suo ruolo davanti a tutti i ragazzi là dentro.

    «Con quello non c’è da scherzare.» Wiros si sentì dare di gomito. Un ragazzo, forse poco più grande di lui, sui diciassette o diciotto anni, gli si mise accanto ridendo sottovoce. Aveva uno sguardo vivace e occhi piccoli e neri che sparivano sotto la maschera di fango. «Cnaeus è una belva, credimi. So bene quel che dico, lo conosco fin da bambino. Lo vedi questo?» e il giovane si alzò il labbro superiore con un dito: aveva un incisivo spezzato, un frammento seghettato e nero. «Me l’ha rotto lui anni fa, ah! Voleva il mio raschietto di pietra, così se lo è preso» concluse con un cenno rivolto a Cnaeus. «È così che fa con tutto ciò che vuole… Meglio stargli alla larga, dammi retta. Io comunque sono Appius; e tu?»

    «Wiros.»

    «E che nome è, Wiros?»

    «Il mio» rispose il ragazzo con un’alzata di spalle.

    Il nome di un orfano, avrebbe voluto aggiungere, ma tenne quelle parole per sé. Appius non avrebbe capito, e poi sembrava troppo preso dal timore di fare qualcosa di sbagliato o di lasciarsi andare al disonore. Di tanto in tanto lanciava sguardi a Vibius, il ragazzo grasso tormentato dagli altri, e mentre lo faceva aggiustava un laccio di cuoio che aveva legato al braccio destro, con una piccola pietra blu incastonata al suo interno. Stava attento che il nodo fosse ben stretto, lo saggiava con le dita, lo tirava, poi lo scioglieva e lo rifaceva da capo tendendo con più forza le estremità. Nel farlo, mormorava a denti stretti una preghiera. E così di nuovo. Aveva già un brutto solco violaceo all’altezza del bicipite tanto aveva stretto il laccio.

    «E tu?» domandò Appius, notando gli sguardi incuriositi del ragazzo.

    «Io cosa?» Wiros scosse la testa.

    «Il tuo laccio.»

    «Il…»

    «L’amuleto» lo interruppe l’altro. «L’amuleto sacro» precisò come se stesse parlando a un bambino stupido. Wiros rimase in ascolto, imbarazzato. Si guardò attorno e vide che lo indossavano tutti. «Vuoi dirmi che tu non ce l’hai?» Era serio. «Tuo padre non te l’ha dato?»

    «Io… non ho un padre» fu costretto ad ammettere Wiros, e quelle parole gli costarono un enorme sacrificio. Si passò una mano sulla V rovesciata che aveva sul collo, e l’altro rise beffardo, tutto d’un tratto rilassato da quella nuova scoperta.

    «Be’, questo vuol dire che sarai tu il primo a morire.» Wiros rimase paralizzato. Non sapeva cosa dire né come reagire, perché non c’era alcuna incertezza in quella voce. Il ragazzo ne era assolutamente certo. «Sì. Morirai nel bosco.»

    II

    LA CITTÀ DEGLI DEI MUTI

    Alba, Terre dei Trenta, Lazio. VIII sec. a.C.

    Ilia fissava il sacro fuoco all’interno della fossa. Si trovava alla fine del corridoio sotterraneo che correva sotto tutta la città: un complesso di cunicoli scavati nel tenero tufo. Solo una sacerdotessa addestrata poteva arrivarci. Solo una donna consacrata alla Dea. Laggiù, il ventre di Vesta, venerato dalle sue sacerdotesse, bruciava senza sosta da più di quattrocento anni.

    La ragazza si affacciò e scrutò le fiamme nel braciere. La stola bianca, di lino leggero, le copriva il capo per decoro. Il centro della camera assomigliava a un sole morbido: era il grembo di una madre che non l’aveva mai partorita. «E allora perché questa luce non mi scalda?» mormorò, sapendo che quelle parole potevano suonare sacrileghe alla Dea.

    Lasciò che le ombre scorressero celeri sopra il suo viso. Lo avvertiva, c’era del vero in quel suo fragile turbamento. Da qualche tempo, Vesta le era distante. Muta e sorda alle preghiere delle sue ancelle e alle voci che si levavano dal tempio verso il cielo. «Muta» ribadì Ilia. «O forse sono io a non averti mai sentita prima, per davvero…»

    Una mano soffice, dalle dita corte e tozze, afferrò la sua. Ilia lanciò quasi un grido per la sorpresa. Antiàs la stava fissando con aria incerta. Era la più giovane delle sacerdotesse di Vesta. Aveva otto anni appena e uno sguardo acceso, come se un fuoco ardente bruciasse senza sosta dietro i suoi occhi.

    «Oh, Antiàs, sei soltanto tu.»

    Ilia si chiese se avesse mai avuto quello sguardo, almeno una

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1