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Ciao, sono Jack Vance! (e questa storia sono io)
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E-book291 pagine3 ore

Ciao, sono Jack Vance! (e questa storia sono io)

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Info su questo ebook

Fantascienza - saggio (208 pagine) - Raccontata con leggerezza e ironia, la straordinaria vita di uno dei più grandi scrittori di fantascienza. Finalmente riusciamo a conoscere Jack. PREMIO HUGO 2010

Nel 1916 nasceva a San Francisco uno degli scrittori più prestigiosi del XX secolo: John Holbrook (Jack) Vance, conosciuto come “il paesaggista della fantascienza”. Le sue opere descrivono eventi, persone e luoghi in modo semplice e accurato, portando il lettore a immedesimarsi nella storia fino a diventarne il protagonista. Sono film, dove il regista scompare di proposito. Lo stesso Vance afferma: “Il più grande complimento che uno scrittore possa ricevere è che il lettore non sia conscio della sua presenza.”
Anche nell’autobiografia Vance non esprime giudizi e opinioni personali. Racconta la gioventù e i primi difficili anni, le esperienze lavorative, l’incontro con Norma, moglie e compagna di tutte le avventure, la nascita del figlio John, la passione per le barche e la musica jazz, i numerosi viaggi e le amicizie consolidate nel corso degli anni. Nonostante faccia di tutto per nascondersi ancora, proprio questa riservatezza rivela la sua profondità di pensiero.
Finalmente riusciamo a conoscere Jack.
Accompagnano la narrazione le fotografie dell’archivio di casa Vance che si estende per quasi un secolo. Tutto è raccontato con ironia e spirito, e con una tale vitalità da vincere il premio Hugo nel 2010.

Jack Vance (1916-2013) è stato uno dei più grandi autori di fantascienza e fantasy, e certamente tra i più amati dal pubblico. Dopo una serie di lavori di ogni genere, durante la Seconda guerra mondiale si arruola nella marina mercantile e gira il mondo. In questo periodo comincia a scrivere il ciclo della Terra Morente. Tra gli Anni cinquanta e settanta viaggia, in Europa e nel resto del mondo, traendo da queste esperienze esotiche gli spunti per i suoi romanzi: Il pianeta giganteI linguaggi di Pao, il ciclo di Durdane. Nella sua carriera ha scritto decine di romanzi di fantascienza, fantasy e gialli, per un totale di oltre sessanta libri; tra i titoli più famosi ricordiamo i cicli di Lyonesse, dei Principi demoni, di Alastor. Storie ricche di fascino, di personaggi indimenticabili, narrate con uno stile elegante e immaginifico.
Delos Digital insieme in collaborazione Spatterlight si è data l'impegno di riportare sul mercato le opere di questo grande autore.
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2019
ISBN9788825410112
Ciao, sono Jack Vance! (e questa storia sono io)
Autore

Jack Vance

Jack Vance (richtiger Name: John Holbrook Vance) wurde am 28. August 1916 in San Francisco geboren. Er war eines der fünf Kinder von Charles Albert und Edith (Hoefler) Vance. Vance wuchs in Kalifornien auf und besuchte dort die University of California in Berkeley, wo er Bergbau, Physik und Journalismus studierte. Während des 2. Weltkriegs befuhr er die See als Matrose der US-Handelsmarine. 1946 heiratete er Norma Ingold; 1961 wurde ihr Sohn John geboren. Er arbeitete in vielen Berufen und Aushilfsjobs, bevor er Ende der 1960er Jahre hauptberuflich Schriftsteller wurde. Seine erste Kurzgeschichte, »The World-Thinker« (»Der Welten-Denker«) erschien 1945. Sein erstes Buch, »The Dying Earth« (»Die sterbende Erde«), wurde 1950 veröffentlicht. Zu Vances Hobbys gehörten Reisen, Musik und Töpferei – Themen, die sich mehr oder weniger ausgeprägt in seinen Geschichten finden. Seine Autobiografie, »This Is Me, Jack Vance! (»Gestatten, Jack Vance!«), von 2009 war das letzte von ihm geschriebene Buch. Jack Vance starb am 26. Mai 2013 in Oakland.

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    Anteprima del libro

    Ciao, sono Jack Vance! (e questa storia sono io) - Jack Vance

    Nota del traduttore

    Sono stato felice di aver potuto riportare in lingua italiana la storia della vita di John Holbrook (Jack) Vance, il mio autore preferito.

    Spero di essere riuscito a trasmettere al meglio le gioie e gli eventi che hanno caratterizzato i viaggi, le esperienze, le relazioni con gli altri, e soprattutto l’ironia e lo spirito presenti in ogni singolo giorno della vita di Jack.

    La traduzione di questa autobiografia ha comportato scelte delicate.

    Per prima cosa, i tempi dei verbi. Anche se gli eventi narrati da Jack Vance si riferiscono a molti anni addietro, tutto quello che racconta è ben chiaro e luminoso nella sua memoria, come se le avventure da lui vissute fossero accadute solo pochissimo tempo prima. Per questo motivo ho deciso di evitare l’uso del passato remoto e tradurre tutti i verbi al passato prossimo o all’imperfetto indicativo.

    I nomi di personaggi famosi sono stati tradotti quando esistono in lingua italiana, altrimenti sono rimasti invariati. Lo stesso dicasi per i nomi delle località geografiche, i titoli dei libri, dei film, ecc. Alcuni termini tecnici (per esempio le unità di misura) sono stati tradotti, mentre altre voci sono state lasciate in lingua originale, evidenziate in corsivo, con una spiegazione a piè di pagina.

    Altre note sono state aggiunte ove necessario.

    Devo ringraziare la mia famiglia che ha sopportato le mie grida di gioia durante il lavoro di traduzione, e anche quelle di sconforto nel leggere alcuni tristi avvenimenti.

    Un grazie particolare a Giuliana Guerri per il suo lavoro come curatrice della versione finale di questa traduzione.

    Desidero inoltre ringraziare John Vance, figlio di Jack e Norma, e Koen Vyverman, della casa editrice Spatterlight, che mi hanno offerto questa opportunità, e anche Patrick Dusoulier per le note da lui curate nell’edizione in lingua francese.

    Sono infine in debito con Amalia De Francesco, Sandro Pergameno, Stefano Sacchini e Silvio Sosio per i consigli e l’aiuto alla traduzione nei momenti difficili, amici senza i quali questo lavoro non sarebbe stato possibile.

    – Marco Riva, Milano 2019.

    In memoriam

    NORMA VANCE

    (1927–2008)

    Considerazioni preliminari

    Affascinato magiche finestre, che si aprono sulla schiuma

    di mari pericolosi, in fatate terre abbandonate.

    Keats

    Uso questo titolo perché altre denominazioni più usuali mi sembrano troppo formali, e potrebbero indicare una struttura letteraria che dubito possa essere ovunque evidente in tutta la narrazione. Nella preparazione di queste memorie ho tentato una forma di comunicazione nuova e insolita: la dettatura, che trovo imprevedibile e che richiede un particolare tipo di disciplina. Tutto il materiale di questo libro è stato registrato su nastro e poi trascritto dal mio amico Jeremy Cavaterra.

    Forse questo progetto autobiografico è da considerarsi più un paesaggio che un autoritratto: un viaggio attraverso il paesaggio che è stata la mia vita. Riconosco che la mia reputazione, così com’è, deriva dalla produzione letteraria; ciò nonostante la scrittura non è stata l’unica attività della mia vita e devo segnalare che questo libro descrive poco il mio modo di lavorare. Come ogni mestiere, la scrittura è governata dalla pratica e dalla pazienza, e se si possiede questa abilità, quel talento, paradossalmente, può spiegare tutto di questo mondo, tranne se stesso.

    Molte persone notevoli hanno tuttavia incrociato il corso della mia vita, e ho avuto la fortuna di vivere attraverso quella che è certamente un’epoca interessante e ricca di eventi. Ho tentato di descrivere queste persone e avvenimenti, e allo stesso tempo ho cercato di trasmettere qualcosa dei miei atteggiamenti nei confronti della vita. Ma non l’ho fatto né con veemenza, né con consapevolezza: è semplicemente l’inevitabile sottoprodotto di quando si racconta la storia della propria vita.

    Capitolo I

    A cavallo, io e gli altri,

    oltre le montagne azzurre,

    lungo il Fiume d’Argento, il mare risonante,

    e le foreste dei briganti di Tartaria.

    Robert Louis Stevenson

    Sono nato a San Francisco nel distretto noto come Pacific Heights, a metà delle colline lungo il lato settentrionale della città che domina la baia. A quell’epoca, era il 1916, San Francisco era conosciuta ovunque per l’eleganza, il fascino, la dignità, e per i bei panorami, per i ristoranti raffinati e persino per la rispettabilità.

    Sono il terzo di cinque figli, tra due fratelli maggiori (Albert e Louis), un fratello minore (David) e una sorella (Patricia). Mia madre, Edith Vance (nata Hoefler), era una persona di rilievo nella vita sociale di San Francisco. Aveva frequentato l’esclusiva scuola di Miss Hamlin, insieme a Lurline Matson delle omonime linee di navigazione. Quando lei e mio padre si sono sposati, hanno organizzato un grande ricevimento al Fairmont Hotel e la cronaca del quotidiano locale Chronicle ha dedicato all’evento un’intera pagina. Mia madre era una persona allegra, di indole buona e generosa, e per tutta la vita non l’ho solo amata ma ammirata e rispettata.

    Durante quei primi anni vedevo poco mio padre perché era di stanza in Francia, dove lavorava per la Croce Rossa. Passavo invece molto tempo col nonno materno, Ludwig Mathias Hoefler, che abitava dall’altra parte della città in una splendida dimora vittoriana dotata di una cantina, una sala da biliardo e una sala da pranzo rivestita di palissandro. Era un avvocato di successo, coinvolto in politica e indubbiamente una persona di spicco nelle questioni cittadine. Mi riempie ancora di meraviglia il ricordo di quei giorni, con i tram carichi di gente di ritorno a casa dal lavoro e che si arrampicavano sulla collina di Haight Street, fermandosi a metà strada di fronte alla casa di mio nonno, per farlo scendere prima di proseguire fino a Laguna Street.

    Nel 1920 o nel ’21 (non ricordo con esattezza) mio nonno era stato mandato in Germania; faceva parte del comitato Dawes, che aveva l’incarico di migliorare la situazione economica di quel paese. Mentre si trovava all’estero aveva visitato anche Roma, dove aveva visto un paio di enormi statue di marmo che rappresentavano antichi pugili greci. Era rimasto così impressionato da quelle statue da ordinarne delle copie per spedirle a San Francisco in regalo al Club Olimpico, di cui era vicepresidente. Ancora oggi sono lì, in Post Street, sempre di fronte allo stesso caseggiato.

    La mia famiglia ha vissuto a San Francisco fino a quando ho avuto cinque anni e ricordo molti episodi di quel periodo. Nella camera da letto che condividevo con i miei fratelli maggiori una notte era entrata una grande falena, che svolazzava sul soffitto e mi terrorizzava. Rammento che Albert e Louis saltellavano coraggiosamente da un letto all’altro cercando di catturarla; alla fine ci sono riusciti, con mio grande sollievo.

    Avevamo una cuoca di nome Alice McKittrick, che adoravo. Non ricordo perché un giorno le ho detto che mi sarebbe piaciuto mangiare un po’ di cipolle alla panna. Alice me ne ha cucinate di deliziose. Posso ancora vedermi, mentre osservavo il vassoio di fronte a me agitandoci sopra il cucchiaio. Alla fine ho deciso che in fin dei conti non le volevo per davvero. Alice mi ha guardato con puro disprezzo irlandese.

    Mio fratello David si è sempre interessato alla genealogia della nostra famiglia e col tempo è riuscito a raccogliere numerosissime informazioni. Nelle pianure della Scozia (Wigtownshire per la precisione) c’è un castello ora abitato da un gentiluomo di cui so soltanto che ha fatto molte ricerche sulla discendenza dei Vance. Le sue scoperte indicano che un paio di fratelli normanni di nome Vaux erano arrivati nel 1066 con Guglielmo il Conquistatore, stabilendosi nel nord dell’Inghilterra. In seguito un ramo cadetto si era trasferito in Scozia. Nel 1745 s’erano alleati con la parte sbagliata della ribellione giacobita dovendo così fuggire in Irlanda, e la famiglia era diventata scozzese-irlandese. Quel gentiluomo di Wigtown è risalito fino alla nobiltà dell’Aquitania, perfino a una famiglia gallo-romana chiamata de Vallibus. Tutto ciò sembra un po’ inverosimile, ma quando ci penso mi dico che tutti i nomi devono pur avere un’origine da qualche parte, e non c’è una vera ragione per essere scettici. Il nome Vance, come ogni altro, si è evoluto da un punto di partenza nell’antichità, e allora perché non da de Vallibus?

    Ho anche appreso che discendo da William Clark, della spedizione Lewis & Clark. Nel Montana, così dice la storia, Clark era andato a letto con una donna indiana che in seguito aveva dato alla luce un maschio. Era abitudine di quella tribù dare al bambino il nome della prima cosa che la madre vedeva al risveglio: in quel caso era stata una calza e al ragazzo era stato imposto il nome Stocking Clark. A tempo debito, dopo una generazione o due, uno dei suoi discendenti ha sposato qualcuno di una certa famiglia Case, che in seguito è diventata proprietaria di uno spaccio a Copperopolis, una città nel mezzo della California (curiosamente, Copperopolis compare nella mia storia personale, ma ne parlerò più avanti). Così i Case sono entrati nella famiglia di mia nonna, insieme a una vena di sangue nativo latente da qualche parte. Per quanto ne so, questi sono i miei antenati.

    A cinque anni ho iniziato ad andare all’asilo, dove mi è capitato di fare una cosa veramente vergognosa. Davanti a me era seduta una bambina con i capelli scuri e un bel vestitino verde. Per nessuna ragione particolare, ho preso un paio di forbici e iniziato a ritagliare dei triangoli dal tessuto. Ne avevo già tagliati quattro o cinque prima che la ragazzina si accorgesse di quanto stavo facendo. Non si è allarmata, ma è rimasta perplessa e deve essersi chiesta cosa avessi in mente. Certo, ne è nato un gran clamore e mia madre per la vergogna si è offerta di comprare un altro vestito alla bambina, ma sua mamma ha detto: Oh no, non si preoccupi, sono soltanto stupidaggini infantili. Alcuni denigratori hanno poi insinuato che l’episodio era un’esatta indicazione di quelle che sarebbero state le mie inclinazioni future, ma lo nego categoricamente: non ho mai più usato forbici per tagliare il vestito di una ragazza!

    A un’ottantina di chilometri a est di San Francisco si trova la regione del Delta, dove si uniscono tre fiumi: il Sacramento, il San Joaquin e il Mokelumne. Sono intersecati da dozzine di insenature chiamate slough¹ che creano numerose isole. La parola slough è impropria, dal momento che questi canali sono estremamente pittoreschi, con salici piangenti e pioppi lungo le rive. Nel 1921 mio ​​nonno ha acquistato una proprietà accanto a uno di questi corsi d’acqua, noto come Little Dutch Slough. Sul lato nord di questa proprietà c’era un caseificio, con un granaio, un capanno, tutta la relativa attrezzatura e parecchie mucche, che mio nonno aveva preso in affitto. Dall’altra parte dei campi, a circa un chilometro di distanza, c’era un’altra abitazione che il nonno usava come residenza nei fine settimana. Veniva chiamata Green Lodge Ranch, una vecchia casa circondata da robinie e alberi di falso pepe, accanto a una torre che sosteneva il serbatoio dell’acqua.

    Nell’estate del 1922 la nostra famiglia, mia madre e noi cinque bambini, ha deciso di trasferirsi al Green Lodge Ranch per trascorrervi l’estate. Eravamo tutti d’accordo poiché c’era un fienile che ospitava un piccolo pony Shetland, un altro cavallo e un calesse vecchio stile. Nella proprietà c’era anche un pozzo, ma la pompa era fuori uso e così per un po’ siamo stati costretti ad attaccare il cavallo al calesse, guidare fino ai nostri vicini a circa due chilometri di distanza, riempire alcuni barili d’acqua e tornare di nuovo al ranch. La cosa è andata avanti per diversi mesi fino a quando la pompa non è stata riparata e il serbatoio riempito, cosa che ha reso tutto molto più pratico.

    Non ho ancora parlato di mia zia, Nellie Holbrook. La nostra casa a San Francisco era al 2660 di Filbert Street e lei abitava accanto a noi, al 2664 della stessa strada. Zia Nellie era contegnosa e moralista, tanto che ogni volta che suonavo uno dei miei dischi si rifiutava di usare la parola jazz,² e preferiva usare il temine zazz. Non parlerò di lei in dettaglio, se non per dire che nel corso degli anni ha causato molti problemi a mia madre. Era la sorella di mio padre e aveva una devozione quasi innaturale nei suoi confronti. Era selvaggiamente gelosa di mia madre. Mentre eravamo al Green Lodge Ranch, aveva avuto l’occasione di affittare la nostra casa a un prezzo molto alto. Avevamo programmato di tornare in città alla fine dell’estate, ma mia zia ci aveva esortato a rimanere dove eravamo. Sarebbe molto salutare per i bambini, al ranch, aveva detto, quindi perché non restate? E continuato: Affittando la casa, la famiglia ne trarrebbe profitto e i bambini potrebbero andare a scuola lì e condurre una sana vita di campagna. Mia madre, sotto la pressione di mio padre, alla fine aveva accettato questa situazione.

    A circa un chilometro a est del Green Lodge Ranch c’era la scuola, la Iron House School, una pittoresca costruzione vecchio stile, composta da due stanzoni. A quel tempo doveva avere già almeno cinquant’anni. In quella scuola ho frequentato il primo anno delle elementari, e i miei fratelli e mia sorella hanno seguito i corsi adatti alla loro età.

    Quando ero in seconda elementare, l’insegnante Miss Lawson ha formato un gruppo di suonatori di armonica. Ci ha insegnato a suonare la Marine Band,³ che a quel tempo costava 50 centesimi. Ancora oggi suono l’armonica, grazie a Miss Lawson.

    A quel tempo mio padre risiedeva al Green Lodge Ranch solo occasionalmente; più spesso era altrove, per affari, oppure a San Francisco a casa di mia zia. Questo non infastidiva troppo noi bambini, perché era un tipo piuttosto rude, turbolento, moralista e, per dirla tutta, un po’ prepotente. Quando i miei fratelli maggiori hanno terminato la scuola primaria alla Iron House, mio ​​padre e mia zia li hanno persuasi a iscriversi alle scuole secondarie di San Francisco dove, così pensava mia zia, avrebbero goduto di vantaggi sociali non disponibili in campagna. Mia madre ha disapprovato con vigore, ma è stata messa in minoranza dai miei fratelli, mio ​​padre e mia zia, e così la famiglia è stata ulteriormente divisa.

    In ogni caso, a me non importava affatto. All’epoca ero un ragazzo strafottente e piuttosto pedante, con i capelli scuri e corti, gli occhiali (a quei tempi i miei occhi erano già in cattivo stato) e non particolarmente socievole. Mio nonno mi chiamava Steinmetz,⁴ il che non mi piaceva molto, dato che Steinmetz non aveva niente a che vedere con Tom Mix o Douglas Fairbanks.

    Mio nonno era solito uscire dalla città ogni fine settimana, in una splendida Twin Six Packard Saloon.⁵ Lui non sapeva guidare, perciò al volante c’era il suo autista George Slade. George alloggiava all’ultimo piano della casa in Haight Street, dove lo sentivamo suonare il sassofono quando non era di servizio.

    Ogni venerdì, mio fratello David, mia sorella Pat ed io dovevamo riordinare il cortile anteriore: rastrellarlo, assicurarci che non ci fossero foglie nel vialetto d’accesso e, in generale, rendere il posto curato ed elegante. Verso le tre del pomeriggio iniziavamo a guardare su e giù per la strada, con l’ansia di vedere la Packard venire giù a precipizio, ed eravamo tutti eccitati: mio nonno sarebbe uscito dall’auto per primo, seguito dalla mia bisnonna materna, poi da mia nonna e, spesso, da vari ospiti che venivano a passare il fine settimana al ranch. Costoro erano persone di tutti i tipi: a volte un po’ eccentrici, a volte uomini d’affari. In ogni caso, ci godevamo sempre quei fine settimana. Il sabato mattina mia nonna e mia madre tagliavano i rognoni per il sauté, la nostra colazione del sabato. Per la cena della domenica avevamo tre o quattro costolette o, occasionalmente, arrosto di agnello o di maiale, ma era sempre un’occasione di festa. Poi mio nonno, la sua famiglia e gli ospiti risalivano a bordo della Packard e tornavano a San Francisco; e mia madre respirava di sollievo. La vita procedeva tranquillamente dal lunedì al venerdì pomeriggio, quando tutto ricominciava.

    Quando andava in campagna, mio ​​nonno era solito fermarsi al bar di Johnny Heinhold a Oakland, nel posto che ora si chiama Jack London Square. Heinhold aveva conosciuto Jack London e, sebbene fosse il periodo del proibizionismo, lui e mio nonno si gustavano tranquillamente alcuni liquori di contrabbando. Poi il nonno andava al magazzino di Hunt Hatch, in cui aveva una parziale partecipazione, e caricava la Packard con sacchi di arance, mele o altri frutti per portarli al ranch.

    Ho trascorso un’infanzia molto piacevole, naturalmente con alti e bassi. La finestra della mia camera da letto dominava una splendida vista a ovest, ed era particolarmente bella al tramonto. Lontano, molto a nord, si poteva scorgere l’inizio della catena montuosa costiera che, scendendo verso sud, diventava sempre più imponente, culminando nel monte Diablo per poi digradare ancora più lontano, e si doveva girare la testa per vederla tutta. Ogni sera verso l’imbrunire il treno di Santa Fe passava a circa tre chilometri a ovest, e fischiava all’incrocio Woo-wooooo, woo-wooooo!, con il suono più triste e malinconico che abbia mai sentito. Il solo ricordo mi commuove ancora oggi.

    Sono stati anni spensierati e avevo un sacco di cose da fare. Cavalcavo il pony per la campagna e d’estate si poteva nuotare quasi ogni giorno in una specie di laghetto. Avevamo il permesso di usare una barca a remi; a volte andavamo nei bei pantani tra le isole e lungo gli argini dove crescevano i salici e i pioppi. Occasionalmente, durante i fine settimana e su istigazione di mio nonno, tutta la famiglia usciva a cercare funghi. Esploravamo i campi vicini e raramente tornavamo a casa senza un cestino pieno. In una di quelle giornate uno degli amici di mio nonno, Adolph Schroeder, ha trovato un enorme fungo la cui cappella misurava 30 cm.⁶ Quella scoperta è stata riportata sui giornali di San Francisco.

    Mi piaceva far volare gli aquiloni e ne costruivo di tutti i tipi: quelli a scatola, quelli a forma di aeroplano e anche quelli semplici a forma di diamante, vecchio stile. Stavo nei campi di erba medica adiacenti alla casa, mi sdraiavo e li lasciavo volare. Disteso in quell’erba fragrante, sarei rimasto tutto il pomeriggio a guardare il mio aquilone svolazzare nel cielo.

    In quel periodo ho iniziato anche a camminare sui trampoli. Dapprima molto modestamente, con legni da 15 cm,⁷ poi sono diventato più audace e ho provato quelli da 30 cm, poi da 60 cm e infine quelli di altezza massima, i trampoli da due metri e mezzo, sui quali ci si poteva issare solo arrampicandosi su un albero e salendoci sopra da lì. Come sa bene chiunque abbia camminato sui trampoli, non è poi così difficile se si rimane in movimento.

    La casa

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