Il Grande Gatsby
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Volume numero 11 della collana "Classici" a cura di Pierluigi Pietricola.
Nick Carraway, voce narrante del romanzo, trasferitosi a New York nel 1922, affitta una casa a Long Island, brulicante di nuovi ricchi disperatamente impegnati a festeggiarsi a vicenda. Un vicino di casa colpisce Nick particolarmente: il misterioso Jay Gatsby, che abita in una casa enorme riempiendola ogni sera di invitati alle sue feste. Eppure vive in una disperata solitudine e si innamorerà insensatamente della cugina sposata di Nick, Daisy.
Un capolavoro che, ambientato a cavallo fra gli anni Venti e l'ombra del disastro economico e morale successivo al primo conflitto bellico, che narra aspirazioni e psicologie di un mondo attraversato da fantasmatici eroi pronti a rinunciare anche a sé stessi pur di inseguire un sogno. Ma che, restando fedeli ai propri ideali, vengono schiacciati da una società indifferente e finiscono con il soccomberne.
Dal romanzo è stato tratto l'omonimo film diretto da Baz Luhrmann e interpretato da Leonardo Di Caprio.
Francis Scott Fitzgerald
Francis Scott Fitzgerald (Saint Paul 1896 - Los Angeles 1940) è considerato uno fra i maggiori autori del '900 americano. Oltre a Il grande Gatsby ha scritto Di qual dal paradiso; Belli e dannati; Tenera è la notte, Il curioso caso di Benjamin Button, oltre ad un altro romanzo lasciato incompiuto, Gli ultimi fuochi, e decine di racconti sui temi della giovinezza e del disagio generazionale.
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Anteprima del libro
Il Grande Gatsby - Francis Scott Fitzgerald
Francis Scott Fitzgerald
Il grande Gatsby
© Bibliotheka Edizioni
Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma
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Direttore della collana Classici Bibliotheka
: Pierluigi Pietricola
Traduzione di Antonella Russo
Diesegno di copertina: Riccardo Brozzolo
Francis Scott Fitzgerald
Scrittore e sceneggiatore statunitense, autore di romanzi e racconti, Francis Scott Fitzgerald è considerato uno fra i maggiori autori del Novecento americano.
Nato a Saint Paul il 24 settembre 1896, morì Los Angeles il 21 dicembre 1940; faceva parte della corrente letteraria della cosiddetta Lost Generation.
Scrisse cinque romanzi (Di qual dal paradiso; Belli e dannati; Il grande Gatsby; Tenera è la notte, Il curioso caso di Benjamin Button) più un sesto lasciato incompiuto (Gli ultimi fuochi), oltre a decine di racconti sui temi della giovinezza, della disperazione e del disagio generazionale.
Il fallimento e la disillusione del sogno americano, narrati fra elegia e malinconia, in un capolavoro che delinea amaramente quanto l’infinito abisso che separa i ricchi dai poveri, il sogno dalla cruda realtà, mai verrà eclissato.
Capitolo 1
Negli anni più vulnerabili della mia gioventù mio padre, mi diede un consiglio che da allora non ho più dimenticato: «Tutte le volte che ti viene voglia di criticare qualcuno» disse, «ricorda che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu».
Non disse altro; eravamo sempre stati comunicativi nonostante il nostro riserbo, quindi compresi che voleva dire molto altro. Perciò sono portato a ponderare ogni giudizio, un’abitudine che oltre a rivelarmi molti caratteri peculiari, mi ha reso vittima di molti individui privi di interesse. La mente anormale si rivela incline a scovare e ad aggrapparsi a questa qualità, quando si manifesta in un individuo normale, sicché al college, proprio a causa di ciò, fui accusato ingiustamente di fare attività politica, solo perché conoscevo i segreti dolori di questi infervorati sconosciuti.
La maggior parte delle confidenze non erano ricercate; spesso, anzi, se intuivo da qualche segno inconfondibile che una confessione intima stava facendo capolino, simulavo sonno, ansietà, oppure un accigliato disinteresse; perché le confessioni intime dei giovani, perlomeno i modi con cui essi le esprimono, vengono di norma condizionate e alterate da evidenti omissioni.
Una questione di infinita speranza, ecco cosa comporta l’evitare i giudizi. Ancora oggi temo di smarrire qualcosa se trascurassi che, come mio padre snobisticamente suggeriva e io snobisticamente ripeto, il senso ultimo della decenza è distribuito con parzialità alla nascita.
In ogni caso, dopo essermi elogiato per questa mia disposizione alla tolleranza, devo confessare che ha i suoi limiti. Che una condotta si fondi sulla dura roccia o su infide paludi, sta di fatto che dopo un certo limite non mi interessa più su cosa si fondi.
Lo scorso autunno, di ritorno dall’Est, avvertii di voler il mondo in uniforme, in una specie di infinita rettitudine morale; non desideravo più avventurose scorribande del cuore. Solo Gatsby, l’uomo che dà il nome a questo libro, era immune da questo mio desiderio; Gatsby, l’incarnazione di tutto quello che disprezzavo di più al mondo. Se la personalità è un’ininterrotta teoria di azioni riuscite, be’, vi era in lui qualcosa di meraviglioso, un’elevata sensibilità alle promesse della vita, come se fosse connesso a uno di quegli intricati congegni che registrano i terremoti a diecimila miglia di distanza. Questa sensibilità non aveva nulla a che fare con la flaccida impressionabilità che, con una certa prosopopea, viene solitamente definita ‘‘temperamento creativo’’. Piuttosto, si trattava di un inconsueto dono di speranza, una prontezza romantica di cui non ho più riscontrato in altri, e che molto probabilmente non ritroverò mai. No, dopotutto Gatsby era una persona a posto; era ciò che gli si appiccicava addosso, la mefitica polvere che si posava sui suoi sogni ad arrestare momentaneamente il mio interesse per i dolori vacui e i transitori entusiasmi degli uomini.
Appartengo ad una famiglia importante, gente benestante di questa città del Middle West, da tre generazioni. Sono una specie di clan, i Carraway, e una tradizione vuole che discendano dai duchi di Buccleuch, benché il vero fondatore del mio ramo, il fratello di mio nonno, giunto qui nel ’51, si sia fatto sostituire nella Guerra Civile e abbia intrapreso un commercio all’ingrosso di ferramenta che mio padre svolge tuttora.
Non ho mai conosciuto questo prozio, ma sembra che gli assomigli, basti vedere il ritratto, serioso e altero, appeso nell’ufficio di mio padre.
Nel 1915 mi laureai a New Haven, esattamente un quarto di secolo dopo mio padre. Poco dopo partecipai alla teutonica, intempestiva migrazione conosciuta come Grande Guerra. Apprezzai così tanto la controffensiva che ne ritornai inquieto. Non il caldo centro del mondo, ma il confine lacerato dell’universo, così mi appariva ora il Middle West: mi risolsi per questo ad andare a Est, specializzandomi nel settore obbligazionario. Poiché tutti quelli che conoscevo lavoravano in quel settore, pensai che un posticino ci sarebbe stato anche per me. Le mie zie e i miei zii, nessuno escluso, parlarono dell’argomento come se stessero scegliendo per me un’Università, e alla fine dissero: «Ma certo, perché no», con facce solenni e gravi. E mio padre accettò di finanziarmi per un anno. Dopo alcuni rinvii, nella primavera del Ventidue, andai nell’Est, pensando di rimanervi per sempre.
Trovare una stanza in città era un problema cruciale da risolvere. L’estate era alle porte e io avevo lasciato un paese di vaste praterie e amichevoli alberi; così quando un collega dell’ufficio mi propose di prendere casa insieme, presso una vicina cittadina di pendolari, l’idea mi sembrò perfetta. Trovò lui la casa, a ottanta dollari al mese, una sorta di cottage di compensato logorato dalle intemperie. Poi, però, all’ultimo istante, la ditta lo trasferì a Washington e così mi ritrovai solo.
Avevo un cane – o almeno lo ebbi per alcuni giorni, finché non se la filò – , una vecchia Dodge e una domestica finlandese che mi rassettava il letto e prparava la colazione, rimuginando a bassa voce saggezze finniche, tra sé e sé, dinanzi alla stufa elettrica.
Mi sentii solo per un paio di giorni, fino a quando una mattina un tale, arrivato dopo di me, mi fermò per strada.
«Come si arriva a West Egg?» mi chiese, demoralizzato.
Glielo spiegai. Be’, lungo il cammino non fui più da solo. Ero una guida, un esploratore, un colono delle origini. Il tale mi aveva, pur non volendo, assegnato il diritto di appartenere, di ‘esserci’ in quel quartiere. Così, con il sole e le grandi esplosioni di foglie sugli alberi, proprio come nei film le cose crescono accelerate, finii per convincermi che la vita stesse per avere un nuovo inizio con l’estate.
Innanzitutto, era necessario leggere tanto, poi si doveva strappare dal gagliardo respiro dell’aria tanta buona salute. Acquistai una dozzina di libri in materia bancaria e creditizia e sui titoli di investimento, e questi, rossi e dorati, si misero a troneggiare sulla mia mensola come denaro appena uscito dalla zecca, con la promessa di svelarmi gli abbaglianti segreti di cui solo Mida, Morgan e Mecenate erano i depositari. E avevo tutta la solenne intenzione di leggerne molti di più. Al college, ero molto intellettuale (un anno scrissi parecchi editoriali piuttosto austeri e diversi altri un tantino ovvi, per lo ‘‘Yale News’’), e adesso riconducevo nella mia vita tutti questi trascorsi, per ridiventare evidentemente il più limitato di tutti gli esperti, ‘‘il versatile tuttologo’’. Beninteso, non si tratta di un semplice battuta di spirito: nella vita, al di là di tutto, se ci si inquadra in una sola prospettiva si riscuote molto più successo. Che avessi trovato una casa in affitto in una delle più strambe comunità del Nord America, fu una casualità. Si trovava in quella tumultuosa isoletta che si allunga ad est di New York, in cui ci sono, tra altre particolarità naturali, due curiose conformazioni nel terreno. A circa venti miglia dalla città, un paio di uova giganti, di forma simile e separate da una baia, svettano al di sopra dello specchio d’acqua salata più urbanizzato dell’emisfero occidentale, il grande e umido cortile dello stretto di Long Island. Non ovali perfetti, del tipo uovo di Colombo; tutti e due risultano un po’ schiacciati alla base, dove toccano il terreno. In ogni caso, il fatto che si assomiglino così tanto dall’alto trarrà di certo in confusione i gabbiani che vi volano sopra; per tutti quelli che non hanno le ali, ciò che più colpisce è senz’altro la loro diversità in ogni dettaglio, tranne nella forma e nella dimensione.
Io vivevo a West Egg, la… insomma, la meno blasonata delle due, benché questa sia certamente la più superficiale delle definizioni per esprimere il bizzarro contrasto che intercorreva tra loro. Sulla cima dell’uovo era situata la mia casa, a soli cinquanta metri dallo Stretto, compressa tra due edifici giganti che venivano affittati a dodici/quindicimila dollari a stagione. L’edificio di destra, da qualunque prospettiva lo si guardasse, era una cosa abnorme, un’imitazione che copiava gli Hotel de Ville di Normandia, munito di una torre laterale, nuova di pacca, cosparsa di una rada e leggera barbetta di edera, con una piscina in marmo e oltre quaranta acri di prato e giardino. Era la dimora di Gatsby, o per meglio dire, il palazzo abitato da un signore che si chiamava Gatsby, giacché non avevo fatto ancora la sua conoscenza.
La mia casa invece era un pugno nell’occhio, anche se minuscolo e quindi trascurabile; avevo un panorama sul mare, una visuale limitata del prato del mio vicino e la gratificante vicinanza di milionari, tutto per ottanta dollari al mese.
Dall’altra parte della baia i palazzi bianchi alla moda di East Egg brillavano sull’acqua, e la storia di quell’estate ha proprio inizio a partire dalla sera in cui mi recai lì a cena, da Tom Buchanan. Daisy, sua moglie, era la mia cugina di secondo grado e io avevo conosciuto Tom al college. Subito dopo la guerra avevo trascorso due giorni con loro a Chicago.
Tom, tra le varie doti fisiche, includeva l’essere stato una delle ali più potenti che avessero mai giocato a football a New Haven: una personalità di rilevanza nazionale, per così dire; uno di quegli uomini che raggiungono a ventun anni una fama talmente netta che tutto quello che fanno sembra deludente. La sua famiglia era enormemente ricca – anche al college la sua disinvoltura nello sperperare il denaro era fonte di biasimo – ma ora aveva lasciato Chicago ed era venuto nell’Est in un modo che toglieva il fiato: per esempio, aveva portato da Lake Forest una sfilza di cavalli da polo. Ed era difficile rendersi conto che un uomo della mia stessa generazione fosse ricco abbastanza per farlo.
Perché fossero venuti nell’Est, lo ignoro. Avevano trascorso un anno in Francia senza un motivo particolare, e poi se n’erano andati alla deriva di qua e di là, irrequieti, là dove la gente gioca a polo ed è ricca. Si trattava di un trasferimento definitivo, disse Daisy al telefono, ma io non ci credevo: non riuscivo a leggere nel cuore di Daisy ma sentivo che Tom sarebbe andato alla deriva in eterno, alla ricerca, un po’ malinconica, di quelle squadre di calcio che si trovano in una posizione di classifica mediocre, e di cui potesse provare a ridare smalto.
Accadde così che in una calda serata ventosa guidai verso East Egg per vedermi con due vecchi amici che a malapena conoscevo. La loro casa era ancora più elaborata di quanto mi aspettassi, un’allegra dimora in stile coloniale della Georgia, bianca e rossa, che si affacciava sulla baia. Il prato iniziava sulla spiaggia e si stendeva verso la porta d’ingresso per un quarto di miglio, saltando sopra delle meridiane e dei camminamenti in mattoni e degli sfavillanti giardini; infine, quando raggiungeva la casa, si accumulava su un lato di essa in luminosi rampicanti, come sospinto dall’abbrivio della sua corsa. Il frontale era interrotto da una linea di portefinestre, rilucenti allora di riflessi color oro e spalancate al caldo pomeriggio ventoso, e Tom Buchanan, in abiti da cavallerizzo, se ne stava in piedi con le gambe divaricate sotto il portico.
Era cambiato dai tempi di New Haven. Adesso era un uomo robusto di trent’anni, dai capelli color paglierino, dalla bocca piuttosto dura e i modi altezzosi. Due arroganti occhi lucidi si erano impadroniti della sua faccia e gli davano l’aspetto di qualcuno che si sporge sempre in avanti aggressivamente. Nemmeno l’ostentazione effeminata dei suoi abiti da cavallerizzo avrebbe potuto celare l’enorme possanza di quel suo corpo. Sembrava riempire quegli stivali scintillanti a tal punto da metter a dura prova e tendere allo spasimo l’allacciatura, e potevi vedere il gran fascio di muscoli che si spostava quando la sua spalla si muoveva sotto la giacca di tessuto fine. Era un corpo in grado di sollevare pesi enormi: un corpo crudele.
La sua voce, rauca e graffiante, accresceva l’impressione di intrattabilità che lui esprimeva. C’era un tocco di disprezzo paterno in essa, anche nei confronti delle persone che amava e c’erano uomini a New Haven che lo odiavano fino al midollo.
‘‘Be’, non penso che su questo genere di cose la mia opinione sia definitiva’’ sembrava dire. ‘‘Solo perché sono più forte e più uomo di te’’. Al college, eravamo membri della stessa confraternita, e sebbene non fossimo mai arrivati a essere intimi, io ho sempre avuto l’impressione che mi stimasse e mi volesse dimostrare il suo affetto con la sua tipica, un po’dura e provocatoria malinconia.
Parlammo qualche minuto sulla veranda soleggiata.
«Ho trovato un bel posto qui» disse, con gli occhi dardeggianti di irrequietezza.
Circondandomi con un braccio, mi fece voltare e mi indicò il panorama che avevamo davanti, incluso il giardino all’italiana, digradante rispetto al livello del prato, un ettaro e mezzo di rose vivacemente odorose e un motoscafo la cui prua rollava al largo sopra la marea.
«Era di Demaine, il petroliere» e mi fece voltare di nuovo, bruscamente, ma con cortesia. «Andiamo dentro».
Camminammo attraverso uno spazioso corridoio, in un ambiente dipinto di un rosa