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Sulla collina: 50 storie di pandemia
Sulla collina: 50 storie di pandemia
Sulla collina: 50 storie di pandemia
E-book196 pagine2 ore

Sulla collina: 50 storie di pandemia

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Info su questo ebook

Ispirandosi liberamente alla Spoon River di E.L. Masters, l'autore costruisce un percorso composto da 50 ministorie in cui racconta, con pudore e tatto, altrettante biografie di chi il Coronavirus l'ha affrontato con coraggio pur dovendosi poi arrendere. Sono storie trasversali, senza un apparente filo logico se non quello di aver contratto il maledetto virus. Dagli USA all'Italia, dalla Francia al Camerun, passando per il Pakistan e il Belgio, cinquanta differenti punti di vista e altrettanti scorci di umanità di una piccola parte di coloro che ci hanno lasciato. Un omaggio agli uomini e alle donne, ai giovani e ai meno giovani che se ne sono andati in silenzio. Il ricavato del libro sarà interamente donato in beneficenza.
LinguaItaliano
Data di uscita15 giu 2020
ISBN9788868512866
Sulla collina: 50 storie di pandemia

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    Anteprima del libro

    Sulla collina - Giampaolo Cassitta

    momento.

    INTRODUZIONE

    Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,

    l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?

    Tutti, tutti, dormono sulla collina.

    Uno trapassò in una febbre,

    uno fu arso nella miniera,

    uno fu ucciso in una rissa,

    uno morì in prigione,

    uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari,

    tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

    Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,

    la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice?

    Tutte, tutte, dormono sulla collina.

    Ho incontrato Edgar Lee Masters grazie a Fabrizio De André e, a quel punto, ho finito per amare entrambi. Mi resi subito conto – e questa volta il merito è di Fernanda Pivano che scoprì, grazie a Cesare Pavese, il poeta statunitense – che le rime rivisitate dal cantautore genovese erano state praticamente riscritte. De André aveva reinterpretato quelle strane e cupe storie e, attraverso le sue parole e la musica, ne ha poi ridisegnato l’anima. Il disco diviso in due parti (l’invidia e la scienza) è un condensato di rara bellezza e di scrittura altissima. Ci sono passaggi che son diventati piccoli classici imparati a memoria da molte generazioni e divenuti dunque anch’essi poesia.

    L’album, uscito nel 1971, lo ascoltai per la prima volta nel 1973. Avevo quattordici anni ed erano i tempi – per me e per la mia generazione – di Baudelaire, Rimbaud, Barthes, Pasolini.

    Quel disco rivoluzionava i miei punti di vista, rimetteva insieme I fiori del male, Le ceneri di Gramsci e gli elementi di semiologia.

    Gettai tutto all’aria e cominciai a credere che la linea demarcata da Fabrizio De André fosse quella più bella: difficile e maledetta, intima e intensa.

    Ridisegnare le storie e, soprattutto, poter scrivere di persone poco famose, alcune brutte, altre bellissime, invidiose e invidiate, poeti sballati, ubriaconi, puttane e circensi, figli di Caino e di Giuda, gente dimenticata ma non da dimenticare. Era la mia nuova scelta e da quel disco è nata la curiosità per un certo tipo di vicende e di persone.

    Sono oramai convinto che i miei racconti, le storie, i romanzi che sono stati pubblicati partono tutti dal crinale della collina dove c’è chi è stato ucciso in una rissa e chi è uscito già morto di galera. In quella infinita sponda laica ci sono – e ci saremo un giorno – tutti: quelli morti per errore, chi per aborto e chi per troppo amore, chi è stata uccisa in un bordello e chi è perita per uno strano male. Sulla collina, ci sono i milioni di soldati caduti in mille battaglie e con inutili medaglie, ma soprattutto c’è Jones, il suonatore. Sono oramai convinto che molte mie storie siano il risultato dell’idea magnifica di Lee Masters, quando scrive del suonatore ripreso da De André: Per Cooney Potter una pila di polvere o un vortice di foglie volevan dire siccità, a me pareva fosse Sammy Testa-rossa quando fa il passo sul motivo di Toor-a-Loor.

    Si scrive per raccontare mondi e si scrive per raccontare punti di vista. Si scrive perché è importante, necessario, tirare fuori da un semplice vortice di foglie il ricordo più bello di una donna per la quale, magari, ti sei innamorato. Scrivere è metafora, è simbologia, è bellezza. E, per dirla con De André, scrivere è anche suonare per tutta la vita.

    Non al denaro non all’amore né al cielo, insieme all’Antologia di Spoon River, sono stati sul mio comodino per anni e ancora oggi ascolto quelle canzoni e rileggo la raccolta di poesie abbandonandomi a quel vortice di polvere. Ho sempre creduto che, partendo da piccole storie, sia possibile raccontare momenti fantastici della vita di una persona. Non è vero che non li abbia vissuti, ma è verosimile che potessi viverli. Così, come Lee Masters, che guardando croci sulla collina ha saputo rianimare persone estrapolandole da una vita a volte intensa, a volte piccola, insignificante, triste e maledetta, ho pensato che tutti gli esseri umani debbano essere racchiusi in un libro che racconti la loro storia originale, personale, unica e comunque fantastica.

    Diceva Umberto Eco che laddove non puoi teorizzare devi narrare. E non è detto che si debbano costruire biografie precise. D’altronde, neppure i Vangeli raccontano una verità provata: è più probabile che la narrazione, in certe parti, abbia modificato alcuni assetti reali e abbia lasciato qualcosa alla fantasia. Tutto ciò che non si può sapere si può immaginare. Vale solo nella Letteratura, ma è il punto più bello e più intenso di chi scrive storie. Ci siamo abituati a ritenere che Renzo e Lucia, per quanto li abbiamo letti e amati, siano realmente esistiti e si siano comportati davvero in quel modo. Siamo davvero convinti che quell’Addio ai monti, presente nei pensieri di Lucia, sia davvero più o meno quello che voleva esprimere la nostra eroina? Siamo davvero sicuri che il colonnello Aureliano Buendía, davanti al plotone d’esecuzione, avrebbe ricordato quel pomeriggio remoto in cui suo padre l’aveva portato a conoscere il ghiaccio? E, ancora: siamo davvero così certi che il commissario Montalbano pensi tutto ciò che Camilleri gli ha suggerito per anni?

    Ogni morte è un dolore per qualcuno e ha un peso specifico diverso.

    Tuo padre, tua madre, tuo fratello, la persona amata, sono perdite terribili che determinano una lunga elaborazione del lutto dalla quale se ne esce dopo moltissimo tempo. Ci sono delle morti che ci colpiscono – quella di un papa, di un attore, di un cantante, di un poeta – e morti che ti inorridiscono, come un omicidio efferato, un attacco di terrorismo, la caduta di un aereo, un gravissimo incidente stradale. Siamo portati a rifletterci, a credere che quella sia una grave perdita, ma poi ci rendiamo conto che in questo incredibile mondo tutto continua a girare.

    Non avremmo mai immaginato di trovarci dentro questo strano vortice di polvere che più che ricordarci la gonna di Jenny ci ha catapultato in uno di quei strani film catastrofici che andavano per la maggiore negli anni Settanta (ricordo di aver visto ai miei tempi – e un po’ me ne vergogno – Airport ’75). Non avremmo mai immaginato di contare i morti in uno strano pallottoliere digitale a forma di mondo, a controllare i pallini rossi che in maniera esponenziale e a una velocità vorticosa aumentavano e divoravano città, regioni, nazioni, continenti. Il conteggio non è finito e saranno molti, troppi, quelli morti per Coronavirus. Siamo stati, per giorni, in attesa di un bollettino che ci informasse sullo stato dei decessi del nostro paese e non ci siamo resi conto che ogni giorno, per giorni, settimane, mesi, morivano dalle trecento alle cinquecento persone. Era come se fossero caduti tre dc-9 Alitalia al giorno.

    Tutti i giorni.

    Ma dopo il primo stupore ci siamo come anestetizzati. I morti sono tanti, troppi.

    Solo in Italia supereremo le quarantamila vittime e saranno più di 350.000 nel mondo. Come se sparisse una grande provincia italiana in poco meno di tre mesi. Un’immensa Pompei divorata da una lava silenziosa e invisibile. Ecco, Pompei è stata un’altra metafora che mi ha portato a riflettere attonito e vicino alla collina. La morte sul colpo, come si usa dire, è quella che non ti dà spazio, non ti concede di salutare nessuno. E questi morti hanno avuto anche la sfortuna di non essere accompagnati nell’ultimo viaggio dai propri amici, parenti, dai loro amori. In un attimo, sono spariti e sono diventati numeretti e cerchietti rossi in una mappa terribile e maledetta.

    Per un periodo non avevano neppure nomi. Come se fossero appestati, dannati, reietti. Come se fosse, in qualche misura, una loro colpa essersi infettati ed essere deceduti contagiando anche altri. Dopo qualche settimana, alcuni quotidiani hanno cominciato a scrivere i nomi accompagnati da una foto e una brevissima biografia.

    Da quei volti, da quelle piccole storie, è nato questo strano lavoro, questa breve ricostruzione di vite che non sono vere ma verosimili. Di tutti i personaggi descritti, ne ho conosciuto uno soltanto ed è, sciaguratamente, il primo morto registrato in Sardegna. Non posso affermare che ci frequentassimo assiduamente. Abbiamo passato molte serate nel suo locale, con il mio editore Riccardo Mostallino Murgia e l’editor Patrizio Zurru, a discutere di molti libri, di alcune idee tra le quali la possibilità di far nascere un’agenzia letteraria che sarebbe poi diventata Stradescritte.

    Ecco, questa raccolta nasce dall’esigenza di colmare le storie di molti e non solo del nostro caro birraio Carlone, ma di donne e uomini che questa vita l’hanno vissuta e valeva la pena di essere ricordata.

    Molti obietteranno che ciò che ho scritto non sia vero in quanto sono solo costrutti fantastici del tutto personalistici e quelle persone non avrebbero mai pensato ciò che leggerete. L’obiezione è legittima ed è la trasposizione di un pensiero razionale. Però – e passatemi il termine –, ciò che è accaduto in questi mesi ha sconvolto in maniera forse indelebile il modo di vivere e di socializzare degli esseri umani, tanto che rimarranno tracce anche nelle future generazioni. Ciò che è accaduto va oltre la razionalità e diventa scrittura, racconto; la Storia si tramuta in Letteratura e i personaggi, per quanto reali, davanti alla scrivania dello scrittore entrano nella trama e nella ricostruzione fantastica, dove si miscela il vero con il verosimile, un po’ come hanno fatto – e ovviamente esagero con gli esempi – Manzoni con Lucia, Márquez con Buendía e Camilleri con Montalbano.

    La Letteratura serve per aggiustare la realtà. Non credo che le biografie rappresentino ciò che il personaggio sia stato o abbia creduto di essere per davvero: la biografia è il punto di vista di chi scrive con l’aggravante che, a volte, si vende come verità.

    Queste storie che leggerete sono il condensato di tutte le esistenze.

    Sono solo cinquanta – meglio: quarantanove più un’ultima corale, degna della tragedia greca – e sono partito da nomi, paesi, mestieri, amori. Nessuno di loro ha mai meditato, detto, fatto ciò che ho descritto ma, proprio come nell’Addio ai monti di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla riva destra dell’Adda¹, mi piace credere che tutti si possano riconoscere in questi piccoli ritratti rimuginati e scritti nelle lunghe giornate di Coronavirus.

    Alessandro Manzoni, I promessi sposi, capitolo VIII.

    PRECISAZIONI

    Tutte le storie partono dalle tracce apparse per molti giorni sul quotidiano La Repubblica.

    Sono partito dalle scarne biografie pubblicate e reperibili anche on-line sulla rubrica tracce.

    Ho altissimo rispetto per i morti (tutti i morti) e pertanto mi scuso con i parenti se, magari, troveranno questi brevissimi ritratti non corrispondenti alla realtà del loro caro. Il mio voleva essere (ed è) un regalo quasi metaforico e, perché no, poetico per tutte quelle persone che ci hanno abbandonato per aver incontrato sulla loro strada il Coronavirus. Voleva essere (ed è) una riflessione non sulla morte (troppo scontata) ma sulla vita, su ciò che a volte facciamo e pensiamo, su ciò che vorremmo o potremmo ritenere.

    Ogni persona ha una storia che gli altri intravedono soltanto. Noi non siamo quelli che tutti quotidianamente osservano: siamo più complessi e sicuramente diversi. Noi siamo ciò che non diciamo, che non vogliamo che gli altri vedano. Ecco: noi siamo un sogno, un sospiro, un abbraccio, qualcosa di infinitesimale rispetto all’Universo ed è stato davvero un onore, per me, poter raccontare, poter costruire un quadro che non ha la pretesa di essere la vera storia ma solo una raccolta di piccole fotografie, degli autoscatti, delle semplici pennellate sulla tela enorme dell’esistenza. Quindi questo è solo un lungo racconto che ognuno di voi può interpretare come crede.

    Se amate una rockstar, un attore, un personaggio politico, non lo amate soltanto per ciò che ha cantato, per ciò che ha recitato, per ciò che ha detto; lo amate anche per ciò che avrebbe potuto cantare, recitare o per ciò che avrebbe potuto ancora dire.

    Quando riusciamo a enfatizzare qualcuno significa che è divenuto leggenda. Ho voluto forzare la mano e provare a costruire una piccola fiaba intorno a persone solo in apparenza normali. Ognuno di noi è una bellissima isola che ascolta e si nutre del rumore del mare e aspetta che le onde possano trasportare qualcosa con cui sopravvivere.

    Per concludere: tutte le citazioni all’inizio di ogni storia sono tratte da Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, nell’edizione tradotta da Fernanda Pivano.

    Enzo Lucarelli, 45 anni.  

    Pozzuoli, Italia.

    Io chiusi gli occhi, e li sentivo vibrare.

    Ho sempre amato l’ambulanza. Quel segnale acustico che squarcia il rumore del traffico, che cammina ansimante tra occhi che scrutano e si riempiono di angoscia. Ho sempre creduto che quella sirena sia importante, ed è fondamentale che abbia via libera, perché un giorno quella sirena potrebbe suonare per noi. L’ho amata perché quel rumore è vita, desiderio. La paura, semmai, è incontrare un’ambulanza muta: significa che non è necessaria. Ecco perché, fin da bambino, mi sono posto come traguardo

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