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Racconti di inizio novembre
Racconti di inizio novembre
Racconti di inizio novembre
E-book134 pagine2 ore

Racconti di inizio novembre

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Info su questo ebook

Quello che novembre occupa nel ciclo dei mesi è un posto particolare: è il momento in cui le ombre dell’autunno si allungano tanto sui paesaggi reali quanto su quelli interiori dell’uomo, presagio di una stagione di buio e di distacco. È il momento in cui le riflessioni su se stessi diventano più profonde e intimamente affilate, nel tentativo di soddisfare una sopraggiunta necessità di tracciare ineffabili bilanci di un percorso esistenziale.
I protagonisti dei sette delicatissimi racconti di Lidia Mingrone sono tutti molto diversi tra loro: dalla piccola Eugenia, bambina dall’intelligenza prodigiosa sulla soglia di una svolta importante, al maturo Sebastian, uomo solitario e analitico, ma improvvisamente sorpreso dalla propria fantasia; da Benny, costretto nell’immobilità nel corpo ma di estrema dinamicità nel pensiero, a Armando, che ha attraversato quasi tutta una vita a cui ora può ripensare con serenità. Ad accomunarli, la particolare sensibilità che dispiegano nelle loro storie intense di umanità e di ascolto di se stessi e del mondo che li include e li pervade.
Un senso di esiziale ineluttabilità permea le pagine di Racconti di inizio novembre. Nell’autunno dell’esistenza, infatti, nel medesimo modo che in quello del mondo, la luce diviene via via più breve: paure, perdite, rimpianti e solitudini si affastellano. Un pensiero vertiginoso e malinconico, sì, ma proprio da esso emerge, in tutte le storie, il desiderio, anzi la necessità, brillante e incontenibile, di aderire profondamente alla vita, nelle sue complesse e sfuggevoli trame, e di esporsi senza riserva a essa.
Una scrittura sfaccettata, ma sempre leggera e raffinata, che non si risparmia nel trasmettere un messaggio formidabile: ogni istante di vita è un dono da assaporare.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2019
ISBN9788832925548
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    Anteprima del libro

    Racconti di inizio novembre - Lidia Mingrone

    Casacalenda

    L’altra parte della luna

    Albert… quanto peso pensi possa sostenere l’anima umana, quanta rabbia, quante delusioni, amore felicità, rimorso, colpa, senso di fallimento… quanto… Tu lo sai Albert, tu sei l’altra parte di me, del mondo, sei dentro quel maledetto specchio che mi guardi e ammicchi con quel mezzo sorriso ironico, senza alcuna pietà. Certo, tu mi metti di fronte a tutte quelle cose che non voglio vedere, mi costringi a farlo. Maledetto sapientone, sei finto, tu non esisti, sei solo uno sputasentenze inappropriato e fastidioso… un grillo parlante.

    Sto scherzando Albert, ho bisogno di te, ti prego, rispondimi… quanto posso arrivare a sostenere senza crollare in mille frantumi, senza dovermi sentire così inadeguata a me stessa, senza tornare a visitare quei luoghi antichi che mi fanno paura. Sai, a volte mi sembra che ci sia un posto privilegiato per me, a volte mi sento come protetta, mentre tutto intorno sa di terrifico. Altre volte è proprio questo senso di me che mi fa paura. Penso che non possa esserci posto peggiore in cui stare. Dentro se stessi.

    L’animo umano ha capacità infinite, grandi risorse, luoghi inesplorati che a volte fanno paura. L’animo umano può essere così forte da fare paura a se stesso. Può vincere mostri e conquistare le vette più alte... e poi, può amare, sa farlo... se non mente a se stesso. Può odiare, ma l’odio lo distrugge, come la vendetta, la noncuranza, l’invidia e tutte quelle cose che non ci fanno essere parte di noi. Ma sai, a volte si può anche spezzare… quando non ci si riconosce, quando non veniamo riconosciuti e nemmeno allo specchio riusciamo a trovare la nostra immagine riflessa, coerente con quella che crediamo essere l’immagine di noi. Vedi? Neanche tu ti trovi in questo momento... non ti riconosci, ti cerchi ma non sai più dove sei finita.

    Sofia... piccola presuntuosa, tu guardi in questo specchio e vedi me, perché non hai il coraggio di vedere te stessa, perché non ti sai trovare e perché è di me che in questo momento hai bisogno, io rappresento quella parte di te che forse vuoi essere, che forse sei davvero o che forse non vuoi riconoscere… quella parte fastidiosa e ridondante nel suo continuo rimuginare sulla vita... da me vuoi risposte che io non posso darti. Ma tu, Sofia… dove sei finita tu?

    Che sguardo curioso che hai stasera… cosa vorresti sapere, quanto la tua anima è in grado di reggere ancora? Tanto, forse tutto! Prova a dirmi quanto ha sostenuto la tua povera e affamata anima fino a questo momento. Tu puoi dirlo? Quanto… tu lo sai definire? E poi, quanto vuoi sostenere? Chiedi alla tua anima, quanto vuole sostenere, in nome della ricchezza cui non sa rinunciare... chiedilo a lei!

    Non lo so, non ci ho mai provato; so che nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma… me l’hai insegnato tu, l’hai insegnato a tutta l’umanità… è il principio della conservazione, che ci preserva dal distruggere noi stessi e quanto ci circonda, ma non sempre è così, presuntuoso che sei, anche tu più di me, forse non tutti hanno capito cosa volevi dire… forse nemmeno io me lo so spiegare tanto bene. Io lo leggo a modo mio, io penso che non ci sia nulla d’impossibile… anche se poi cado sotto il peso delle mie stesse inclinazioni. Solo che ora mi trovo di fronte a qualcuno che non sono io. Tutte le mie certezze, le mie sicurezze, poche, e anche le insicurezze tutto quello che pensavo di sapere di me, del mondo, della vita… tutto vacilla. Tutto ora naviga nel caos.

    Cos’è quel ghigno che hai sulla faccia. Sembra che tu sappia cosa sto dicendo, sembra che tu possa vedere, sentire il peso della mia anima, da dietro quello specchio… ogni tanto compari, anche quando non ti chiamo, anche quando non mi aspetto di vedere quegli occhi curiosi e indagatori, quei capelli scompigliati e protesi verso l’infinito, quella lingua provocatoria e infantile. Tagliente.

    A volte mi spaventi sai? Devi avvisarmi quando arrivi, che so, fai prima qualche rumore, tossisci, chiamami per nome… troviamo un suono, una melodia qualcosa che mi faccia capire che stai per comparire ai miei occhi. Che so, bussa allo specchio, fai una risata.

    Ecco, lo sapevo… sto diventando matta…

    Tutte le malattie che ho sfiorato nell’arco della mia vita, si stanno materializzando prepotentemente. Tutti i disturbi che ho curato nei miei pazienti, ora li trovo appiccicati alle pareti della mia coscienza. Parlo con un’immagine al di là dello specchio che non sono io. Proprio io, che non ho avuto l’amico immaginario neanche da piccola, possibile che lo debba avere ora?

    Rispondimi… quanto posso andare avanti a stipare il magazzino della mia coscienza di emozioni e di immagini, prima di crollare sotto il loro peso?

    Quanto deciderai tu… solo tu lo puoi sapere...

    Silenzio… fai silenzio ora. Sento il rumore di un pensiero che rimbalza tra le pareti della mia testa.

    Ora vedo un paesaggio che volge alla sera. Colori dai contorni sfumati, un calore che volge all’umido della sera, un sole disciolto all’orizzonte, quasi a spalmarsi sui campi lontani. Vedo una bambina che si rifugia nel silenzio, fra campi di erba tagliata dall’odore familiare, nascosta solo dal proprio respiro, ferma nel rumore del vento. Accucciata e raccolta su se stessa. Ripiegata sulla vita. Gli occhi verdi a cercare movimenti nell’aria. La paura. E il rifugiarsi in essa. Quella bambina non vuole tornare a casa, vuole restare lì, nel suo mondo lontano dal mondo. Quasi a lasciarsi assorbire dalla natura, dalla notte, dal tempo che non ha tempo per aiutarla a crescere, a lottare, a difendersi. Il sole si è fuso con l’orizzonte, ne è diventato parte e alimento. La luna sta diventando accogliente, la sua luce traccia il cammino verso il cielo. La bambina vuole perdersi. Cammina con passi fragili ma determinati, sicuri, lenti. Si allontana dal mondo, si distanzia dai suoi rumori che diventano suoni sordi di una vita che non le appartiene, rumori fatti di silenzi assordanti, di voci ovattate, di grida senza risposte, di mani che strappano la vita, sesso mai decifrato, amato, voluto. Cammina senza guardare mai indietro. Raggiunge la luna, cammina a lungo sul suo suolo sabbioso, argenteo e immobile, oltrepassa la linea d’ombra che divide la sua faccia luminosa dal buio dell’eternità e si ferma a riposare. Quello è il suo rifugio, lontano dal mondo, dal quale può vedere l’umanità affannarsi nel continuo rimestio della vita, del dover fare, del dover essere, del non riuscire a raggiungere la meta. Il mondo è così distante, tanto da non sentirne quasi il suono che diventa musica, silenzio e respiro dell’universo. Le stringhe cosmiche vibrano come una chitarra gitana.

    Quella è la sua casa… lì abita lei. È in quel posto che fugge quando la vita non sa proteggerla dalla violenza del destino, dalla sua fragilità, da se stessa, dalle grida dell’anima ferita. Da quel sanguinamento di una coscienza dannata. Lei vive lì, quando oltrepassa il limite dello specchio della vita. Dall’altra parte della luna.

    Albert… dove sei… dove sono io? E dov’è finita quella bambina ora…

    È sempre lì… sei tu quella bambina. Riportala a casa. O non riuscirai mai a ricongiungerti con l’altra parte di te… con l’altra parte della luna.

    Albert… non ti vedo più…

    Sebastian

    Sebastian, sorriso bianco e grande aperto su labbra disegnate. E con strani capelli biondo cenere tendenti al brizzolato, scompigliati e disordinatamente accettabili. I capelli di un pazzo o di un genio. I suoi allievi un po’ lo prendevano in giro per quel taglio indefinibile, facendone caricature che lui conservava gelosamente. Lo facevano ridere.

    Pensava a quanto aveva fatto durante la giornata, ai suoi allievi, alcuni di una capacità intuitiva davvero speciale. Menti sopraffine che aveva la fortuna di annoverare tra gli studenti del suo corso di filosofia. Altri erano così limitati da renderlo frustrato, lo irritavano, ferivano la sua devozione al sapere e rappresentavano uno spreco di tempo. Ecco un altro destino del tempo, divenire tempo sprecato. Questo per lui era imperdonabile. Detestava l’ignoranza. Si domandava come, per alcuni, fosse così irrilevante ricercare il senso delle cose, il tempo che le rende realizzabili, la trasformazione necessaria perché un concetto diventi esperienza e tramite quell’esperienza diventi parte di chi la sperimenta e quindi cambiamento. Sebastian era sicuro che il giorno in cui si fosse fermato, in questa progressione verso l’infinito, sarebbe morto. Morto dentro e quindi fuori. Non c’era altro modo per vivere.

    La sua casa sembrava un magazzino di libri, un’immensa biblioteca di libri polverosi e consunti da chi li aveva sfogliati a lungo. Le sue mani avevano accarezzato tutte quelle pagine, centinaia di volte, per rileggere qualcosa di apparentemente incomprensibile. Pile di libri di fianco alla tv, in cucina, persino in bagno, quelli più leggeri. Inutile dire che gli scaffali ne erano pieni, strabordanti di pagine e pagine di saggezza, o presunta tale. Non era mai stato un essere sociale particolarmente estroverso, le sue relazioni interpersonali erano scarse, volutamente scarse. La sua misantropia lo rendeva diffidente nell’intraprendere rapporti sociali, non ne sentiva la necessità, ma aveva amici fidati e persone con cui amava parlare, pochi, ma esistevano.

    Il concetto di tempo animava in lui la più accesa convinzione che il tempo non esistesse come entità definita, ma che esistessero tempi differenti per differenti parametri comprensibili in una conoscenza più o meno comune. Il tempo appartiene al momento, dilatato o polverizzato nell’irrealizzazione, enfatizzato nell’innamoramento, valorizzato nel sapere guardare oltre le cose ritenute visibili a tutti. Anche la morte aveva un tempo tutto suo. La morte come libero arbitrio. Un ponte abissalmente sospeso tra mondi interni come passaggio obbligato, ma talvolta scelto con lucida consapevolezza; tutto per lui era ancora profondamente sospeso tra mondi interni destinati a non incontrarsi mai, ma forse incastrati uno dentro l’altro come una matrioska, a creare un mosaico di lucide intuizioni inestricabili. La sua mente non si fermava mai, tesseva e ritesseva le tessere di questo mosaico, tra intuizioni e ripiegamenti, alimentata da una genuina curiosità mai scontata e mai risparmiata a favore del comodo vivere.

    Dopo una giornata in università Sebastian era esausto. Gli studenti del suo corso di filosofia lo avevano messo a dura prova. Il tema del tempo, ancora una volta, aveva saturato l’aria, permeando l’ambiente di quel senso di rivincita, di lotta e al tempo stesso di frustrazione nel non saper raggiungere la verità estrema. Sebastian sapeva che quella verità non sarebbe stata mai disvelata, pena la sospensione del tempo stesso, la fine dei giochi, il ristagno della coscienza, che respirava ancora di quella lotta per ingabbiare il tempo in una definizione, in una parola, in un’idea. Una lotta persa ab initio. Aveva la certezza che solo restando sempre

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