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Lo scrittore in erba e altri racconti
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E-book282 pagine4 ore

Lo scrittore in erba e altri racconti

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Avvertenze per l'uso: da non leggere se allergici alla realtà.

Una raccolta di racconti che, un po' cinicamente, un po' romanticamente, ci mostra l'umanità alle prese con drammi comuni. Orazio C. racconta vicissitudini quotidiane, nostre o del nostro prossimo, illuminando poeticamente la crudezza realistica degli eventi. Racconti spogliati da ogni giudizio, personaggi strepitosi nella loro ottusità e storie talmente ordinarie da risultare uniche: ecco cosa vi riserva questo libro. E non solo.
LinguaItaliano
Data di uscita10 dic 2019
ISBN9788835344599
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    Anteprima del libro

    Lo scrittore in erba e altri racconti - Orazio C.

    casa.

    UN CASO DISPERATO

    Scommetto che tutte le volte che vi siete trovati a fissare l’asfalto rovente, vittima del sole estivo, avete pensato che fosse soggetto a evaporazione. Avete pensato che stesse lì a lessarsi e che fossero i fumi della sua cottura a salire dal basso facendo vibrare la striscia d’aria afosa sovrastante, quasi come fosse pece bollente. Ebbene, vi siete sbagliati. I vostri occhi sono stati ineluttabilmente ingannati da un fenomeno di rifrazione. Questo strano effetto è in realtà un’illusione ottica dovuta alla rifrazione dei raggi visivi sul banco d’aria che si trova appena sopra la soglia dell’asfalto. Il calore da esso emanato la rende più densa e ciò la porta a riflettere in modo strambo la luce.

    Val certamente la pena di spiegare questo fenomeno fisico a delle persone meritevoli e ricettive come voi che mi leggete. Purtroppo non potevo dire lo stesso per ciò che atteneva a Gaetano.

    A lui non valeva la pena di spiegare nulla perché la sua percezione della realtà circostante era del tutto personale e infantile; e perché qualsiasi istruzione, indicazione, informazione o consiglio gli si poteva dare, egli non avrebbe mai mancato di elaborarlo a modo suo, seguendo le strane direttrici che delineavano il suo pensiero originale.

    Per meglio spiegarmi, potrei citarvi ad esempio quella volta in cui gli fu detto che, se non voleva incorrere in una multa o vedersi sequestrare il motorino, allora bisognava che indossasse il casco. Naturalmente non lo fece e, al primo posto di blocco, dovette dire addio al relitto di ciclomotore che lo portava a spasso da qualche tempo: il Piaggio Sì che un tempo era stato blu e che si era scolorito al punto da ricordare il grigio cenere. Dopo questa immane perdita, Gaetano o Tano, come tutti lo chiamavano in paese, sostituì il catorcio con un altro residuato bellico, ma stavolta scelse un mezzo a ruote coperte: un Ape Piaggio agonizzante e rugginoso.

    Ebbene, Tano, imparata la lezione, indossava immancabilmente il casco ogni volta che lo guidava, convinto di sventare così qualunque tiro sinistro la legge potesse mai usargli. Hai voglia a spiegargli che non era affatto necessario ripararsi la testa a quel modo quando si conduceva un mezzo dotato di tetto e vetratura. Nessuno riusciva più a distoglierlo da quella sua ridicola convinzione e quindi se ne andava in giro col casco in testa, suscitando l’incredulità degli automobilisti che lo incrociavano e l’ilarità di coloro che lo riconoscevano.

    Potrei, ancora, raccontarvi di quando, avendo egli saputo dalla TV che Osama Bin Laden (da lui chiamato Billà) era finalmente stato catturato e ucciso, ed essendogli stato spiegato che il corpo non sarebbe stato mostrato al pubblico ma lo si sarebbe gettato in mare, decise di partire alla volta della Playa di Catania per urlare contro Billà tutta la sua indignazione. Non era stato possibile fargli comprendere che il tutto si sarebbe svolto in terre lontanissime e per lui irraggiungibili. Cercate dunque di immaginare quest’uomo piccolo, esile, rubizzo come una pesca nettarina, che, in preda a un’inspiegabile concitazione montava sul suo Ape Piaggio, indossava un inutile casco e viaggiava per una buona mezzora alla deprimente velocità di crociera di 25 Km/h alla volta del braccio di mare più vicino – il lido catanese – urlando come un forsennato, da dentro il casco, il peggiore degli epiteti che secondo lui potesse mai essere rivolto a chiunque sia: Curnutu! E lo ripeteva solerte ogni volta che i tre ragazzacci che erano montati sul cassone dell’Ape per accompagnarlo in quella sua ridicola impresa, lo esortavano a inveire contro il già defunto Billà, al semplice scopo di sganasciarsi dalle risate alle spalle dell’ex terrorista e del povero Tano, insignito tanto spesso della qualifica di scemo del villaggio, non senza ragione.

    E come non citarvi quel giorno che, in pieno mese di maggio, si rifiutò categoricamente di andare in paese a comprare dei detersivi per conto del suo principale, perché aveva paura di scivolare con l’Ape sulla neve. Il fatto è che non era in corso alcuna nevicata, né probabilmente ve ne sarà mai stata una nella piana di Catania a primavera inoltrata, e ciò che egli scambiava per neve non era altro che la lanugine dei pioppi in fioritura, portata a spasso dal vento. Non ci fu verso di farlo ragionare o di tranquillizzarlo e si rifiutò di effettuare la commissione nonostante le bestemmie e le minacce del principale.

    Tano le cose le vedeva a modo suo e le recepiva con una ingenuità fanciullesca e disarmante. Era un caso disperato di stramberia.

    Capite bene, dunque, come fosse del tutto inutile da parte mia spiegargli che quel giorno, mentre guidavo con lui al mio fianco, non vi era nessuna evaporazione dell’asfalto. Lui insisteva nel dire che c’era troppo caldo e che la strada si stava sciogliendo. E quando finalmente arrivammo, prima di scendere dalla mia macchina, poggiava con grande circospezione, uno alla volta, i suoi piedi per terra, nel timore che gli si sciogliessero le suole delle scarpe. E che scarpe! Portava sempre e solo scarpe di tela blu con intersuola bianca, tranne nei giorni di grande pioggia, durante i quali tirava fuori gli stivaloni da giardinaggio in gomma verde. E tutto quello che posso dirvi riguardo al resto del suo abbigliamento potrebbe benissimo essere riassunto da un’unica parola: jeans.

    Gli ci vollero un paio di interminabili minuti per sincerarsi che l’asfalto non stesse bollendo davvero e che le sue scarpe non si sarebbero cotte, mentre io, impaziente e snervato, cercavo invano di convincerlo a sbrigarsi. Dove stavamo andando? Giusto, ve lo dico subito: a casa sua.

    Dopo la disgrazia, e dopo essere stato finalmente scarcerato perché innocente, Gaetano si trasferiva e passava sotto la tutela del Servizio Sanitario Nazionale che fino ad allora non aveva mai avuto notizia della sua esistenza sul pianeta Terra. Il mio compito, animato da mera filantropia, era dunque quello di aiutarlo a raccattare i suoi pochi averi e per questo motivo lo avevo accompagnato a casa sua. Per la verità la parola casa potrebbe essere considerata inappropriata nella fattispecie, dal momento che Tano viveva dentro un autobus. Sì, un vecchio autobus scassato e inutilizzato da decenni, parcheggiato nello spiazzo in cemento che funge da deposito per l’azienda di trasporti nella quale lavoravamo insieme, costituiva di fatto la sua abitazione. Con il consenso del principale, si era stabilito in quell’automezzo, dopo aver smontato tutti i sedili, averlo dotato di un letto, un vecchio divano, un tavolino, una cassettiera sgangherata, un cucinino a gas.

    Un lungo filo nero fuoriusciva dal capannone dell’azienda e gli garantiva l’approvvigionamento di corrente elettrica per poter alimentare un paio di lampadine, le due stufe a resistenza che servivano a scongiurargli l’assideramento in inverno e il climatizzatore da appartamento che era appeso al lunotto posteriore del vecchio bus e gli consentiva di sopravvivere alle lunghe e torride estati siciliane. Per la verità lì dentro c’era anche un televisore, collegato a una parabola sul tetto, ma, a detta sua, l’aggeggio veniva usato molto poco dal giorno in cui Mediaset aveva licenziato Emilio Fede. Per Tano era stato un duro colpo non poter più seguire il suo idolo e, il fatto di non conoscere il motivo del licenziamento di Fede, gli causava non poco turbamento, tanto che era solito guardare il televisore, da spento, con una certa diffidenza animalesca. Era come se fosse diventato una scatola foriera di disgrazie e come se temesse che anche lui potesse far la stessa fine di Fede ed esser liquidato all’improvviso. Il bagno non c’era sul bus e per le sue esigenze, Tano, utilizzava le toilettes presenti nel capannone aziendale, anche per potersi lavare. Questa sistemazione improvvisata che a noi uomini civilizzati potrebbe apparire quantomeno fatiscente, era più che soddisfacente per Tano ed egli non si rendeva nemmeno conto di come essa costituisse un’ulteriore forma di sfruttamento da parte del principale che aveva in tal modo in Tano un inserviente, un commesso, un operaio e, giocoforza, anche un custode notturno per l’azienda e tutti gli automezzi. Il tutto gli veniva a costare pochissimo perché Tano non aveva un regolare contratto di lavoro né una vera e propria retribuzione pattuita. Viveva delle elargizioni di Giampiero Peristalsi  per peristalsi si intende la contrazione della muscolatura intestinale ( N.d.A. )  , il principale, appunto. Queste elargizioni erano solo saltuariamente spontanee e più spesso, invece, sollecitate da Gaetano mediante una serie di piccoli dispetti, negligenze pianificate, ritardi appositamente orchestrati allo scopo di irritare il Peristalsi e fargli così intuire la necessità di sganciare qualche soldo. In caso di mancata ricezione di tali messaggi occulti da parte del principale, Tano ricorreva al mimare il gesto del contare il denaro, facendo ritmicamente scorrere l’indice sul polpastrello del pollice della mano destra. E lo faceva sorridendo e accompagnando il tutto con una serie di ridicoli balletti e ancheggiamenti per attirare l’attenzione di Peristalsi, per tormentarlo seguendolo ovunque dentro l’azienda finché costui non cedeva allungandogli una banconota da dieci euro.

    Peristalsi era un uomo bilioso, corpulento e sempre agitato. Si muoveva a scatti, sbuffava spesso d’impazienza, a tratti balbettava, e sembrava sempre in preda a uno spasmo muscolare. Aveva conosciuto Tano da ragazzino e aveva furbescamente trovato il modo di sfruttarne le poche competenze per il suo tornaconto: gli faceva pulire gli autobus e le automobili, tenere in ordine il capannone, pulire gli uffici e lo usava per tutta una serie di commissioni. A me Peristalsi non ha mai suscitato alcuna simpatia, vuoi per la sua estrema tirchieria, o stitichezza mi verrebbe da dire, vuoi per l’antipatica supponenza con cui ha sempre trattato noi dipendenti. E poi non stava un attimo fermo, sudava spesso, e ti faceva girare la testa con tutte le sue movenze spasmodiche e incessanti, come di chi fosse sempre in assenza di equilibrio. Io mi sono occupato della contabilità della sua azienda e di tutto il lavoro d’ufficio per circa cinque anni, prima che tutto cessasse a seguito della tragedia.

    Ricordo che il primo giorno che venni a lavorare per Peristalsi mi fu subito presentato Tano e che egli si rivolse a me dicendo: Ciao, gioia.

    C’è da dire che Tano chiamava gioia praticamente tutti e solo più tardi seppi che ripeteva incautamente questa espressione confidenziale nel rivolgersi alla gente perché era un suo ricordo d’infanzia. Tra le poche notizie che sappiamo sulla sua misteriosa vita, c’è il fatto che venne allevato dalla nonna e che costei lo chiamava spesso gioia. Così, ogni volta che la nonna gli diceva vieni qui, Gaetano, gioia, lui interpretava a modo suo quel termine e si convinceva che fosse una formula da usare con tutti. Per questo motivo, quando vennero i finanzieri a controllare la documentazione aziendale, mentre io li salutavo cordialmente con un formale buongiorno e mi apprestavo a mostrare il registro delle fatture, Tano faceva inopportunamente capolino dalla porta del mio ufficio e ardiva di rivolgere un ciao, gioia al capitano incredulo e spaesato, prima di beccarsi uno scappellotto dal turbinoso Peristalsi che si affrettava a farlo sparire, affinché gli agenti non scoprissero l’illecito rapporto di sfruttamento lavorativo che intercorreva tra i due.

    Sono certo che Gaetano si sia rivolto con un incauto ciao, gioia anche all’autorità giudiziaria, quando venne ingiustamente incriminato per la tragedia avvenuta, e questo gli avrà certamente procurato dei problemi inizialmente, almeno finché la magistratura non si rese conto della singolarità del personaggio.

    Tutte queste eccentricità tradivano chiaramente la presenza di qualche problema in Gaetano, ma mai nessuno si era preoccupato di indagare sulla natura e l’entità dello stesso. Per quanto possa sembrarvi assurdo in un’epoca come la nostra, Tano viveva completamente al di fuori della civiltà moderna: non aveva documenti di identità o di altro genere perché mai si era premurato di farne richiesta, non aveva una famiglia né si sapeva da dove si fosse originata la sua esistenza, non usufruiva di assistenza medica perché mai si era ammalato (o mai si era reso conto di esserlo stato), non aveva avuto alcuna istruzione e, per tutti i suddetti motivi, non aveva mai reclamato alcun diritto. Questo però costituiva in parte una fortuna per lui perché gli consentiva di vivere nell’invidiabile condizione di colui che non aveva doveri. All’infuori delle mansioni affidategli da Peristalsi, che peraltro Tano svolgeva quasi con compiacenza perché lo facevano sentire importante, in barba alla sua condizione di reiezione sociale, egli non aveva né obblighi né vincoli né debiti né esigenze particolari che eccedessero quelle dettate dalla mera fisiologia.

    Ecco che qui bisogna necessariamente soffermarsi sulla sua alimentazione. Tano si sostentava principalmente mediante l’ingestione di cipolline. Chi di voi non ne fosse a conoscenza, sappia che si tratta di street food siciliano: un fagottino di pasta sfoglia cotto al forno e ripieno di prosciutto cotto, mozzarella, olive, cipolle bianche sbollentate e passata di pomodoro. Poiché l’impasto della sfoglia contiene certamente dello strutto e poiché il fagottino viene spennellato con dell’uovo prima di essere infornato, capite bene che non si tratta esattamente di un alimento salutare, né tantomeno di facile digestione. Forse per questo motivo Peristalsi ne aveva ripugnanza e, quando Tano gli chiedeva il denaro necessario per acquistarne una porzione – circa 1,50 euro – egli si contorceva più del solito e la sua faccia ricordava un moto intestinale convulso. Poi consegnava a Tano il denaro quasi schifato e in preda ai suoi soliti tic spasmodici sempre più accentuati. La scena si ripeteva mediamente tre volte al giorno e immaginate voi come possa un uomo vivere cibandosi in tal guisa per colazione, pranzo e cena e concedendosi una serie di spuntini di genere similare. Questi ultimi, in estate consistevano essenzialmente di gelati fior di fragola della Algida e nelle altre stagioni di biscotti Ringo. Per quanto ne so Tano sarebbe dovuto morire molto presto in virtù di una simile dieta o quantomeno avrebbe dovuto ammalarsi. Inoltre non posso fare a meno di chiedermi come sia possibile che la piccola quantità di cipolle contenuta in quei pasti fosse sufficiente a prevenirgli l’avitaminosi e lo scorbuto, non avendo io mai visto Tano ingerire qualsivoglia altra forma di vegetale. Non voglio nemmeno immaginare che razza di alitosi lo avrebbe colto se non avesse avuto la provvidenziale abitudine di ingerire spesso le sue adorate caramelle frizzanti al limone.

    Inutile dirvi che era impossibile tentare di convincerlo a cambiare alimentazione e ricordo che, una volta, insieme ad alcuni colleghi, lo conducemmo presso una gastronomia per pranzare insieme durante una pausa. Di malavoglia, accettò il nostro invito a mangiare una cotoletta con contorno di verdure grigliate e, ultimato il pasto, guardandoci con sfida e senza pronunciare alcuna sillaba, si alzò per andare al bancone, si fece servire una cipollina e la mangiò voracemente, come a volerci ribadire che le sue abitudini avevano subito una deroga occasionale quel giorno ma sarebbero presto tornate fedeli alle origini.

    Vi assicuro che non era affatto semplice avere a che fare con un individuo simile e bisognava armarsi di molta pazienza per accettare le sue fisime e i suoi ritmi di vita. Risultava del tutto inutile mettergli fretta. Se al mattino bisognava sbrigarsi a pulire un mezzo che doveva partire, ma Tano non aveva ancora fatto colazione, era impossibile ottenere i suoi servigi prima che si fosse rifocillato. E bisognava vedere come gustava compiaciuto la sua cipollina mattutina prima di prendere in mano spugna e secchiello, mentre Peristalsi balbettava bestemmie come un ossesso e si contorceva in singulti e movimenti scoordinati. Tutto inutile: quali che fossero le nevrotiche lotte intestine che agitavano i pensieri di Peristalsi, perfino lui doveva piegarsi alla capricciosa flemma di Gaetano e attendere i suoi comodi.

    Al pari di tutto il resto, anche la sessualità di Gaetano aveva ritmi e caratteristiche sui generis e qui vogliate certamente scusarmi se la mia narrazione dovesse adesso degradare sul terreno dell’impudicizia.

    Io purtroppo non saprei dirvi che età avesse quell’uomo assurdo e potrei indefinitamente collocarlo nell’intervallo tra i 35 e i 55 anni senza potervi dare alcun altro riferimento, ma posso dirvi che mi aveva confidato di essersi relazionato con l’altro sesso unicamente attraverso prestazioni sessuali retribuite a cottimo alle più economiche professioniste del mestiere che egli riuscisse a contattare lungo la travagliata arteria stradale che collega il paese all’entroterra siciliano.

    Un giorno mi fece capire di avere una predilezione per una in particolare di quelle sfortunate donne. Lui la chiamava Abbanìsi [cioè l’albanese ( N.d.A. )] e la descriveva semplicemente come bedda gioia, espressione che immagino volesse sottolinearne positivamente le grazie femminee. Ci sarebbe inoltre da dire che questi suoi idilli mercificati si svolgevano con la cadenza regolarissima e inderogabile di tre volte al mese – credo in base a una sorta di misterioso ciclo estrale tutto suo – e avevano un costo irrisorio di venti euro cadauna, essendo il servizio erogato in breve tempo, sul posto, e mediante la sola e unica modalità dell’onanismo assistito. Sappiate infatti che era impossibile convincere Gaetano a indossare un profilattico e questo bastava a precludergli qualunque altra forma di accoppiamento all’infuori di quella descritta. Quando indagai per conoscere le ragioni della sua avversione per i contraccettivi maschili, mi rispose dicendo che aveva visto il macellaio di paese farne uso e la cosa l’aveva sconvolto. Purtroppo intuii che, ancora una volta, Gaetano aveva travisato la realtà perché ciò che egli aveva visto era in realtà il budello utilizzato per insaccare le salsicce, ma decisi ugualmente di non imbarcarmi nella vana impresa di spiegargliene la differenza: sarebbe stata una causa persa.

    Fin qui, capite bene che l’esistenza del buon Tano era piuttosto povera di quei contenuti, quelle avventure o di quei soddisfacimenti complessi che di solito gli umani perseguono e, per di più, essa si svolgeva quasi esclusivamente in un paio di chilometri quadrati di territorio, dal momento che egli non si allontanava mai dalle consuete mete frequentate: l’autobus-casa, il capannone aziendale, il bar, la rosticceria, il supermercato, il rifornimento di benzina, l’ufficio postale e la strada statale in cui si esercita il meretricio.

    Eppure questa esistenza grama e alquanto frugale lo aveva sempre tenuto al riparo da guai e preoccupazioni. I problemi di Tano, infatti, nacquero quando il caso volle scombussolare quel suo speciale equilibrio, presentandogli una fortuna inattesa: mentre puliva l’interno di un pullman appena rientrato da un viaggio di turisti stranieri, si ritrovò tra le mani un portamonete dimenticato. Dentro vi erano circa duecento euro e nessun documento che potesse far risalire alla proprietaria. Quella somma dovette causargli uno straripamento ormonale perché, appena l’ebbe intascata, Gaetano ebbe la felice idea di investirla organizzando il suo primo festino lascivo nel pomeriggio della domenica successiva. Prima di tutto andò a comprarsi una cassa di Pepsi cola aromatizzata al limone, che era la sua bevanda preferita, ma che credo non potesse permettersi spesso o forse il suo organismo reagiva in modo inconsueto a qualcuno degli ingredienti che conteneva e pertanto l’ingestione gli veicolava una forma di sballo a me ignota. Poi montò sull’ Ape e si diresse in cerca dell’Abbanìsi. Ma non si accontentò di avere solo lei, volle ingaggiare anche una fidata collega africana, piuttosto in carne, a sentire i racconti dei testimoni oculari. Il fatto è che fino a quel momento si era limitato a consumare i suoi amplessi in qualche anfratto di campagna lontano dal centro abitato, invece, stavolta volle fare le cose in grande e portarsi la compagnia sul bus. Ma per far questo dovette per forza passare per la piazza principale del paese. E voi riuscite a immaginare le risate dei buontemponi al veder transitare Tano con il casco in testa alla guida del suo trabiccolo insieme a due puttane, una bianca e una nera, accovacciate sul cassone con le cosce al vento e le facce perplesse? Piovvero fischi e smargiassate da ogni dove, ovviamente. Ma la cosa ben più importante fu che il nuovo maresciallo dei carabinieri, Attilio Defecazio, da poco insediatosi in caserma, vide il passaggio di quella grottesca compagnia mentre sorbiva il caffè al tavolo di un bar. Egli si fece una cattiva opinione di Gaetano, non conoscendolo, e credo che lo avesse catalogato col pensiero come una sorta di maniaco sessuale, un erotomane debosciato o comunque un soggetto da tenere d’occhio. Il maresciallo non intervenne in quell’occasione, anche perché non era in quel momento in servizio, ma quando si verificò la tragedia, non ebbe scrupoli nel sospettare Gaetano colpevole e volle arrestarlo immantinente. Purtroppo questo malinteso contribuì a rallentare di molto le indagini che sono tuttora in corso.

    Per dovere di cronaca devo informarvi che il baccanale libertino organizzato da Tano non andò affatto secondo i suoi piani. Alcune teste calde del paese si misero a inseguirlo e, giunti presso il pullman-abitazione, cominciarono a tastare a piene mani le grazie delle signore che lo accompagnavano e a sbeffeggiare impietosamente lui. Sebbene fosse riuscito a chiudersi nel bus con le sue amanti a ore, le urla e gli schiamazzi di quel pubblico molesto che si attardava all’esterno, non giovarono per nulla alla virilità di Gaetano e dunque tutto finì in malora, con il protagonista che in preda a un parossismo insolito urlava forte contro quella gente bastardi! Cornuti! e che dovette rinunciare ai piaceri pregustati pur dovendoli pagare ugualmente.

    Ma ciò che sconvolse del tutto l’esistenza di Tano si verificò qualche settimana dopo. Qui è necessario che io vi informi del fatto che il principale Peristalsi si era da qualche tempo coniugato con tale Giovanna Mesenterio [per mesenterio si intende l’organo che congiunge l’intestino tenue alla parete addominale posteriore ( N.d.A. )], una procace e voluttuosa lucana, decisamente più giovane di lui. Un bel giorno, la signora Mesenterio in Peristalsi, si presentò per la prima volta in azienda per conferire con il marito. Nessuno di noi dipendenti la aveva mai vista prima e tutti rimasero stupefatti nell’apprendere che una così avvenente donna potesse essersi legata sentimentalmente a un individuo come il nostro principale. Mi duole ammettere che il nostro contegno, all’apparizione della citata bellezza, fu tutt’altro che signorile e che ci furono dei mormorii, qualche fischio inopportuno, un occhiolino malizioso e degli ammiccamenti che certamente non sono degni di probi gentiluomini. E di certo non costituiva una giustificazione il fatto che non fossimo a conoscenza dell’identità della signora al suo arrivo. Come avrete certamente già intuito, colui che si fece maggiormente notare per manifesta impertinenza fu il solito Tano che, dapprima apostrofò la signora con l’espressione abbanìsi, gioia – cosa che immagino costituisse una sua associazione mentale freudiana tra la sensualità della nuova arrivata e la concupiscenza abitualmente evocatagli dalla sua prostituta preferita – e successivamente si spinse a commettere un atto osceno del quale non lo reputavo capace. Era sempre stato

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