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C'è un sole che si muore: Racconti gialli e neri da Napoli e dintorni
C'è un sole che si muore: Racconti gialli e neri da Napoli e dintorni
C'è un sole che si muore: Racconti gialli e neri da Napoli e dintorni
E-book245 pagine3 ore

C'è un sole che si muore: Racconti gialli e neri da Napoli e dintorni

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Info su questo ebook

Napoli - con i suoi vicoli, i suoi sotterranei, i suoi leggendari ed esoterici misteri; e gli psicopatici naïf, i killer della camorra, i piccoli e grandi addetti all’illecito - è una città che sembra mostrare il suo volto più nero anche in pieno giorno. Col caldo, poi, la gente impazzisce, e allora anche la circostanza più banale e fortuita può diventare teatro per un vero e proprio spargimento di sangue…
C’è un sole che si muore mette insieme undici tra i migliori autori di “giallo napoletano”: dai curatori Diana Lama, Premio Alberto Tedeschi-Giallo Mondadori nel 1995, tradotta in sette Paesi e Paolo Calabrò, autore dei Gialli del Dio perverso, a Sibyl von der Schulenburg, vincitrice dei Premi Luzi e Pannunzio nel 2015 e Francesco Costa, dalle cui opere di narrativa - pubblicate con i principali editori italiani - sono stati tratti ben due film (uno con Angela Luce; l’altro, L’imbroglio nel lenzuolo, con Maria Grazia Cucinotta). Una raccolta di racconti inediti che intende colmare una lacuna attualmente presente nel noir nostrano: parlare finalmente non solo di quella Napoli-capoluogo che ha fatto la fortuna di certo immaginario ormai in buona parte stereotipato e da cartolina, ma delle tante città, campagne, coste e delle periferie, pur esse intrise di quella lingua, di quella mentalità, di quel modo d’essere tipico e unico: la “napoletanità”…
Patrocinio speciale per questa pubblicazione da parte di NapoliNoir - Associazione di scrittori fondata oltre dieci anni fa con l’obiettivo di promuovere l’aggregazione e il confronto tra gli autori del giallo d’area napoletana - qui presente in maniera massiccia, oltre che nei curatori, con le firme di Luciana Scepi, cofondatrice e presidentessa emerita, e di Ugo Mazzotta, premiato autore che scrive tanto per la carta quanto per la televisione.
A chiudere il volume Diego Lama - con il racconto “La casa triste”, prima sua pubblicazione dopo il romanzo d’esordio - vincitore del Premio Alberto Tedeschi Giallo Mondadori per il 2015.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita3 ott 2016
ISBN9788863363463
C'è un sole che si muore: Racconti gialli e neri da Napoli e dintorni

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    C'è un sole che si muore - Paolo Calabrò

    SOTTO L’OMBRELLONE

    di Diana Lama

    Sotto l’ombrellone, di nuovo. Come ogni estate.

    Checchina sospirò.

    Certo questa estate non era come le altre.

    L’ombrellone era sempre lo stesso, di tela un po’ consumata a spicchi verdi e bianchi. Per Gigino la roba doveva durare. La qualità rende. Meglio spendere qualcosina in più, e poi utilizzarlo per dieci o quindici anni.

    Anche il pezzo di spiaggia era sempre lo stesso. Venivano in quell’angolo sperduto del Cilento da più anni di quanti potesse ricordare, ma il fitto era buono, la casa carina, due camerette con angolo cottura e balconcino assolato, perché rischiare l’avventura in qualche posto di mare chiassoso, costoso e affollato?

    I vicini erano sempre gli stessi, o per lo meno appartenevano comunque allo stesso tipo. Famiglie multiformi e composite, con almeno due nonni ansiosi che affettavano l’anguria, un moccioso in pannolino, due poco più grandi che si picchiavano, un adolescente, maschio o femmina ma ugualmente imbronciato, e un papà seduto sulla sdraio, con la pancia pelosa in bella vista, che leggeva il giornale sportivo fingendo di non conoscere i suoi parenti.

    Le madri non c’erano mai: creature pallide e stressate che preferivano rimanersene in santa pace nei loculi vacanzieri con la scusa del dovere cucinare/lavare/stirare. Tutto meglio che parcheggiarsi ore e ore sulla spiaggia rovente insieme a pargoli, coniuge e genitori o suoceri.

    Checchina poteva capirle, davvero riusciva a capirle. Anche se sotto l’ombrellone lei era sempre stata unicamente in compagnia di Gigino.

    Non avevano avuto figli, loro.

    Per fortuna, diceva Gigino, e lo diceva spesso. Il sottinteso era che avrebbero potuto somigliare a Checchina. Lei non si offendeva, non era proprio cattiveria, la sua. Era solo, come si dice? Sprovvisto di empatia. Pare che anche i serial killer non abbiano l’empatia. Però Gigino, almeno che lei sapesse, non aveva mai ucciso nessuno.

    Forse le sarebbe piaciuto averne.

    Figli cioè. Un maschietto urlante con la paletta in mano, come quello davanti a lei sulla battigia, impegnato a gettare pietre verso le teste della gente nell’acqua. O come quella femminuccia col costumino rosso che si era appena fatta la cacca addosso. Dove era la sua mamma? O la mamma del bambino con le pietre?

    Dormivano di certo beate, sotto un ombrellone lontano, o preferibilmente in qualcuna delle piccole case di vacanza sul lungomare, con il ventilatore acceso e il grembiule unto appallottolato per terra. La bimba sedeva sulla sabbia e strillava, la faccia rossa come il costume, e il maschietto prima o poi avrebbe fatto male a qualcuno. Checchina sentiva l’ansia montare, si sentiva irrequieta, voleva alzarsi, intervenire, fare qualcosa. Si trattenne a forza. Meglio restare sotto l’ombrellone. Era più sicuro. E comunque nemmeno i nonni e i papà sembravano accorgersi di ciò che stavano combinando i bambini, quindi perché avrebbe dovuto preoccuparsene lei?

    Dopotutto forse Gigino aveva ragione: niente figli, tante seccature in meno.

    Checchina sapeva bene che lui la considerava una seccatura fin dal giorno in cui l’aveva sposata. Le aveva fatto vedere una definizione, una volta, sul giornale, donna ad alto mantenimento. Troppe pretese, in sintesi.

    La lavatrice, le vacanze, addirittura l’idea folle di prendere la patente. Il desiderio di una gravidanza che le scoppiava dentro come un bubbone malefico ogni tanto. Ormai era tardi, come diceva Gigino si era fatta vecchia, il rischio di uscire incinta non c’era più.

    Vabbè che poi…

    Non è che ci fossero state molte occasioni di uscire incinta, ma di questo con Gigino lei aveva sempre evitato di lamentarsi. L’ommo è ommo, e la femmina deve fare la femmina, zitta e muta.

    Mai stata loquace, del resto, lei. Anche per questo sulla spiaggia non faceva amicizia con facilità.

    Però le sarebbe piaciuto.

    Attorno era tutto un brulicare di chiacchiere e risate. Grassi e magri, pallidi e abbronzati, vecchi e giovani, tutti ugualmente rilassati e felici di essere finalmente in vacanza. Si guardò intorno cercando di ignorare il dispiacere. La gente si scambiava spicchi di frittata di maccheroni grandi come quaderni e contenitori pieni di pesche affettate e ghiacciate. Ancora un po’ e avrebbero cominciato a girare i bicchierini di plastica col caffè già zuccherato, poi qualcuno avrebbe tirato fuori le carte, per organizzare tornei di burraco o di briscola. Checchina non sapeva come, ma erano diventati già amici fraterni, anche se si erano incontrati per la prima volta su quel pezzetto di spiaggia.

    Come ogni anno, attorno al loro ombrellone invece si era creata come per miracolo una zona di sabbia desertica, dove non si avventurava nemmeno il bambino più fastidioso.

    Gigino aveva un modo tutto suo di scoraggiare le persone invadenti.

    Lei non sapeva giocare a carte, ma si sarebbe accontentata anche solo di sedersi vicino e guardare. Nessuno però la invitava, e d’altra parte non se lo sarebbe aspettato. In tanti anni Gigino aveva fatto passare a chiunque la voglia di fare amicizia con loro.

    Quell’estate per certi aspetti era differente, certo, ma alla fine sarebbe andato tutto come al solito, e lei avrebbe trascinato le giornate sulle pietre calde aspettando che calasse la sera per tornarsene a casa.

    Di fare il bagno non se ne parlava nemmeno.

    Checchina non sapeva nuotare. Gigino aveva sempre considerato una pretesa ridicola e azzardata quella di andare oltre la battigia. Bastava sedersi sulle sedioline di plastica rossa, fatte per durare anni e anni, con i sederi quasi affondati nella sabbia e i piedi a mollo nell’acqua. Per lei non era del tutto rilassante, anche perché Gigino masticava bestemmie verso qualunque bambino si avvicinasse troppo, e il rischio di un litigio con qualche genitore era sempre alto.

    Si chiedeva adesso come avrebbe sopportato le due settimane di vacanza, senza poter parlare con nessuno, parcheggiata sotto l’ombrellone a spicchi verdi e bianchi, con la mano aggrappata alla mazza per non farla volare via.

    L’ombrellone era piazzato male, e anche questo era colpa di Gigino, ma lei non poteva lamentarsi.

    Per fortuna, almeno vento non ce n’era. Aveva scavato un po’ con le mani, poco, per sistemare meglio le pietre, ma il risultato non era un granché. Prima di sera ci avrebbe provato di nuovo, ma adesso no, era stanca, aveva caldo e le stava venendo una botta di depressione.

    Ma tu guarda! Quel tipo abbronzato e in forma era venuto a stendere il suo pareo proprio vicino a lei, nella striscia di nessuno che in genere non veniva oltrepassata dagli altri bagnanti.

    Si vede che era uno nuovo del posto. Per fortuna che Gigino non c’era!

    Che bello il pareo, lilla chiaro con i gechi neri, proprio alla moda. Le sarebbe piaciuto possedere un pareo così.

    L’uomo si accorse che lo stava sbirciando e le sorrise con una chiostra di denti bianchissimi sul viso cotto dal sole. Non era tanto giovane, suppergiù della sua età, stimò Checchina, ma atletico, con tutti i muscoli ben delineati. Al lobo sinistro gli scintillava un orecchino. Non aveva nemmeno un pelo su tutto il corpo. Cercò di non soffermare troppo lo sguardo sui suoi pettorali che luccicavano al sole. Aveva anche degli anelli d’argento sulle dita. Grossi, proprio belli.

    Per fortuna che Gigino non l’aveva visto. Checchina si sentiva male solo al pensiero dei suoi commenti ad alta voce, degli sputi sulla sabbia, delle oscenità sempre più esplicite! Quel tipo carino e beneducato sarebbe scappato via di corsa, come gli altri.

    Però la sua vicinanza era il segnale tangibile che quell’estate era diversa dalle altre.

    Erano arrivati il giorno prima.

    Viaggio lungo, sotto il sole cocente di mezzogiorno perché Gigino preferiva viaggiare in contro-tendenza. Aria condizionata no, perché gli faceva male alla cervicale. Per lo stesso motivo non le aveva permesso di aprire nemmeno uno spiraglio di finestrino. E sempre per la sua cervicale, tutti i bagagli li aveva portati su da sola, comprese le padelle di ghisa, quelle che lui preferiva. Un piano solo, scalini ripidi, ma era abituata a portare carichi pesanti. Con la cervicale di Gigino non si poteva scherzare.

    Appena in casa Checchina aveva dovuto provvedere a una energica disinfettata. I germi degli altri erano sempre in agguato, dal punto di vista di Gigino. Anche se era un po’ stanca conosceva i suoi doveri, e si era affaccendata a lisoformizzare per bene bagno, cucina e tutte le stanze compreso il terrazzino.

    Dopo forse avrebbe gradito un po’ di riposo, magari una passeggiata, un gelato, ma non era possibile. Gigino non considerava iniziata ufficialmente la vacanza senza la parmigiana. In macchina aveva caricato otto chili di melanzane, ed era tacito che lei si mettesse a friggere. Non si era fatta pregare perché, se contraddetto, Gigino aveva la mano pesante.

    Così aveva fritto melanzane fino a sera, preparato il sugo, tagliato il fior di latte a tocchetti, grattato il parmigiano e lavato il basilico, mentre lui prendeva il fresco sul terrazzino. Non le dispiaceva nemmeno, così stava da sola con i suoi pensieri.

    In realtà Checchina non amava le vacanze, perché quando Gigino era in ferie stava con lei tutto il giorno, in casa o sulla spiaggia, oltre il limite del sopportabile. Friggeva melanzane e pensava a settembre, quando finalmente sarebbero tornati a casa, il marito avrebbe ricominciato a lavorare e lei sarebbe rientrata nel solito tran tran. Tutto il santo giorno in casa a pulire, lustrare, stirare e cucinare, ma Gigino lontano fino a sera. Faceva il commesso in un negozio di vernici, orario lungo, il padrone antipatico e quando tornava a casa era sempre di malumore. Però gli veniva sonno presto.

    Si era alzato un refolo di vento che arrivava dal mare, era piacevole.

    I bambini giocavano a palla con i piedi nell’acqua, ridendo e facendo chiasso. Ancora una volta pensò che l’assenza di Gigino era davvero una fortuna. In genere appena vedeva un bambino e una palla gli scattava qualcosa nel cervello, come la pezza rossa con il toro, e cercava di attaccare briga.

    C’erano anche un paio di nuvolaglie in cielo, che si spostavano velocemente. Le seguì con trepidazione, facendosi schermo con la mano. Era meglio se rinfrescava.

    Il tipo abbronzato stava cercando di accendersi una sigaretta parandosi dal vento. Sorrise e le offrì il pacchetto. Lei scosse la testa cercando di non sembrare scandalizzata. Gigino non le aveva mai permesso di fumare. Però ricambiò il sorriso, timidamente, e lui le strizzò l’occhio, poi soddisfatto fece qualche tiro guardando verso il mare.

    Checchina si rilassò, sistemandosi un po’ più comoda sulle pietre. Appoggiò la schiena contro l’ombrellone che si inclinò pericolosamente. Accidenti! Lo sapeva che era piantato male!

    Si mise in ginocchio e cercò di sistemarlo meglio. L’uomo gettò la sigaretta e si alzò per aiutarla. In genere lei non dava confidenza agli sconosciuti, ma questa estate sembrava che tante cose stessero cambiando.

    Il tipo era robusto e impugnato il bastone con forza lo piantò più a fondo nella rena imprimendogli un energico movimento rotatorio. Checchina lo guardava col fiato in gola. Profumava di lozione al cocco, e le sue mani abbronzate erano belle, anche con tutti gli anelli. Se Gigino lo avesse visto così vicino a lei avrebbe fatto il pazzo.

    L’ombrellone a spicchi verdi e bianchi sembrava ben saldo adesso. L’uomo ammassò meglio le pietre, lei lo ringraziò compita e tirò un sospiro di sollievo quando lui tornò sul suo pareo lilla.

    Gigino non era geloso – anche perché a chi mai sarebbe potuta piacere lei? – ma ne faceva una questione di rispetto. Che figura ci avrebbe fatto lui con una moglie zoccola che parlava con gli sconosciuti?

    Era rilassante starsene seduta a guardare il mare, senza nulla da fare. Si sentiva soddisfatta, mentre attorno a lei la spiaggia brulicava di vita. Non doveva più reggere il bastone, e se avesse avuto una rivista avrebbe potuto sfogliarla, anche se Gigino riteneva che fossero soldi sprecati. Si perse nella contemplazione dell’acqua placida, senza far caso al tempo che passava. Era stanca, dopotutto aveva dormito poco ed era lì dalla mattina molto presto. Gigino diceva che se uno voleva un posto buono per piazzare l’ombrellone se lo doveva guadagnare, arrivando prima degli altri. E mandava avanti sempre lei.

    Il simpatico vicino era appena andato via, in compagnia di un amico biondo con i calzoncini verde pistacchio. L’aveva salutata facendo ciao con la mano, magari sarebbe tornato l’indomani. Proprio belli, tutti e due, con la pelle liscia e tonica, e senza peli. Gli uomini pelosi sembravano tante scimmie. Gigino da questo punto di vista era ben dotato, purtroppo.

    Anche la famiglia poco distante stava raccogliendo palette, secchielli e borse termiche. Le ombre si andavano allungando. I bambini erano finalmente tranquilli, con le faccette arrossate da tutto il sole preso senza protezione. Uno si venne a sedere proprio vicino a lei. Sorrideva assonnato. Checchina avrebbe tanto voluto prenderlo in braccio. Il papà arrivò a prelevarlo, se lo issò su una spalla come se non pesasse nulla e le fece un cenno di saluto andando via. La nonna con le vene varicose sorrise e le offrì un giornale spiegazzato. Lo accettò timidamente. La vecchietta le chiese se il giorno dopo sarebbe venuta. Lei annuì, sopraffatta dalla confusione ma contenta. Stava facendo amicizia! Incredibile quello che succedeva appena Gigino non c’era.

    Che questa estate sarebbe stata diversa il marito glielo aveva chiarito la sera prima.

    Era rientrato proprio mentre lei finiva di accomodare la parmigiana. Aveva chiuso il balcone perché gli era venuto freddo a stare fuori a prendere aria. Lei invece era sudata e accaldata ma non fiatò. Gigino sorrise in quel suo modo un po’ maligno e le disse che aveva una sorpresa. Da quel momento cominciava una vita nuova, perché aveva raggiunto i quarantatré anni di contributi e si era licenziato.

    D’ora in poi sarebbe stato sempre in casa, da mattina a sera. Ma mica a grattarsi la pancia tutto il giorno come faceva lei, che credeva? Eh no! Lui sarebbe stato a controllare che pulisse veramente, e disinfettasse, e non si sarebbe più accontentato di quattro schifezze cucinate, e dei panni stirati alla meno peggio, e delle camicie lavate un giorno sì e uno no, e di tutte le cose che Checchina faceva male e con svogliatezza. Lui sarebbe stato in vacanza per sempre, e avrebbe messo le cose a posto. Avrebbe dato una svolta alla loro vita in comune, lui.

    Checchina gli gettò in faccia la padella piena di olio bollente. Poi lo colpì con il taglio della stessa padella, di ghisa, fatta per durare. Continuò a pestarlo per un certo numero di volte, dieci o quindici, credeva, finché non rimase immobile, ma fu una faccenda pulita, a parte l’olio. Pochissimo sangue.

    Non ci aveva messo molto a rassettare e sistemare Gigino e la cucina. Chi l’avrebbe mai detto? Il sangue era andato via molto più facilmente dell’olio.

    Un problema con il sangue avrebbe potuto però verificarsi adesso.

    Il tipo col pareo lilla era proprio vigoroso. Aveva affondato ben bene il bastone appuntito nella sabbia, calcando con tutto il peso del corpo. Poi aveva continuato a premere e girare, con un vigore anche eccessivo.

    Lei Gigino l’aveva piazzato proprio con cura, in profondità sotto l’ombrellone a spicchi verdi e bianchi. Era arrivata alle cinque di mattina, per essere sicura di non incontrare nessuno e trovare il posto adatto. Le sembrava di avere lavorato con una certa precisione, ma quell’uomo fin troppo gentile forse aveva smosso qualcosa lì sotto.

    Stava calando la sera, ma Checchina decise di restare ancora un po’ sulla spiaggia.

    Si sventolò con il giornale che le aveva dato la nonna. Che gentile! Le sarebbe servito, se l’ombrellone si metteva a sanguinare.

    IN VINO VERITAS

    di Paolo Calabrò

    Avevo giurato di vendicarmi di Fortunato. Non aspettavo che l’occasione.

    Poi arrivò.

    L’occasione, a volte, va evitata. Altre, invece, va colta al volo. L’attesa è stata lunga, la vendetta non può essere improvvisata: se non la si consuma guardando l’altro dritto negli occhi, per poi cavarsela senza danno, non è vendetta. Perciò dev’essere tutto perfetto, in ogni rifinitura; vanno escluse le operazioni spettacolari ma rischiose, quelle per conto terzi e quelle fulminee ma infine insensate, dove l’altro nemmeno si accorge di averci lasciato le penne. C’era bisogno di un’idea. C’era bisogno di un piano. C’era bisogno di pensare.

    Tempo ne avevo. Quando possiedi un bar, passi praticamente tutta la tua giornata a pensare: prima o poi le cose da fare – sempre le stesse, un giorno dopo l’altro – diventano meccaniche al punto che non presti loro più nessuna attenzione. Servi al tavolo e pensi. Prepari il caffè e pensi. Pulisci il bancone e pensi. Ai fatti tuoi. Perfino chiacchierare con qualche cliente, fare una battuta, salutare all’ingresso e all’uscita, diventano operazioni automatiche. Per alcuni è la soglia della pazzia: rimangono lì a rimuginare senza sosta su quello che hanno sentito alla televisione la sera prima, e finiscono per diventare intolleranti; semplicemente brontoloni, se sono graziati. A me invece è andata bene: il bar è stato la mia salvezza.

    Stacco. Come al cinema, quando all’improvviso una scena si tronca e – dopo un attimo di nero – ne comincia una nuova, così torno dai miei ricordi alla realtà. Dal giorno alla notte, in questo caso. Io, sudato, per il calore e lo sforzo, finalmente seduto; tutt’intorno un silenzio irreale, spaventoso; e lui che mi chiede:

    «Dove siamo?»

    Non ho mai amato tanto la calda notte d’estate.

    Dicono che per affrontare al meglio il tuo nemico devi conoscerlo il più possibile. Sembra una banalità, ma chi ci è passato sa bene che non lo è. La vendetta, infatti, richiede anche la naturalezza. Una sola minaccia pronunciata rovinerebbe l’opera, metterebbe l’altro sull’attenti e trasformerebbe tutto in un duello. La vendetta è un’altra cosa. Tutta-un’altra-cosa. Lui deve seguirti spontaneamente, se possibile con gioia, magari semplificandoti il compito: insomma, conoscerlo non serve solo a capire dove è più vulnerabile; aiuta a rendere tutto naturale al punto giusto. Dovunque siate, fino a quel momento, vi allontanerete insieme, ché non puoi certo agire in mezzo alla folla; quindi, ridendo e scherzando, ti dirigerai con lui verso un posto dove avrai preparato ogni cosa perché te la paghi; ve

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