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Dieci passi nel buio
Dieci passi nel buio
Dieci passi nel buio
E-book253 pagine3 ore

Dieci passi nel buio

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Info su questo ebook

Persi in un cimitero di paese o caduti giù da un promontorio mentre una strana presenza vi osserva immobile, scene oniriche di cavallette giganti o il più classico degli alberghi infestato dai fantasmi, una bambina con un discutibile senso dell’umorismo o un mostro che ama il sole, un gatto poco raccomandabile o un marito ossessionato, una camera d’ospedale con un piccolo ospite o una simpatica vecchietta in una paesino sperduto.

Dieci piccoli racconti che vi porteranno per mano attraverso un sentiero ricco di storie paurose, macabre e ironiche.

E’ proprio lì! Lo vedete? Lì proprio dietro quella casa diroccata, seguite il sentiero, scende dolce e inesorabile, prendetemi per mano, venite, seguitemi…andiamo a fare due passi, anzi dieci…dieci passi nel buio.
LinguaItaliano
Data di uscita15 dic 2015
ISBN9788891149961
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    Dieci passi nel buio - Felice Castaldo

    migliori.

    QUANDO I MORTI

    SOGGHIGNANO…

    Un racconto di Castaldo felice

    24.01.2008

    Salvatore Esposito stava tornando a casa, il sole calava inesorabilmente nel suo destino quotidiano, dall’altra parte del cielo faceva capolino una luna bianca. L’estate del gran caldo era finita, Ottobre aveva portato le prime piogge e i primi brividi.

    La giornata alla fabbrica di Salvatore Esposito era stata molto faticosa; carte, firme, operai rompiscatole e lamentosi, con tutto che pesava sulle sue spalle. L’azienda era intestata a lui, ogni responsabilità affidata a lui, il cervello che doveva pensare per cento persone. Salvatore Esposito era il direttore della Art-Sana, azienda che fabbricava dei semplici pannolini, non era certo la Fiat, ma dava i suoi bei grattacapi.

    L’uomo dopo quelle lunghe ed estenuanti giornate lavorative tornava a casa stanco, anzi distrutto, ormai viveva per il lavoro, quel ruolo da piccolo imprenditore era diventato un ossessione, anche quando la sera tornava a casa, la sua testa continuava a pensare all’Art-Sana, alle carte, alle firme e agli operai, sempre più rompiscatole e sempre più lamentosi.

    Amelia sua moglie e la piccola Grazia la loro figlia, vedevano in lui un fantasma, una persona assente, un uomo che aveva abbandonato del tutto il concetto di famiglia unita, a volte sembrava che per lui la vera famiglia fosse unicamente la fabbrica. Non un bacio, non una carezza, non una parola, non un sussurro, niente; sua moglie era vedova e sua figlia orfana di un padre assente.

    Una sera Salvatore tornò a casa e trovò un biglietto appoggiato sulla porta d’ingresso, messo lì in bella mostra, sul cartoncino bianco poche parole scritte in stampatello:

    SONO ANDATA A STARE DA MIA MAMMA, GRAZIA LA PORTO CON ME, IN FRIGO HO LASCIATO DEL POLLO FRITTO, NON CHIAMARMI

    2

    Era passata una settimana da quel maledetto giorno e Salvatore non la chiamò, era troppo orgoglioso per farlo, troppo testardo: è andata via lasciandomi solo, non merita alcuna considerazione pensava il piccolo imprenditore, mentre in fabbrica aveva riferito e fatto riferire che sua figlia, insieme a sua moglie, erano andate a trovare i nonni a Perugia. Aveva bloccato l’epidemia prima che scoppiasse, agli occhi dell’azienda lui doveva sembrare un uomo perfetto, felicemente sposato, senza nessun fragoroso scandalo.

    L’auto arrancava lungo la via del ritorno a casa, il cartello Benvenuti a Brusciano provincia di Napoli dondolava pericolosamente a bordo della strada, era un’insegna vecchia di anni, che aveva oltrepassato intemperie e vandalismi di ogni tipo. L’asfalto era sconnesso come ogni strada del sud, le buche e i dossi facevano sobbalzare la piccola auto di Salvatore che ormai conosceva il tracciato a memoria di quella strada scomposta. Ad un tratto la piccola auto iniziò a sputacchiare più del solito, Salvatore provò ad ingranare la marcia inferiore, ma questa non entrò, l’auto rallentò sempre più fino a fermarsi. Salvatore provò e rimetterla in moto, ma la piccola auto non ne voleva sapere di avviarsi, il differenziale è andato pensò. Il piccolo imprenditore sbuffò nel silenzio della macchina e scese velocemente, diede un’ultima occhiata al motore, fingendo di capirne qualcosa e si mise in cammino verso casa, implorando tutti i Santi del cielo.

    Decise di tagliare per i campi, dove vi era una piccola stradina sterrata che faceva da scorciatoia. I piedi camminavano cercando di evitare le pozzanghere di fango, ai lati tra gli arbusti e le terre coltivate si sentivano i suoni degli insetti e lo strisciare di qualche biscia. Salvatore accelerò il passo, girandosi indietro continuamente come se si sentisse osservato. Il tramonto, l’isolamento, il silenzio di quel posto e quei maledetti rumori di sottofondo l’avevano turbato, infastidito, forse anche impaurito; come quando da bambino la sera percorreva la stessa stradina per tornare a casa, in sella alla bici a tutta birra, rischiando ogni sera l’infarto e le cadute, soprattutto quando si trovava al cospetto del cimitero, tappa obbligatoria prima di tornare a casa. Quella stradina tagliava la cittadina di Brusciano per metà, chi la percorreva riusciva a risparmiare un bel po’ di metri, senza dover così fare giri mastodontici per le vie trafficate del comune napoletano. L’unico pedaggio per l’appunto che si doveva pagare, era il cimitero, chiunque avesse fatto quella strada ci sarebbe passato di fronte, era inevitabile come la notte e il giorno.

    3

    Il cancello del cimitero aveva perso il suo impatto, agli occhi del piccolo Salvatore era sempre stato mastodontico, immenso, giganteggiava su tutto e tutti, agli occhi del piccolo imprenditore stanco invece era solo un inutile cancello nero.

    I passi di Salvatore rallentarono, il cimitero era aperto ma sono le 17.30 come mai Giuseppe ancora non ha chiuso? pensò.

    Giuseppe Valmontone era il custode del cimitero, conosciuto da tutti in paese come persona gioiosa e serena, noto anche come lo schiattamuorto; s’intende, come ogni custode di qualsiasi cimitero aveva anche lui le sue stranezze, non aveva la TV o almeno non la guardava, non guidava la macchina ma aveva la patente, vestiva sempre di bianco come un cowboy texano e infine aveva un tic strano: ripeteva l’ultima parola di ogni sua frase.

    Salvatore si fermò di fronte al cancello spalancato, un odore d’incenso mischiato a profumo di fiori pervase le narici dell’uomo; si guardò intorno con curiosità e si rese conto che non vi era parcheggiata nessuna auto, quel posto sembrava deserto, fosse stato ancora bambino sarebbe scappato a gambe levate. L’uomo adulto invece entrò dentro, i piedi affondarono nella ghiaia, emettendo quel suono inconfondibile, come quello dei cereali per colazione. All’interno di quel luogo tutto sembrava zittirsi, gli insetti, i rumori delle auto, i suoni della natura, il vento, all’interno tutto sembrava avvolto in unico e sacro silenzio.

    La bicicletta di Giuseppe Valmontone detto ò schiattamuorto era appoggiata vicino ad una tomba, Salvatore si avvicinò, la targa d’oro appoggiata sul marmo bianco della lapide diceva: Nicola Fratiello uomo generoso e amabile, la foto mostrava un uomo vestito in giacca e cravatta con barba incolta, viso tirato e occhi che sputavano odio.

    I due si strinsero in un abbraccio sincero, si conoscevano da tempo, avevano fatto le stesse scuole, sotto la naia erano stati nella stessa caserma e inoltre per i due funerali dei genitori di Salvatore, lo schiattamuorto aveva avuto un occhio di riguardo, agli Esposito aveva riservato la cripta più bella, per Salvatore aveva voluto dire molto.

    - Come mai ancora aperto? – Chiese il piccolo imprenditore.

    - Oggi c’è stato un funerale Dottore, devo mettere apposto le ultime carte, carte – Rispose Giuseppe.

    - Allora ho ancora il tempo per andare a salutare i miei? –

    Chiese di nuovo Salvatore.

    - Certo Dottore, questo luogo per lei è sempre aperto, senza offesa, offesa –

    - Uuu, sciò, sciò –

    Salvatore iniziò a grattarsi violentemente i gioielli di famiglia

    – Giusè ma fuss’ scemo –

    Giuseppe Valmontone scoppiò a ridere e lo salutò:

    Salvatore emise una risata smorzata, sì il vecchio ha proprio bevuto di brutto pensò. Giuseppe alzò la mano e se ne andò barcollando.

    4

    La cappella degli Esposito era posizionata in zona centrale, all’ingresso una navata in gesso si apriva sull’interno, ai lati due piccoli capitelli disegnati in malo modo, un lucchetto centrale a chiudere la porta a vetri tutta ornata da immagini floreali; c’era un unico aggettivo per descriverla: pacchiana, di classe invece secondo gli Esposito.

    Salvatore prese la piccola chiave e la fece girare nella serratura, entrò con passo svelto e abitudinario, come se stesse tornando a casa. Accese le luci e salutò le foto dei cari con il segno della croce ciao mamma, ciao papà. Si guardò intorno, tutto sembrava in ordine, i lumini, i fiori, le lapidi splendenti, la signora delle pulizie faceva sempre un buon lavoro e Salvatore la pagava bene ogni settimana. La cripta doveva essere perfetta, altrimenti gli altri cosa avrebbero detto, niente crepe, niente scandali. Guardò le foto dei cari e fu sopraggiunto dai ricordi: la mamma che cucinava le lasagne, che gli preparava la merenda, che lo accompagnava a scuola; il padre che ascoltava le partite alla radio, lo portava con se al circolo giù in paese, che lo portava fuori casa lontano dagli occhi della mamma, che lo chiudeva nello stanzino al buio, che prendeva la cintura e lo frustava e mentre lo faceva gli urlava non piangere! I veri uomini non piangono!.

    Con le mani strette in un pugno di rabbia salutò le due lapidi e si allontanò chiudendo a chiave, il sole ormai era sceso dietro le colline e la notte stava sopraggiungendo lenta e inesorabile, nell’aria la temperatura autunnale era scesa più del solito, Salvatore si strinse nelle spalle, è ora di tornare a casa pensò.

    La bicicletta di Giuseppe era ancora appoggiata al suo posto, il cancello spalancato sulla strada deserta, le ombre che si allungavano come artigli, Salvatore si fermò di fronte ad una cripta oh mio Dio è la cappella dei Tortora.

    La porta in ferro era aperta, il buio scendeva lungo le scale, la cripta dei Tortora, la più grande di tutto il cimitero, la più importante. Salvatore la guardò con occhi curiosi, quanti ricordipensò tutto è iniziato da loro. Ma che ci fa aperta a quest’ora, in tanti anni che vengo in questo posto e non l’ho mai trovata aperta, mai.

    Si avvicinò lentamente all’uscio, come un gatto che si avvicina ad una preda gustosa, si guardò intorno ma di Giuseppe nemmeno l’ombra, le scarpe passarono dalla ghiaia del sentiero al cemento della cripta, scese i primi scalini quanti ricordi pensò e il buio lo abbracciò.

    5

    Luigi Tortora era stato il Comandante della caserma dei carabinieri di Brusciano, una persona squisita e stimata da tutti: alto, elegante, con i suoi modi gentili e rasserenanti, un uomo di cui ti potevi affidare e fidare; il paese amava lui e lui era innamorato di Brusciano. La divisa era la sua seconda passione, nessuno in paese l’aveva mai visto con gli abiti civili, qualcuno diceva che la indossava anche la notte mentre dormiva.

    Anastasia invece era sua moglie, donna bellissima dagli occhi chiari, la giovane non era del posto, Luigi l’aveva conosciuta a Rieti durante un congresso, si era innamorato di lei e dopo un anno di fidanzamento l’aveva portata all’altare. La giovane moglie però si vedeva poco in giro, qualcuno vociferava che fosse malata, altri si convissero che quella voce era stata messa in giro dal marito stesso, probabilmente per giustificare l’assenza in paese della bellissima moglie.

    Non vi era però alcuna malattia, semplicemente Anastasia odiava Brusciano, non le piaceva e non le era mai piaciuto quel paese di scimmie come diceva a volte la donna nei momenti di ira. Aveva abbandonato i suoi genitori, i suoi amici, la sua città per seguire quel comandante così affascinante, un uomo di cui ti potevi affidare e fidare; ma la giovane Anastasia non lo amava e non l’avrebbe mai amato, nel cuore di Luigi Tortora c’era spazio solo per lui, nel cuore di Anastasia invece c’era spazio solo per il nostro Salvatore Esposito.

    Il piccolo imprenditore in quel periodo non se la passava bene, aveva dovuto lasciare gli studi di economia poiché la famiglia non riusciva a far fronte alle spese universitarie, anzi con le uniche due pensioni arrivavano a stento a fine mese.

    Così un giorno preso dallo sconforto chiese aiuto all’unica persona di Brusciano che potesse salvarlo da quella situazione; il comandante Luigi Tortora. Salvatore gli chiese un lavoro qualsiasi, qualcosa per poter campare. Il carabiniere lo invitò a cena a casa sua la sera stessa e in quella fatidica serata Salvatore conobbe la bella signora Anastasia, su cui i quarant’anni d’età non sembravano pesare affatto, era ancora più bella di quand’era giovane. Luigi Tortora parlò tutta la serata delle opportunità di lavoro, mentre Salvatore lo ascoltava in silenzio, senza interromperlo annuendo sistematicamente, voleva quel lavoro, ne aveva bisogno.

    Alla fine concordarono per una settimana di attività presso il giardino di casa Tortora, una collocazione temporanea, il tempo di trovargli qualche altra sistemazione sicuramente più redditizia. Così Salvatore iniziò a frequentare la villa dei Tortora, anche se non ne sapeva molto di giardinaggio, infatti ogni mattina prima di andare alla villa, passava dalla nonna per farsi spiegare come potare, annaffiare ed estrarre le erbacce cattive.

    Con il passare dei giorni l’amicizia con la signora Tortora divenne sempre più intima e ben presto sfociò in una relazione extraconiugale. Il tutto aveva l’emblema del classicismo letterario: una donna in crisi, annoiata, lasciata sola dal marito, praticamente le corna erano dietro l’angolo e Salvatore era l’uomo ideale: giovane, attraente e giardiniere, insomma l’amante perfetto per una donna annoiata di mezza età.

    Dopo una settimana Luigi Tortora, ignaro delle corna, trovò un posto fisso al giovane Esposito presso una nuova azienda del posto chiamata Art-Sana, iniziava come operaio, ma a Salvatore andava più che bene. La relazione intanto continuò, ma diventò sempre più rischiosa, Salvatore non era più il loro giardiniere e non sarebbe stato facile trovare una spiegazione con Luigi Tortora, nel caso in cui se lo fosse ritrovato in casa insieme a sua moglie. Inoltre Anastasia diventava sempre più paranoica, aveva paura di essere lasciata dal giovane Salvatore, lo chiamava a casa ogni giorno, voleva vederlo sempre più spesso, era arrivata a chiedergli addirittura di scappare via con lei, ormai era diventata incontrollabile. Una notte d’inverno se la ritrovò sotto casa in vestaglia, con i vicini ad assistere alla scena sbalorditi, lei urlava, sbraitava, convinta che lui avesse un’altra e in fondo aveva ragione, Salvatore aveva iniziato a frequentare una sua coetanea del posto, si chiamava Amelia e da lì a poco sarebbe diventata sua moglie.

    Anastasia era una leonessa ferita, una quarant’enne in crisi di identità innamorata di un ragazzo di venticinque anni, praticamente una bomba ad orologeria. La signora Tortora tornò alla villa inferocita, in mente le vennero le parole della mamma: gli uomini vogliono solo quello e tu devi stare attenta; quando rincasò, prese il telefono e chiamò Salvatore, la telefonata andò più o meno così:

    Il mattino seguente fu svegliato da una notizia terribile, Luigi Tortora e la moglie erano morti in un incidente stradale. Pochi giorni dopo la stradale arrivò alla conclusione del caso, il carabiniere correva troppo e in una curva aveva sbandato andandosi a scontrare contro il guard-rail sfondandolo a tutta velocità, per poi schiantarsi infine contro il muro di una vecchia casa abbandonata, i due coniugi morirono sul colpo.

    Salvatore però sapeva qualcosa in più e la scena se l’immaginava diversamente: i due stavano andando ad una cena fuori città, Anastasia durante il tragitto gli aveva confidato il tradimento, Luigi magari preso dallo sconforto si era dimenato troppo, magari aveva provato ad allungarle uno schiaffo, lei si era appesa alle braccia di lui per respingerlo e aveva girato il volante verso di se, l’auto aveva sbandato e poi… è storia conosciuta.

    Salvatore nei giorni successivi cercò di mostrare totale indifferenza per l’accaduto, anche perché i vicini avevano seguito da dietro le tende la lite tra i due amanti di quell’ultima sera e quindi qualcuno in paese sapeva, ma nessuno parlò e la cosa dopo qualche mese finì nel dimenticatoio, ma nella memoria e nella coscienza di Salvatore quell’incidente permase per sempre.

    6

    Si svegliò di soppiatto, spalancò gli occhi e si guardò in torno ma dove sono? , intorno a se notò delle candele, si alzò dalla sedia dove si era appisolato e si rese conto di essere ancora nella cripta dei Tortora. Immediatamente girò lo sguardo verso le scale e corse nella loro direzione, ti prego fa che non sia rimasto chiuso qui dentro inciampò sul primo scalino andando a sbattere con la rotula del ginocchio sullo spigolo, il dolore fu allucinante cazzo! , alzò lo sguardo e se la trovò davanti: nera, imponente, maligna, bastarda, la porta era chiusa e fuori inevitabilmente si era fatto buio. Il panico arrivò come una scarica elettrica, rimanere chiusi in un cimitero di notte non fa piacere a nessuno, Salvatore si scaraventò verso la porta e iniziò a prenderla a calci e pugni, urlando il nome di Giuseppe Valmontone:

    Ma Giuseppe non rispose, il panico durò ancora qualche secondo, poi lasciò spazio alla rabbia e poi allo sconforto, Salvatore tornò indietro e si andò a sedere di nuovo sulla sedia, doveva pensare, il suo cervello doveva mettersi al lavoro e trovare presto una soluzione.

    sono entrato qui dentro verso le 18.00, poi mi sono seduto sulla sedia e probabilmente mi sono appisolato poco dopo, quell’imbecille di Giuseppe sarà venuto a cercarmi nella cripta dei miei, e non avendomi trovato, avrà pensato che me ne fossi già andato, nel tornare indietro sarà passato davanti a questa cappella e trovando la porta aperta, dato che aveva fatto tardi e aggiungerei anche che era ubriaco, l’avrà chiusa senza controllare dentro e se ne sarà andato a casa.

    Si alzò di nuovo dalla sedia e andò a controllare di nuovo la porta, guardò nella serratura cercando di capirci qualcosa, prese il mazzo di chiavi della macchina dalla tasca e iniziò a provarle tutte, una delle ultime chiavi entrò, Salvatore emise un suono, uno squittio, forse ce l’aveva fatta, stava già pregustando l’incontro con Giuseppe Valmontone, appena lo vedo gli spacco la faccia, altro che amico, è solo un ubriacone, ma ora esco da qui e… , ma la chiave non girò, all’interno della serratura entrava liscia, regolare, senza intoppi, ma quando c’era bisogno di girare all’interno dell’ingranaggio non ne voleva sapere, Salvatore fece ancora più forza e la chiave si spezzò all’interno, la rabbia tornò di nuovo prorompente, iniziò di nuovo con calci e pugni, si dimenava contro quella porta nera, la quale non si muoveva sotto

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