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Il mistero del Gattopardo
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E-book350 pagine8 ore

Il mistero del Gattopardo

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Le indagini della zia Poldi

Un autore tradotto in 7 Paesi
Ai primi posti delle classifiche in Germania

Tra Miss Marple e Jessica Fletcher

È tornata la signora del giallo

Zia Poldi, improvvisata detective arrivata dalla Baviera in Sicilia per godere di sole e riposo, non riesce proprio a trovare la tranquillità che cercava… Dopo un caso di omicidio risolto anche grazie al suo aiuto, una serie di piccoli eventi, apparentemente scollegati tra loro, la convincono che qualcosa non va. Un guasto alla rete idrica, l’avvelenamento del cane della sua amica: Poldi li considera degli avvertimenti nei suoi confronti. Le prime ricerche la portano a sospettare di un produttore di vino, Avola. Ma l’uomo è così attraente che, dopo una notte insieme, Poldi si dimentica quasi dei sospetti che aveva. Almeno fino a quando la polizia bussa alla porta del viticoltore. Nelle sue vigne è stato ritrovato un cadavere. Il commissario Montana non è affatto contento che Poldi possa fornire un alibi a quell’uomo. Ma soprattutto: chi è stato a uccidere e perché? L’intuito di Poldi sarà anche questa volta un aiuto prezioso per le indagini.

«Un giallo eccentrico con una Miss Marple tedesca, dotata di un istinto eccezionale e tanta ironia.»
Chi

«Giordano ha dato vita a una deliziosa detective e a un vivace ritratto della società siciliana.»
The Times

«Spero proprio che ci saranno altri libri di zia Poldi! Questo è davvero fantastico!»

«Non sono riuscita a smettere di leggerlo. Divertente ed eccitante allo stesso tempo.» 

«Emozionante e pieno di avventura, raccontato con grande ingegno!»

«Una serie di grande successo e molto divertente per chi ama il brivido e non ha bisogno di terrore e sangue.»

«La zia Poldi ormai è un marchio: stile fresco, umorismo pungente bavarese, scritto in modo fantastico. Non posso fare a meno di consigliarlo!»

«Giordano è un abile romanziere. L’originalità della trama, i personaggi eccentrici e lo stile vivace rendono la lettura un autentico piacere.»
Mario Giordano
è nato nel 1963 a Monaco di Baviera e vive a Colonia. Scrive romanzi, libri per ragazzi e sceneggiature. Con la Newton Compton ha pubblicato Mistero siciliano e Il mistero del Gattopardo, le prime indagini di zia Poldi, il personaggio che ha conquistato la Germania,il Regno Unito – dove i suoi romanzi sono di grande successo – e l’Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2018
ISBN9788822719089
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    Anteprima del libro

    Il mistero del Gattopardo - Mario Giordano

    1926

    Titolo originale: Tante Poldi und die Früchte des Herrn

    © 2016 by Bastei Lübbe AG, Köln

    Traduzione dal tedesco di Serena Tardioli

    Prima edizione: maggio 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-1908-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Mario Giordano

    Il mistero del gattopardo

    Le indagini della zia Poldi

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 1

    Dove si racconta di acqua, cani, ombre e charmantes e di come la famiglia della Poldi sia in ansia per il suo equilibrio interiore. È la star di Torre Archirafi e ci ha preso gusto a esserlo: il conflitto con Montana è praticamente inevitabile. Ma quando sente risuonare il richiamo dei geni, niente può fermare la Poldi: né la calura, né le piogge vulcaniche, né delle sveve in vacanza.

    Qualcuno non solo aveva staccato l’acqua in tutta via Baronessa, ma aveva anche avvelenato Lady. Sete e omicidio: in altre parole, tutto ciò che mia zia Poldi odiava e che ne destabilizzava l’equilibrio interiore, più della vista di un vigile urbano di bella presenza e dall’uniforme impeccabile.

    Lady era uno degli amichevoli cani meticci di Valérie: una bastardina con le zampe corte, una cagnolina dal pelo arruffato e la mandibola sporgente, a cui piaceva abbaiare. Con il fratello gemello Oscar, scacciava via i ratti da Femminamorta e dava il benvenuto agli ospiti. Praticamente chiunque l’avesse conosciuta le aveva voluto bene, perché donava il suo cuoricino con generosità e bontà a tutti. A ogni visita, quasi impazziva dalla gioia di conoscere nuove persone o di rivederle e il suo continuo scodinzolio aveva persino addolcito i misantropici parenti francesi di Valérie. Durante tutto il giorno, si poteva sentire il richiamo «Lady! Lady!» da chi lavorava nella piantagione di palme di Valérie, e subito dopo la risposta roca ed entusiasta del cane. Finché una mattina il suo corpicino dal pelo arruffato non venne trovato nel cortile, rigido e sporco. Un’esca velenosa, secondo la diagnosi del veterinario.

    Quindi era chiaro che mia zia Poldi, testarda e bavarese com’era, dovesse ristabilire l’equilibrio. Sistemare le cose. Riaprire l’acqua. Trovare l’assassino di Lady. Fare giustizia.

    Tanto più che mia zia – mai dimenticarselo – camminava sul filo del rasoio, in bilico tra la voglia di vivere e la malinconia. Ecco perché voleva almeno che ci fosse ordine intorno a lei: creare ordine l’aiutava sempre a dissipare un po’ gli attacchi di malinconia.

    La Poldi era la vedova di mio zio Peppe, il quale, a differenza dei suoi genitori e delle sorelle Teresa, Caterina e Luisa, non era tornato in Sicilia negli anni Settanta, ma era rimasto a Monaco di Baviera come mio padre. Si può dire che mio zio fosse un monacense in tutto e per tutto. Mi è impossibile non ricordarlo con un boccale di birra in una mano e con una sigaretta Roth-Händle nell’altra. Parlava solamente bavarese e siciliano; non gli riuscì mai di formulare una frase in italiano o in tedesco corretto. Era sempre stato la pecora nera della famiglia, il bello scapestrato con le innumerevoli tresche, le compagnie sospette, le feste scatenate, le cadute di stile, il lavoro in campo cinematografico, gli incidenti stradali spettacolari, i fallimenti e i progetti imprenditoriali stravaganti. In altre parole, il mio zio preferito. Solo il matrimonio con una certa Isolde Oberreiter, detta Poldi, era poi riuscito a fargli tenere i piedi un po’ per terra. Erano una coppia appariscente, il Peppe e la Poldi, snelli come rockstar, fumatori accaniti, beoni, generosi e altruisti e, a detta di mia madre, gli amici più empatici che si potessero immaginare. Ma è stato molto tempo fa. A un certo punto, ricordo, i miei genitori parlarono del fatto che il Peppe e la Poldi avessero divorziato, e non ne sembravano particolarmente sorpresi. L’anno successivo mio zio si risposò e poi morì, e noi perdemmo i contatti con la Poldi. Qualche anno dopo, zia Teresa ci informò che aveva comprato una casa in Tanzania, ma nessuno sapeva altro.

    E poi, di punto in bianco, se ne tornò a Monaco, ereditò la casetta dei genitori, vendette ogni cosa, tagliò tutti i ponti e il giorno del suo sessantesimo compleanno si trasferì in Sicilia, nella tranquilla Torre Archirafi, sulla costa orientale tra Catania e Taormina, dove avrebbe potuto sbronzarsi fino alla morte nella bambagia, con vista sul mare. Era quello il piano. Perché e percome avesse deciso di farlo proprio in quel momento, nessuno lo sapeva. Sapevamo solo che qualcosa doveva essere fatto al riguardo e quel qualcosa includeva anche me, dato che, in ogni caso, agli occhi delle mie zie, ero praticamente disoccupato. Da allora, una volta al mese, iniziai a prendere l’aereo per la Sicilia, dove rimanevo una settimana nella camera degli ospiti della Poldi in via Baronessa 29, passando il tempo a lavorare alla saga familiare che stavo scrivendo e, in più, a prosciugare le scorte di alcolici di mia zia.

    L’assassinio di Valentino, l’incontro con Vito Montana, la sua amicizia con Valérie e la triste signora Cocuzza, gli sforzi delle mie zie e per ultimo, ma non in ordine d’importanza, l’istinto di caccia avevano fatto sì che la Poldi mandasse a monte per il momento i suoi piani con la morte, ma si sa come vanno queste cose: per un po’ di tempo regna la pace, il peggio sembra essere passato, il dado è tratto, il sole irrompe tra le nuvole, lo sguardo è di nuovo diretto in lontananza, all’improvviso fumare torna a essere un’attività piacevole, l’aria è stracolma di vita vibrante, il mondo intero è un luogo accogliente che bisbiglia da tutti gli angoli solo promesse e buoni auspici. Una sensazione semplicemente meravigliosa, chi non la conosce. Ma poi, come se sbucasse fuori dal nulla, zac! Nessuno se lo aspetta: il vento cambia e il destino ti rovescia addosso un secchio di escrementi, facendosi una risata sotto i baffi, indifferente. E tu pensi solo: Cavolo, adesso ho proprio bisogno di farmi un bicchierino. E si ritorna di nuovo al punto di partenza, in compagnia di tutta quella merda.

    Non bisogna dunque meravigliarsi se le mie zie reagirono un po’ allarmate sapendo che la Poldi, a due settimane dal guasto, ancora non aveva acqua corrente e che Lady era stata avvelenata. Non c’era alcun dubbio: il vento era cambiato, il filo del rasoio era diventato ancora più tagliente.

    «Devi andare!», mi disse la mia madrina Luisa al telefono. «Subito».

    «No che non vado», cercai di tirarmene fuori. «Sto lavorando a un progetto superurgente per la televisione. Una serie in prima serata. Un gialletto. Non è esattamente il mio genere, ma potrebbe essere un grosso affare, capisci?»

    «Te lo passo». La mia madrina sospirò e allungò la cornetta alla sorella Teresa, la capofamiglia.

    Era chiaro cosa significasse: fine della discussione.

    Dalla cornetta, sentii la voce di Luisa sussurrare qualcosa in italiano e poi quella di mia zia Teresa, dal tono dolce e ancora giovanile.

    «Come stai, amuri? Stai andando avanti con il tuo romanzo?».

    Sapevo che me l’avrebbe chiesto.

    «Me la cavo », tergiversai. «Ho un buon presentimento al riguardo. Il primo capitolo è quasi finito. Mi manca solo un po’…».

    «Perché ti trastulli», mi spiegò zia Teresa delicatamente. «Quello di cui hai bisogno è concentrarti sulle cose fondamentali».

    Quanto aveva ragione.

    «E nel frattempo potresti tenere d’occhio la Poldi».

    Rimasi in silenzio e la zia passò alla lingua italiana, il che è sempre un segno che la tensione nell’aria si è scaricata.

    «A lei piaci».

    «Che?»

    «In un certo qual modo. Comunque parliamo spesso di te».

    «Ehm, e di cosa?», chiesi con sospetto.

    Zia Teresa svicolò dalla domanda. «Questa cosa della televisione… ti sta a cuore?».

    Colpito e affondato.

    A mezzodì del giorno successivo, atterrai a Catania, mangiai gli spaghetti cu niuru ri siccia di zia Teresa, risposi con coraggio a tutte le domande sullo stato di salute della famiglia in Germania e la sera mi ritrovai già seduto sul divano a casa di mia zia Poldi a Torre Archirafi. E la cosa più strana di tutta la faccenda era questa: mi sentivo come se fossi tornato a casa e vicino come non mai alla stesura del mio disastroso libro di saga familiare.

    «Hai messo su un po’ di pancia», constatò la Poldi, quando mi aprì la porta.

    «Non è vero! Ma grazie, sono felice di essere di nuovo qui».

    Mi accompagnò in casa. «È tanto per dire. Ci sta un po’ di pancetta in un uomo. Halt, non deve essere flaccida, però. Nell’arte e nell’erotismo, è tutta una questione di proporzioni, ricordatelo per il tuo romanzo».

    Ignorai il commento e mi guardai intorno. Una cosa mi rassicurò: il progetto Morte per ebbrezza con vista sul mare sembrava per il momento essere ancora annacquato. Non trovai da nessuna parte nascondigli con bottiglie di liquore vuote, la casa sembrava essere stata appena pulita e messa in ordine, le piante da vaso sulla terrazza erano state annaffiate a sufficienza, il frigorifero era pieno di verdure. Nessun segno di trascuratezza. Ma come dicevo prima, la Poldi camminava sul filo del rasoio, una danza sonnambula sul vulcano. Nemmeno le zie si aspettavano davvero che rimanesse perfettamente sobria da un giorno all’altro, ma in realtà la Poldi non beveva più di una bottiglia di prosecco al giorno, senza contare la mezza Weissbier a pranzo e un caffettino corretto il pomeriggio. Aveva un aspetto fresco e sembrava essere rifiorita. Ogni giorno, tutta bella e profumata, nel fluttuante caffettano di seta dalla notevole scollatura, la parrucca sapientemente cotonata, faceva una passiata su e giù per il lungomare. Il lunedì andava in spiaggia, il martedì accompagnava zio Martino al mercato catanese del pesce, il mercoledì portava zia Luisa a Lido Galatea. Il giovedì aveva il tè con Valérie, il venerdì copulava con il cummissariu Montana, il sabato poi giocava a ramino con la signora Cocuzza e padre Paolo, la domenica andava a volte con Teresa e Martino a raccogliere funghi e, peraltro, si godeva il suo nuovo titolo di celebrità locale, dopo aver risolto in modo spettacolare il caso Candela. Ma cosa dico locale! Addirittura il giornale di Augusta, l’«Augsburger Heimatkurier», l’aveva intervistata al riguardo.

    Per farla breve, mia zia Poldi era in uno stato di grazia. Era la star di Torre Archirafi. Dappertutto la pregavano di fare selfie. Riceveva inviti a nozze. La domenica andava regolarmente a messa da padre Paolo, perché era qualcosa che più o meno la sua nuova posizione sociale a Torre Archirafi richiedeva. Si era procurata anche una Vespa. E non si trattava nemmeno di un modello qualsiasi, bensì di un 125 PX restaurato che mio cugino Marco, molto abile in questo genere di cose, aveva dipinto come un carrettu sicilianu. Aveva riprodotto per giunta il motivo tradizionale dei carri siciliani da asino che, in confronto, fa sembrare persino i tuk-tuk indiani terribilmente monotoni: ornamenti dai colori vivaci, molte cianfrusaglie, una piccola raffigurazione del cavaliere Rinaldo con la bella Angelica e, in questo caso particolare, anche le vicende della Poldi nel caso Candela realizzate a regola d’arte con l’aerografo.

    «Lo so», dissi un po’ geloso quando mi fece vedere la Vespa. «La discrezione è segno di debolezza».

    «Mei, non fare così. Non sono mica uscita di senno. Mi piacciono tutti questi colori. Con la vanità, fei, non ha nulla a che vedere. È solo un riconoscimento alle nostre tradizioni».

    «Nostre».

    «Essere siciliani non è una questione di geni, ma di cuore, ricordatelo. E di questioni di cuore ne so qualcosa. L’ho sempre saputo di essere stata una siciliana in una vita precedente. Eh, sì, sono stata una masai e una siciliana. Lo sento nelle ossa. È anche quello che mi ha detto Katie a Los Angeles».

    «Ehm, di chi stai parlando?»

    «Na, di Katie Hepburn, naturalmente. Aveva il dono, quasi nessuno lo sa. Una donna formidabile. Fuori di testa, ma di buon cuore. Dài, forse un giorno andrò da un’indovina e farò una seduta di regressione, che ne dici?».

    Mia zia Poldi non era una persona che amava menare il can per l’aia. E non era affatto in grado di sopportare la sete e gli omicidi irrisolti.

    Ed è così che iniziano sempre i problemi.

    Ottobre è davvero uno dei mesi più belli da trascorrere in Sicilia. L’estate allenta la sua presa, facendo entrare un po’ di vento in casa, e ti lascia di nuovo respirare. La luce si attenua come il giallo del limoncello di mia zia Caterina ed è di nuovo tempo di portarsi dietro un maglione la sera, in caso di bisogno. Le baracche e le piattaforme di legno sul lungomare di Torre Archirafi si svuotano delle urla dei bambini, delle risate, dei flirt, dei piccoli drammi e delle occhiate segrete sulla pelle abbronzata, come se fossero stati portati via da un turbine di vento fantasma. Ricevi ancora messaggi dalla Germania, perché sono invidiosi del clima. I camerieri nei bar tornano a essere loquaci e sull’Etna cade la primissima neve. Da qualche parte tra Trecastagni e Zafferana inizia la vendemmia e la gente circola nei bar, chiedendo timorosa se c’è ancora della granita di ceusa, gelsi. Insomma, mi piace il mese di ottobre. Ma questo ottobre era diverso: infatti faceva ancora un caldo afoso, come una bolla d’aria incandescente che, con cocciutaggine, opprimeva tutto il territorio, determinata a disseccare anche l’ultima strisciolina di verde. Nel Nord Africa un vento di scirocco si era spostato dal cuore del Sahara, attraversando poi il mare per opacizzare la vernice delle auto e asciugare le gole, e ovunque nella regione divampavano incendi boschivi e scoppiavano emicranie. A peggiorare la situazione, si aggiunse l’attività costante dell’Etna. Per settimane una colonna di fumo alta più di mille metri si erse sopra il cratere principale e tutte le sere si potevano ammirare eruzioni spettacolari e colate laviche. Il Mongibello, il monte per eccellenza, gemeva e sbuffava ogni minuto. Tutti i giorni. Tutte le notti. Un antico saluto cupo dalle viscere della terra che scuoteva i nervi e ti attraversava da parte a parte. Quando lo scirocco si concesse una pausa, a prendere il sopravvento fu l’Etna, lasciando cadere su Torre Archirafi granelli di pietra pomice e cenere vulcanica, che si accumularono in strada e sulle terrazze e si riuscivano a rimuovere solo con le pale da neve. Ancora una volta la Sicilia non rendeva la vita facile a mia zia Poldi. A complicare il quadro, una vecchia corona dentale in alto a sinistra che le pulsava con accanimento le ricordò la visita dal dentista rimandata da tempo. Un doloretto fastidioso, niente di più. Ma poiché la Poldi era riuscita a tenere meglio a bada il suo alcolismo, quel doloretto non poteva più essere risolto con un paio di Martini forti, bensì solo ignorandolo con ostinazione e prendendo mezza pasticca di ibuprofene. Anche con tutto l’impegno possibile, la Poldi non era ancora pronta ad affrontare un dentista siciliano.

    E come se non bastasse, tutti i rubinetti di via Baronessa una mattina si erano prosciugati, sembrando d’improvviso affetti da tosse secca. Di norma non è motivo di panico. A volte dipende dalle tubazioni vecchie, a volte dalla siccità. Solitamente, una tale interruzione d’acqua non dura più di uno o due giorni e, come misura provvisoria, c’è sempre la cisterna blu di plastica sul tetto. Il problema si crea quando l’interruzione d’acqua si prolunga. Magari addirittura per una settimana. Oppure due. O, come in questo caso, persino tre. Un ulteriore problema è quando non si riesce a trovare la causa e anche quando la faccenda riguarda solo una certa via. Cioè la propria. Per un siciliano la questione si spiega da sola: Cosa nostra sta mettendo sotto pressione uno dei vicini.

    Le ragioni possono essere molteplici. Forse il vicino ha bisogno di una spinta per stipulare un contratto di servizio piuttosto svantaggioso. Forse è caduto in mora con i pagamenti di un contratto già esistente e l’interruzione d’acqua è la prima delle due fasi della procedura di sollecito. Prima fase: l’avvertimento appena velato. Seconda fase: atti di violenza rivolti al vicino e alla sua famiglia. A pensarci bene, però, magari gli vogliono solo inviare un messaggio per convincerlo definitivamente a tenere chiuso il becco in un processo in corso. Con esattezza non si sa, ma tutta la via ne soffre comunque. Tanto meglio: così la pressione aumenta. L’interruzione d’acqua è da sempre uno dei mezzi più efficaci di Cosa nostra per esercitare pressioni. Così facendo, dimostra di avere tutta la tua vita completamente in suo potere. Chiunque comandi l’acqua, comanda la Sicilia.

    Da tre settimane la Poldi, come tutti gli altri abitanti di via Baronessa, doveva raccogliere l’acqua in delle taniche dal distributore pubblico del vecchio stabilimento di acqua minerale. Non era un’opzione molto comoda, perché i quattro rubinetti venivano assediati per tutto il giorno da file lunghissime. Quando finalmente toccava alla Poldi, la sua tanica ci metteva un’eternità a riempirsi e poi doveva trascinare quel peso enorme verso casa. O meglio, doveva sollevarlo sulla Vespa. Una tanica al giorno era appena sufficiente per una persona. Fare la doccia, andare in bagno, lavare, cucinare – tutto era diventato complicato. All’improvviso, il corso dell’intera giornata girava intorno all’acqua, il livello d’acqua della tanica era diventato la misura dell’equilibrio interiore e il pieno era solo un momento fugace, un puntino sulla linea temporale.

    «Ho una sete che non ti puoi immaginare», sbuffò la Poldi, asciugandosi la fronte.

    Tuttavia, si rifiutò di farmi il favore di sfilarsi per poco la parrucca.

    «Naturalmente adesso dirai che è solo psicosomatico, e gell, questo lo so anche da me. Però non aiuta, capisci, sto comunque morendo di sete. Ti andrebbe per caso una birra?»

    «No, grazie», mentii. «Ma secondo te, chi è?»

    «Chi è chi?»

    «Il vicino che la mafia vuole mettere sotto pressione».

    La Poldi mi fissò esterrefatta. «Gell, che razza di domanda sciocca è questa? Sono io naturalmente, a chi pensavi sennò? È chiaro come il sole: dopo aver risolto l’omicidio di Valentino, sono finita nel mirino della mafia».

    «Pensavo che la mafia non avesse nulla a che fare con la morte di Valentino».

    «Non direttamente, no. Ma indirettamente, è ovvio che dietro a tutto ci sia Russo. E lo sai chi è? Te lo dico io», sussurrò, «è un boss mafioso, il capo dei capi».

    «Sempre se riesci a dimostrarlo».

    La Poldi mi lanciò uno sguardo compassionevole. «Mei, logicamente sono ancora all’inizio delle indagini. Ma per i mafiosi, i succhiasangue arcicapitalisti e gli assassini di cani ho istinto, ne so qualcosa».

    La Poldi non riusciva a togliersi dalla testa che la morte di Lady e il sabotaggio delle tubazioni dell’acqua avessero un unico scopo: quello di intimidirla.

    «Alla Valérie si è quasi spezzato il cuore. E il povero piccolo Oscar è mogio mogio. Guaisce tutto il giorno per la pena».

    «Ma perché hanno avvelenato solo lei e non anche Oscar?», chiesi.

    «Mi sono posta la stessa domanda. Anche perché quei due erano praticamente inseparabili. Si azzuffavano sempre per accaparrarsi una leccornia. Quindi qual è l’unica risposta logica?»

    «Ehm…».

    «Che Lady è stata uccisa di proposito, ovviamente. E perché hanno scelto lei e non Oscar? Perché era una femmina, ovviamente. Perché doveva essere un messaggio indirizzato a me, capisci?»

    «Non sei un po’ saltata alle conclu…».

    Fece un gesto brusco con la mano. «E se non acciuffo presto quello stronzo, allora anche la vita del povero Oscar sarà in pericolo, te lo dico io. Comunque sia, ho già iniziato a indagare».

    E finalmente ebbi il quadro d’insieme. «Istinto di caccia, eh?»

    «Mei, sei lento a capire. Troppo lento. Willkommen in Sizilien».

    Una cosa era certa: la Poldi ci aveva preso gusto, aveva recepito il richiamo del destino ed era pronta, come suo padre prima di lei, a proseguire sulla strada prescelta della criminologia e della giustizia. La seccatura era solo la totale mancanza di un nuovo caso di omicidio nel quartiere. Il che, combinato con la scarsità d’acqua e la calura, le aveva causato una sete acuta, mal di denti, attacchi terribili di malinconia e una sorta di crisi d’astinenza da criminologia; un tipo di privazione particolare che, secondo mia zia Poldi, colpisce soprattutto i detective in pensione e quelli sospesi. Immaginate un supercervello che va a tutto gas e poi qualcuno all’improvviso pigia il freno. La situazione non può promettere bene.

    «È come essere un atleta professionista che smette di allenarsi da un giorno all’altro. Il cuore non può reggere il colpo. E poi, zac, fine dei giochi. Vedi, ed è proprio quello che accade al cervello di un investigatore quando non c’è niente su cui indagare. Come un cane che non ha nulla da cacciare o con cui giocare. Prima o poi ti sbranerà il maglione. O, nel peggiore dei casi, il braccio di un bambino. E poi cosa mi rimane?».

    A quanto pareva, la Poldi aveva passato le settimane dopo la mia ultima visita a cercare le prove di un legame tra Russo e la mafia, come se fosse una sorta di attività di prevenzione per la salute. Una ricerca ancora vana, ma non c’era da stupirsene, visto che il suo unico indizio era la foto di una carta topografica su cui Russo aveva discusso con Patanè. La Poldi non aveva ancora trovato l’area in questione, ciò nondimeno era convinta che Russo avesse già sentito puzza di bruciato e, staccando l’acqua e uccidendo Lady, avesse provocato inequivocabilmente l’interruzione immediata delle indagini. Se questo non fosse avvenuto, allora sicherer Tod, morte sicura, secondo la logica di mia zia.

    «Ma gell, lui stesso si è reso ridicolo, quel gran signore. Ti sembro una che se la fa sotto quando viene minacciata da un pallone gonfiato di dubbie origini? Ho già visto la morte in faccia, te lo dico io. Lo so già, fei, di essere vicino alla data di scadenza. Ma finché dura, campione, voglio ancora sbizzarrirmi, capisci. Con il Liebe, il crimine e così via. E quando arriverà il mio momento, allora saprò come si lascia il palcoscenico. Cioè, tra gli applausi».

    Perché mia zia Poldi sapeva due o tre cose di Liebe, crimine e morte. Ecco perché stava affrontando le sue indagini sul caso Lady in modo del tutto professionale. Il che significava che chiunque era sospettato.

    «Non hai… un po’ troppo caldo in quel tailleur?», chiesi nel frattempo. «Cioè, con tutto questo caldo boia?!».

    «Baggianate! L’ho fatto apposta. Perché, vedi, un tailleur pantalone blu è il look no fun ideale per ogni donna che vuole concludere un contratto, arrestare qualcuno o uscire con completi idioti di tutti i tipi. Nelle serie americane, lo indossano sempre le scontrose detective latine con la coda di cavallo stretta, non ci hai mai fatto caso? Lo so, non sono il tuo tipo, klar. Perché queste detective latine, gell, non hanno affatto senso dell’umorismo. Basta una stupida battuta e zac: ti ritrovi a terra, un ginocchio ossuto nella schiena e poi senti il clic delle manette».

    «E in più tu hai la tua parrucca. Molto no fun, ho capito».

    La Poldi sospirò e scosse la testa con disapprovazione.

    «E Valérie cosa ha detto di tutta questa faccenda?», chiesi per rimetterla in carreggiata.

    «Mei, che vuoi che abbia detto!».

    «Mon Dieu!». Valérie si schiaffò la mano sulla bocca, quando la Poldi, sudata e ansimante, si lasciò cadere su una delle sedie di plastica in giardino, facendo così scricchiolare le cuciture del vecchio tailleur. «Vuoi dire che tutti sono sospettati? Anch’io?»

    «Tu no, ovviamente, Valérie!». La Poldi sospirò, aprendo con briosità il bloc-notes che zio Martino le aveva regalato da poco.

    Proprio come quelli che hanno sempre i tizi dell’FBI, anche se naturalmente mio zio sapeva bene che Matula, il detective privato della sua serie preferita Un caso per due, non aveva mai avuto bisogno di un bloc-notes per tenere a mente qualcosa. Ma Matula era anche un genio investigativo e Martino non era così sicuro che la zia Poldi lo fosse, soprattutto a causa del suo alcolismo.

    Devo dire che il modo in cui la Poldi mi aveva descritto Femminamorta e soprattutto Valérie aveva proprio acceso le mie fantasie. Mi immaginavo una vecchia casa di campagna intonacata di rosa e circondata da viticci di gelsomino e bougainvillea, con gli arredi polverosi, l’antica biblioteca, le fotografie sbiadite e gli affreschi sgretolati, le palme e il giardino incolto, come un luogo incantato dove il tempo si era fermato. Un piccolo paradiso dove si aggiravano i fantasmi dei nobili borbonici, dove ruzzavano cani amichevoli e dove il fato si compiva. E in mezzo a tutto questo – così me lo immaginavo, di solito di notte – c’era Valérie: cerea, complicata, sensuale e meravigliosa, mon Dieu, come se fosse uscita fuori da un film francese in bianco e nero. Ma anche se Femminamorta era a meno di cinque minuti di macchina da Torre Archirafi, la Poldi non sembrava voler condividere la sua nuova amica e il suo piccolo paradiso con nessuno. Per inciso, ogni volta che le proponevo di accompagnarla lì, trovava un debole pretesto per non portarmi con sé. Non me la sono mai presa con lei – dopotutto, ho diversi fratelli, so cos’è l’invidia – anche perché, in questo modo, la mia immaginazione aveva raddoppiato gli sforzi per creare un luogo magico con una sovrana misteriosa e nemmeno Joseph Conrad o Rider Haggard avrebbero potuto scrivere per me qualcosa di più crepuscolare e superbo. Perciò, pensai solo che fosse giusto e corretto usare le descrizioni della Poldi per il mio disastroso libro. E quando alla fine, dopo molto tempo, imparai a conoscere Valérie e Femminamorta, tutto quadrava con la mia fantasia.

    Valérie aveva avvolto il corpo della cagnolina in un foulard di seta e l’aveva sepolto vicino al torchio per l’uva nella vecchia cantina dismessa. Lì era fresco, buio e tranquillo. Un buon posto per la piccola Lady, che alla fine della sua vita fin troppo breve aveva dovuto sopportare così tanta agonia; secondo il veterinario, era morta in modo atroce, per asfissia. Il veterinario stimò che la

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