L'abbaino
Di Luigi Bosi
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L'abbaino - Luigi Bosi
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Intro
L’esistenza grama di un povero sciancato, " al zzupìn d’la Tosca", che per amore non esita a dare la sua vita. Una storia sempre attuale, piena di fascino e di poesia
L’ABBAINO
Quando morì all’ospedale, alla fine di febbraio di quell’anno che venne tanta neve, Vittorino doveva aver da poco superato la trentina. In un primo momento i medici avevano stentato non poco a mettersi d’accordo sul perché quel ragazzo fosse morto, e a un certo punto avevano pensato pure all’AIDS. Ma poi erano arrivati alla conclusione che s’era trattato d’una banale polmonite, molto grave per la verità, di quelle fulminanti, che in pochi giorni aveva stroncato il povero sciancato.
Ci fu anche non poca confusione al momento del trapasso, quando si mandarono a cercare i familiari e non li si trovarono da nessuna parte. In giro non ci fu un’anima in grado di dire come si chiamasse il giovane che stava per morire, perché il male l’aveva sfigurato e perché in città tutti l’avevano sempre conosciuto come " al zzupìn d’la Tosca", e nessuno sapeva che il suo nome vero era Vittorino.
Il povero cadavere, come del resto succede in questi casi, fu usato ed abusato da uno stuolo di studenti in medicina. Al quinto giorno finalmente venne ricomposto alla meglio in una cassa, messa a disposizione dal comune, e caricato su di un furgone nero per essere condotto al Camposanto.
Fuori ad attenderlo c’era soltanto Ahmed, lì impalato da ore e duro per il freddo, che con pazienza l’aspettava fin dalle prime ore del mattino, perché era ben deciso, è naturale, ad accompagnare l’amico al cimitero. L’autista del furgone, che in fondo era un brav’uomo, fece salire il negro accanto a sé in cabina, se non altro perché non gli facesse perdere del tempo.
Così in pochi minuti arrivarono in Certosa, con un freddo cane che entrava nelle ossa e una nebbia densa che in tutta la mattina non s’era diradata per un solo istante. La galaverna, già dalla sera prima, aveva preso a disegnare i suoi merletti delicati sui rami spogli e sulle poche foglie che ancora pendevano dagli alberi. Ahmed scorse subito la Bianca, là ferma che aspettava e che batteva i piedi per il freddo, quasi congelata. Ne fu felice per l’amico, e con gratitudine salutò la donna.
Quando giunsero al cancello, gli inservienti, senza tanti complimenti, scaricarono la cassa dal furgone e la sistemarono alla bell’e meglio, un po’ di sbieco, su di un carrello sgangherato dalle ruote cigolanti, che doveva portarla in terra consacrata. Terminata l’operazione gli uomini s’avviarono lungo il viale principale, senza preoccuparsi di chi gli veniva dietro.
Ahmed non sapeva cosa fare, se poteva entrare oppure no in quel luogo sacro dei cristiani. Così nel dubbio preferì restare dove si trovava, e guardare di lontano l’amico che s’allontanava. Ma fu contento lo stesso, perché vide che non era proprio solo, che dietro alla cassa adesso c’era la Bianca a fargli compagnia.
Quando gl’inservienti e la donna svoltarono là in fondo, Ahmed s’avviò verso l’uscita con il groppo in gola. Si soffiò più volte il naso, tirò su il bavero della giacca a vento perché adesso gli pareva che facesse ancora più freddo, e infine se ne andò per la sua strada.
* * *
Anche quella giornata di fine primavera stava per volgere al termine, e già s’udivano i suoni della sera. Dall’abbaino che dava dritto sugli ultimi orti cittadini, dalle parti del bastione di San Pietro e delle mura, la luce rosata del tramonto entrava nella piccola soffitta ad allungare le ombre delle cose.
Un