Mi senti?
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Un giorno, grazie agli strani voleri del destino, incontra Perla, la ragazza più bella che avesse mai visto, talmente diversa da lui da incuriosirlo, fino a che non cerca di escogitare un modo per poterla vedere di nuovo.
Durante i preparativi frenetici che avvolgono la città di Aprilia che si addobba in festa per il Natale, un carillon, posato su una bancarella, cattura l'attenzione di Edoardo che lo compra senza esitazione, lo regalerà a Perla.
Quel carillon gli permetterà di capire che nulla non è come sembra.
«Sono molto contento che ti piaccia, non resta che sentire se ti piace il suo suono» dico imbarazzato.
Con movimenti decisi gira la manovella del carillon più e più volte, e per mia sfortuna si è avverato il peggio, il carillon non funziona. E solo in quel momento mi passa per la testa il fatto che non l’ho provato prima.
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Anteprima del libro
Mi senti? - Giorgia O'Hara
Giorgia O'Hara
Mi Senti?
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Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
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MI SENTI?
GIORGIA O’HARA
Troppa realtà uccide la mia fantasia.
Marracash
Prologo
Sono steso nel letto madido di sudore. Il pigiama è attaccato a me come una seconda pelle, lo tolgo di dosso buttandolo in un angolo della camera.
Dalle tapparelle, non del tutto abbassate, entra una leggera scia di luce. Ancora non mi alzo, sono quasi certo che se facessi uno scatto troppo brusco potrei pentirmene. Con un gesto automatico prendo il telefono dal comodino per capire almeno che ore sono; lo schermo, che mi impone di socchiudere gli occhi per la luce troppo forte, segna le nove e quaranta.
Mi obbligo ad alzarmi. La voglia di fare una doccia è più forte della voglia di rimanere sdraiato.
L’acqua fredda mi trafigge la carne facendola sussultare, alzo la testa verso il getto e apro la bocca, ne bevo un po’ spengendo la sete soffocante che mi avvolge.
Con l’asciugamano in vita esco dalla doccia soffermandomi davanti allo specchio. Quello che vedo riflesso è un ragazzo che adesso comincia a piacersi di più, e non intendo fisicamente.
Esco dal bagno, vado verso le tapparelle per alzarle lasciando dietro di me i passi bagnati sul pavimento.
La stanza, ora invasa dal sole, mi fa sentire bene e noto un oggetto che prima non avevo visto, un registratore, appoggiato sul comodino, con sopra attaccato un post-it giallo con su scritto «sì» con una calligrafia che conosco bene; d’istinto premo Play.
Quello che ascolto mi lascia senza parole.
Mi siedo sul bordo del letto trattenendo il fiato.
Si può essere muniti di vista ed essere totalmente ciechi?
Buono come il Pane
C’è una cosa che mette d’accordo chiunque nel mondo, è il pane.
Il pane ha tante divinità e non ha distinzioni di razza o sessualità, possiede tanti nomi e tane forme, ma rimane sempre pane, fonte di vita e sostentamento dell’uomo.
Fare il panettiere, e in aggiunta consegnare e servire il pane a venticinque anni, può non sembrare il massimo, ma non mi lamento, il mio pensiero rimane sempre lo stesso, e lo ripeto come un mantra, «il lavoro nobilita l’uomo.»
E poi, almeno un lavoro ce l’ho e di questi tempi è tanto, tantissimo. Senza contare che non sono di peso a nessuno e soprattutto non dipendo da nessuno. L’unico «difetto» – se così vogliamo chiamarlo – è l’orario, che va da mezzanotte alle otto. Ma credetemi per me non è un difetto, le ore di lavoro sono l’unica cosa che mi salva dal mio «piccolo problema.»
Per le persone i piccoli problemi possono essere i seguenti:
bucare una gomma
scuocere la pasta
mettere il sale invece che lo zucchero nel caffè
non digerire il latte intero
avere il coprifuoco troppo presto
durare poco a letto (ma forse questo è un grande problema)
La lista potrebbe continuare ancora a lungo, questi sono solo i primi esempi che mi vengono in mente, i più banali insomma.
Mentre il mio personalissimo «piccolo problema» mi rende autodistruttivo.
Se chiudo gli occhi vedo ancora l’Edoardo bambino, quell'Edoardo che ancora non riusciva a gestire la situazione, che ancora non riusciva a credere cosa gli stesse capitando e di colpo torno a quella sera.
È notte, la luce della luna entra flebile dalla finestra. Ho paura, non voglio addormentarmi, non lo voglio fare. I miei occhi sono gonfi e sto fissando il buio. Tremo e ho i pugni serrati, poi piango e stringo forte il mio peluche a forma di coniglietto, ormai troppo consumato dai miei abbracci.
La mia cameretta sembra che ogni notte diventi più grande, come se volesse raccogliere dentro le sue mura più persone possibili, e chissà forse anche dei fantasmi e dei mostri, che invece di spaventarmi mi vengono a trovare per ridere di me.
I singhiozzi non sono vani. Entra dalla porta della mia camera mamma – ed ecco che oltre a rivivere la scena risento il suo profumo – il dolore del pianto diminuisce. Si siede accanto a me asciugandomi le lacrime. Che bello il suo sorriso dolce, ma non so se può bastare per farmi stare meglio. Credo che niente potrà farmi sentire meglio al mondo.
«Perché piangi Edo?» mi chiede mentre con un caldo abbraccio mi avvolge, assieme al mio coniglietto.
«Non voglio addormentarmi» le dico spaventato.
Sorrido mentre mi rivedo, perché oggi come allora la paura è rimasta la stessa.
«Ma come Edo? Tu la notte diventi magico, sei diverso da tutti gli altri bambini e questo ti rende speciale.»
Le parole di mia madre non sono state sufficienti a rendermi spensierato.
Purtroppo, i compagni di scuola non la pensavano come lei e la voce si spargeva a macchia d’olio. Era come se avessi una disabilità, come se fossi uno scarto della società, lo zimbello della scuola, uno «scemo» e credo che il più delle volte sono stato chiamato in questo modo.
Vi chiederete come facevano i miei compagni a sapere del mio «piccolo problema»?
Si è venuto a sapere nel modo più comune, ovvero mia madre non ha tenuto la bocca chiusa.
Infatti, quando mi accompagnava a scuola, dopo essersi assicurata che fossi entrato al suono della campanella, andava al bar con le altre mamme a lamentarsi, molto probabilmente dei maestri, e bam il gioco è fatto. È molto facile lasciarsi sfuggire dei segreti durante le chiacchierate mattutine.
Anche se, con il senno di poi, la mia piccola problematica in un modo o nell'altro si sarebbe venuta a sapere. È inevitabile, non si può nascondere una cosa che è parte integrante del tuo stesso essere.
Il dolore che provavo da piccolo nel sentirmi diverso era diventato in poco tempo il mio marchio di fabbrica.