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E questo come la fa sentire?
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E-book315 pagine4 ore

E questo come la fa sentire?

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Info su questo ebook

Stefano non beve, non fuma, non si droga ma mangia. E si fa schifo per il modo in cui lo fa, ingurgitando porzioni su porzioni. Matteo, invece, è un paranoico di prim’ordine, crede a tutto, specialmente alle teorie del complotto e alle grandi cospirazioni delle multinazionali. Sembrano due persone agli antipodi, due coinquilini mal assortiti, eppure una cosa in comune ce l’hanno: sono la stessa persona.
Da circa tre anni, ovvero da quando l’ex-fidanzata Giulia è morta, la vita di Stefano viene scandita da una routine che lo rassicura, che lo tiene ancorato alla realtà. Maria, Tammy, Eugenia, Hella e gli amici di sempre sono i suoi appuntamenti settimanali, insieme a un lavoro di cui poco gli importa. Ma un giorno qualcosa nella quotidianità cambia e nuovi elementi fanno capolino mandandolo in confusione. Ritroverà le sue abitudini? E chi è Anita? Intanto, fuori, il mondo si è risvegliato con una pandemia sconosciuta. 

Giacomo R. Pierini è nato a Livorno nel 1984. Appassionato di letteratura fin dalla più tenera età, sia italiana che internazionale, si è diplomato al liceo linguistico per poi seguire corsi di sceneggiatura a Firenze e Roma. Impiegato presso una ditta di spedizioni, è costantemente impegnato nella stesura di altri romanzi, ai quali si dedica appena gli è possibile.
LinguaItaliano
Data di uscita9 set 2022
ISBN9788830671560
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    Anteprima del libro

    E questo come la fa sentire? - R. Giacomo Pierini

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    Giacomo R. Pierini

    E questo come la fa sentire?

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6349-7

    I edizione agosto 2022

    Finito di stampare nel mese di agosto 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    E questo come la fa sentire?

    Nuove Voci - Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Martedì

    «E questo come la fa sentire?»

    Che domanda idiota. È ovvio come mi fa sentire, ho appena concluso una sfuriata piena di acredine, non è che mi diverta a maledire i miei amici quando sono felice.

    E poi questa storia del lei mi ha stancato. Capisco che si debba tenere una certa distanza professionale, ma quando mi ha salutato in quel ristorante, l’altro giorno, non mi sembrava così lontana da me, anzi, mi pareva proprio che volesse intrufolarsi nella mia vita, più di quanto già non faccia spillandomi soldi in questo studio. Eppure ci conosciamo da anni, dovrebbe sapere che mi disturba condividerla.

    Quando fa così, mi chiedo davvero perché continui a pagarla.

    «Mi infastidisce» rispondo con calma, tenendomi dentro tutti questi pensieri.

    Lei prende appunti e annuisce.

    A cosa non lo so. Che c’è da annuire? Non capisco se sia d’accordo col mio fastidio, se abbia capito tutto della mia personalità schizzata o se, semplicemente, le piaccia far dondolare la testa avanti e indietro come uno di quegli struzzi di plastica basculanti.

    «Ha mai esternato questi sentimenti ai suoi amici?»

    Eccone un’altra.

    Sa, non è un mondo che permette di farlo, non è che uno può andare da persone che conosce da anni e dir loro: Ehi, non mi frega un cazzo di tenerlo, ok?.

    La gente non capirebbe. La gente non capisce mai.

    Sono un disastro, va bene?

    Non saprebbero che farsene di uno che reagisce così.

    Non ho una bella vita come la vostra, forse avrei potuto, ma non ce l’ho… e non mi frega un cazzo di tenerlo!

    Chi potrebbe restare vicino a uno così senza aver paura? Nessuno.

    Perciò abbozzo, abbozzo sempre e mi lascio coinvolgere nelle risatine e nei sorrisini.

    E io sono lì che lo tengo in braccio, non capendo come si fa, neanche dopo il quarto che mi rifilano in tre anni. C’è sempre quel momento di apprensione, in cui ti dicono Ecco, così, oppure Metti una mano là, oppure il più classico Non aver paura.

    Non aver paura? Certo che ho paura, non voglio mica avere sulla coscienza chissà quale disastro.

    «No, non mi sembra il caso» le rispondo fissando la scollatura dietro la Montblanc nera e oro. A occhio e croce costa più quella penna del mio smartphone di ultima generazione.

    Farà domande idiote, ma ha delle gran belle tette. Un po’ in là negli anni, più di quaranta sicuramente, non so se arrivi a cinquanta, ma almeno una decina più di me li ha di certo.

    Una botta potrei anche dargliela. Secondo me ci starebbe anche, ma non qui, qui mi darebbe del lei: mi faccia godere, mi sbatta, mi morda i capezzoli. Sì, secondo me le piace farsi mordere i capezzoli fino a farli sanguinare.

    Mi osserva e abbottona imbarazzata la camicetta, allora la fisso dietro gli occhiali rossi, dietro quelle lenti trasparenti sulle quali si riflette distorto l’intero studio, me compreso. O forse tutto si riflette com’è realmente e sono io quello che lo vede distorto, me compreso.

    «Ha paura che si risentano?» dice, stemperando la tensione.

    E siamo a tre.

    No, ho paura che mi comprino un giaccone come premio alla mia sincerità.

    «Sì» rispondo secco e ormai un po’ annoiato dalla conversazione; più che annoiato, in realtà, adesso ho in mente soltanto i suoi capezzoli sanguinanti.

    Lei annuisce ancora e prende nuovi appunti.

    «Posso sapere che scrive su quel quadernetto?» mi viene da chiedere al posto di un più classico Che cazzo annuisce?.

    Questa volta scuote la testa di lato, facendo ondeggiare la sua chioma bionda cotonata, un’enorme montagna gialla di boccoli luccicanti in movimento.

    «Sono appunti professionali sulla sua persona, mi servono per studiare il suo caso, notare i progressi e cose del genere.»

    Per quanto ne so io potrebbe anche scrivere Questo è un coglione ogni volta che mi fa cenno di sì con la testa. Un quaderno intero di offese nei miei confronti e solo perché non mi piace tenere in braccio i figli neonati dei miei amici.

    Avrò il diritto di non amare qualcosa; c’è chi odia i cetrioli, c’è chi non sopporta la musica techno, a me fa schifo tenere in mano la testolina spelacchiata di quei cosetti arrossati.

    Sei un orso! è la frase che mi dice la gente quando provo a spiegarlo. Sì sono un orso, gli orsi maschi uccidono i piccoli, è per questo che la femmina si fa ingravidare e se ne allontana il prima possibile. Qualcuno vuol forse andare nel regno animale a prendere un plantigrado di mezza tonnellata e spiegargli che non è bello comportarsi come lui?

    «Non sarebbe bene che leggesse» conclude la psicanalista.

    In quel momento suona la sveglia, i miei quarantacinque minuti sono finiti. Chissà poi perché devono essere quarantacinque e non un’ora, penso che mi farebbe bene quel quarto d’ora mancante; sicuramente farebbe male al suo portafoglio.

    «Non le interessa sapere dei progressi con la mia ex?» provo a ignorare il trillo insistente.

    «Certo, ma la prossima volta» dice fermando lo scampanellio assordante.

    Niente da fare, ogni volta è così; ci provo a prendermi quei quindici minuti in più, ma a quanto pare è irremovibile. D’altra parte, a questo modo, nel tempo in cui vedrebbe tre poveracci, riesce a succhiare un cinquantone senza fattura a quattro.

    «Il tempo è scaduto purtroppo» tira fuori l’agenda «Facciamo martedì prossimo?»

    Annuisco e le porgo la mano per salutarla.

    La guarda e non fa niente.

    «Non vorrei essere scortese» attacca con quel suo modo di fare passivo aggressivo «ci sarebbe la questione del pagamento».

    Non ho un soldo in tasca, quel poco che ritiro lo metto nella cassettina di legno intagliata, quella all’ingresso di casa, e lì lo lascio, giusto per qualche delivery, ma per il resto è già un bel po’ che ho smesso di portarmi dietro le banconote, mi facevano sentire schiavo del sistema, o almeno Matteo mi ha convinto di questo.

    «Non li ho, saldiamo a fine mese?» le chiedo con un sorriso al quale non ha mai saputo replicare con un no.

    «Facciamo la prossima volta, se non le dispiace.»

    Questa volta non ci è cascata.

    «Sono già sei settimane che non paga, a questo punto non credo che il rapporto professionale possa andare avanti se non si impegna a rimediare» mi squadra duramente da dietro gli occhiali, abbassati leggermente sul nasino fine.

    È ovvio che anche la prossima volta non le porterò un bel niente, ma le prometto comunque che lo farò; non posso permettermi di rinunciare alla seduta della prossima settimana, ho la testa troppo incasinata ultimamente.

    A quel punto si alza e mi dà finalmente la mano. Ha la pelle liscia, bianca, fresca a dispetto del caldo, nemmeno una macchiolina o un raggrinzimento, le unghie sono smaltate di un rosa antico e un paio di anelli le brillano sull’anulare; nessuno dei due è una vera e propria fede.

    Mi domando se sia sposata, se abbia dei figli; non mi ha mai detto niente che possa avermici fatto pensare a dire il vero, ma non sarebbe poi così strano in fondo.

    La guardo diritta negli occhi, pensando ancora ai suoi capezzoli, provocandola, ma lei abbassa i suoi e mi lascia.

    Poco importa, stasera ho da fare. Tutte le sere ho da fare, mica ho poppanti da tenere in braccio io.

    Mi accompagna alla porta secondaria e mi saluta.

    Qui funziona così. Si entra da un lato, dove c’è una piccola sala d’attesa con un paio di stampe di Van Gogh e Renoir, un tavolino basso con su dei vecchi National Geographic e delle piante da interno; a fine seduta, invece, si esce dall’altro lato, per non incontrare eventuali conoscenti o persone che non amano condividere la loro follia col mondo. Non c’è niente all’uscita secondaria, solo una porta che dà su un corridoio buio con un’orribile moquette viola.

    È una perfetta sintesi della vita, suppongo, entri da una parte, aspettando un po’ in un ambiente accogliente, quando arriva il tuo turno ti arrabbi, piangi, ti sfoghi, e poi esci, mestamente, troppo presto dall’altra, dove non c’è niente, solo moquette viola.

    Diversi anni fa c’era stata una sorta di sdoganamento della psicanalisi, era un po’ una panacea consigliata a chiunque, Hai attacchi di panico? vai dallo psicanalista, Ti droghi? vai dallo psicanalista, Sei tanto, tanto, tanto felice? vai dallo psicanalista. E in effetti l’ultima è preoccupante come patologia, impossibile non consigliare un adeguato intervento medico.

    La cosa, comunque, si era protratta per un decennio scarso, ma adesso, invece, c’è stato una specie di passo indietro, molti continuano ad andarci, alcuni senza un reale bisogno, proprio come prima, ma la gente non se ne vanta più, se lo tiene per sé. Prima sentivi dire Ho iniziato la terapia, Oggi ho lo psicanalista, Tu da chi vai?, adesso no, tutti lo fanno in silenzio, il che mi rende abbastanza felice; voglio dire, io sono assolutamente bisognoso di una terapia, ma non voglio condividere le mie psicosi con gli altri tanto quanto non voglio che gli altri lo facciano con me.

    Che poi la cosa strana è che, oggi, tutti condividono ogni cosa col resto del mondo, i social network hanno permesso all’ego di ognuno di mettersi in bella mostra, di gonfiarsi a dismisura, di gridare al mondo ogni minima bassezza di cui è composto, ma la psicanalisi no, quella è tornata alla sua facciata originale, una roba da matti, quelli veri, non il resto dell’umanità che lancia gridolini a uno schermo definendosi pazzerella.

    Lo psicanalista di oggi è Facebook, è Twitter, è Instagram, ma non cura, alimenta; perché non esiste verità sui social network, siamo tutti la versione migliorata di noi stessi, migliorata ai nostri occhi ovviamente, al nostro personale sguardo distorto di psicotici.

    È così che, se io sono razzista, me ne vanto, dicendo di non esserlo, ma ficcandoci dentro tanti bei però; dico che sono un intellettuale, pubblicando citazioni di cose che non ho mai nemmeno avvicinato; che amo la musica in tutte le sue forme, ma alla fine seguo solo i fenomeni del momento; che il mio cane è tutta la mia vita, postando quindici foto al giorno del suo bel musetto, quando poi non lo considero mai perché ho da vivere altre cose; che mi indigno per la politica, per il mal costume, o per le finali dei reality show allo stesso modo, e tutto questo perché sono il centro del mio stramaledetto mondo, sono la coscienza incontrastata, sono la verità, non ho bisogno dello psicanalista, perché il mio ego è lo psicanalista, e mi dà sempre ragione.

    Cammino sulla moquette viola, tra pareti tortora, anche questa settimana è morta. Prenderò l’ascensore a breve, uscirò dal palazzo e ritornerò alla vita, fino a martedì.

    2.

    Sto venendo via dallo studio della dottoressa Capezzolisanguinanti – ok, dottoressa Gilardo – quando mi ricordo che il cellulare è spento, così infilo una mano in tasca e lo tiro fuori.

    Potrei silenziarlo, farmelo vibrare nei pantaloni come un segreto giocattolo sessuale, ma no. Matteo mi ha fatto una testa così con le sue teorie sullo spionaggio delle aziende di cellulari che lo trovo quasi un sollievo riuscire a spegnerlo di tanto in tanto.

    Una volta acceso inizia a suonare ripetutamente; ho più notifiche di un pluripregiudicato. Molti sono sms che mi comunicano che il mio capo sta sbroccando definitivamente, un paio sono news non richieste sul virus che sta terrorizzando l’Africa e una è di Kik. È Tammy.

    Tammy è bionda, ha ventuno anni, studia all’università dell’Oregon e ha un grosso neo sulla natica sinistra. È magra e tonica, mi ha detto di essere un’atleta, potrebbe essere vero.

    Anche io ero un atleta, ma nessuno che mi abbia mai incontrato per strada può averlo pensato; è la maledizione dei lanciatori di peso. Non tutti, è vero, ma molti di noi bestioni non hanno il tipico fisico scolpito e l’aspetto salutare dei classici sportivi. Agli occhi dei più sembriamo dei boscaioli, dei mangiatori di bistecche da due chili, uomini spaventosi che oscurano il sole al proprio passaggio, con pale al posto delle mani e pance enormi.

    E poi la maggior parte non sa nemmeno bene che facciamo. Lanci il disco no, Lanci quella palla legata alla catena no, Lanci i tronchi alle gare dei boscaioli no, lancio una palla di metallo da sette chili a venti metri di distanza, stupido vero?

    Tammy è marybell69.

    Non ho tempo per lei al momento, le rispondo velocemente, poi le scriverò di nuovo dopo un paio d’ore, quando sarò a casa. Adesso devo chiamare il boss, devo capire cosa gli si è sciolto prima che mi assilli fino a domani interrompendomi sul più bello.

    Il segnale è libero.

    Francesco – il capo – sbraita come un ossesso, impreca, scommetto che sta pure lanciando sputi giallo nicotina sui contratti che ha sulla scrivania. Sì, capo, No, capo, Domani capo, è martedì oggi, non ci sono mai il martedì, non sento nemmeno cosa mi viene detto il martedì.

    Saluto e riaggancio.

    Si è sfogato e adesso non mi romperà più le palle fino a domani.

    Posso andare a casa, ma prima la cena.

    Non bevo, non fumo, non mi drogo, però mangio, non riesco a farne a meno. Mi ingozzo come un maiale, è un miracolo che le mie arterie non siano occluse da un intero pollo arrosto.

    Essere alto più di due metri è un problema, mi fa consumare molta energia, e poi, da quando ho smesso con l’attività agonistica, mi sono lasciato andare. Non ho più un allenatore rompipalle che mi dice di aumentare i muscoli e lasciar perdere le salse, adesso ho il capo, ma a lui non frega un cazzo di cosa mangio, basta che raggiunga l’obiettivo mensile di vendite.

    È per questo che mi ha chiamato, questo mese ho chiuso un solo contratto e, a dirla tutta, non volevo nemmeno, è il cliente che ha insistito per avere le teste a snodo.

    Non so nemmeno a che servano le teste a snodo. Non so a che serva la maggior parte della roba che vendo a dire il vero. Non che sia un problema, ho il catalogo di riferimento, i clienti sanno di cosa hanno bisogno, io so quanto ci costa la roba, so a quanto la vendiamo, so a quanto posso scendere per guadagnarmi quel tanto da vivere.

    Tammy scrive che non vede l’ora e mi manda una foto del nuovo giocattolo. È viola questo, come la moquette fuori dallo studio.

    Entro in rosticceria, non c’è fila e vado subito al banco senza staccare il bigliettino.

    «Buonasera!» mi dice Caterina al di là della vetrina piena di cibo sulla quale sto già iniziando a sbavare. Su Caterina ho già sbavato una volta, quando andavamo al liceo.

    «Ciao bellissima!» le dico cercando di fare il simpatico. È sposata adesso, ma ci sbaverei sopra ancora se proprio lo volete sapere.

    Caterina è mora, è in sovrappeso e ha due meloni enormi, ma vi assicuro che è agile, o almeno lo era a diciotto anni in gita a Napoli.

    Non ricordo assolutamente niente di Napoli. Molti dicono che sia una bellissima città, io non saprei dirvi nemmeno se è una città. Quando porti un gruppo di adolescenti a visitare in blocco un qualsiasi posto sono pochi quelli che si dedicano alla cultura, per lo più pensano al sesso e a divertirsi con gli amici, ed è esattamente quello che ho sempre fatto anche io.

    Mi ricordo Pompei perché pioveva e mi infrattai con Caterina a sperimentare il brivido del poter essere scoperti, ma, per il resto, buio assoluto.

    Caterina è soltanto Caterina.

    «Che ti posso dare Stefano?» dice ingenuamente con quella voce da bambina che non le si addice affatto.

    Le risposte volgari che mi verrebbero sono un’infinità, ma mi accontento di un simpatico Tu che la fa ridere e non inorridire come avrei facilmente potuto.

    Le donne amano queste stronzate, adesso ride e per il resto della giornata penserà a questa risposta sentendosi felice, lusingata dal niente in realtà. Si accorgerà che suo marito, l’uomo che ama senza alcun dubbio, ha smesso da un pezzo di farle battute del genere, che la dà troppo per scontata. Ci litigherà senza nemmeno un vero motivo e alla fine la sua mente tornerà a me, a quella gita a Napoli, a questa mia risposta provocante e sospirerà; poi tutto tornerà normale e se ne dimenticherà, ma in un angolo oscuro rimarrà quel piccolo tarlo, quel forellino che, in qualunque momento, può farsi crepa con la giusta pressione.

    Non so se sfrutterò la cosa, intanto l’ho fatto. Vedremo come mi gira.

    «Penso che prenderò il pollo, le crocchette… mm… mettici anche un po’ di roastbeef e delle patate arrosto… poi un po’ di zuppa e una porzione di lasagne.»

    Mi faccio schifo da solo.

    «Così sono a posto anche per il pranzo» aggiungo solo per non disgustarla.

    Lei si muove veloce, agile come ai tempi della scuola, e mi viene duro a ripensarla appoggiata a quella parete antica coi pantaloni abbassati che si fa montare da dietro.

    Se non fossi appena uscito dallo studio di una psicanalista penserei di aver bisogno di curarmi. Non è normale eccitarsi a quel modo mentre ti riempiono delle vaschette di plastica con cibo freddo.

    Nessun problema, stasera ho modo di sfogarmi grazie al cielo.

    Faccio segnare tutto sul mio conto ed esco.

    Prima o poi lo pago. Lo giuro!

    Mi avvio verso casa e l’odore del cibo mi attira inesorabile verso sé. Lo so che non sta bene, ma lo stomaco inizia a brontolare e io non so resistere.

    Vorrei attaccarmi a quel maledetto pollo, però non posso, non così, in mezzo alla strada con la gente che passa e ti squadra in malo modo; frugo nella busta e afferro la vaschetta delle crocchette, la apro e ne infilo una in bocca, non la mordo, la premo intera fino all’ugola.

    È orribile vedermi mangiare, prendo sempre bocconi enormi che per poco non mi strozzano, e talvolta devo buttare giù tutto con gigantesche bicchierate d’acqua perché, nonostante la trentennale esperienza nell’ingozzamento, riesco ancora a mettermi in difficoltà.

    C’è chi mi ha definito un maiale, ma si sbaglia, i maiali grufolano voracemente, sì, ma masticano i pezzi più duri del loro pappone, io invece lo faccio appena, strappo, do giusto una sminuzzata veloce e butto giù; sono più un serpente direi, un grosso boa panciuto che inghiotte la sua vittima intera.

    Finisco quelle maledette crocchette prima di arrivare al mio palazzo, ma la voragine ormai è stata aperta ed è difficile trattenersi. Apro il portone, chiamo l’ascensore e sudo, questa volta come un maiale. Non so se sudino i maiali.

    Entro, premo il cinque e le porte si chiudono. Adesso sì che posso. Prendo la busta del pollo e stacco violentemente una coscia, mi ungo le mani, il mento, un brandello di pelle cade in terra, ma lo raccolgo, ci soffio sopra e me lo infilo in bocca ugualmente. Ho fame.

    Quando le porte si riaprono, l’osso è tutto ciò che rimane dell’arto dell’ex-pennuto.

    Vado alla porta del mio appartamento pieno di vergogna e la apro.

    «Ti sei ingozzato per strada?»

    Matteo mi aspettava al varco.

    «Sai già la risposta» gli dico andando in cucina senza dargli troppa considerazione.

    Mi siedo al tavolo e riprendo a divorare il pollo, sempre a mani nude.

    «L’ho capito dalla camicia» mi dice ancora l’altro, adesso sulla porta della stanza. «E poi sento odore di crocchette. Avevi preso le crocchette, vero? Mi piacciono le crocchette… Potevi anche lasciarmene una!»

    Non dico niente, addento soltanto un’ala, spolpando quella carcassa come una iena; sono un maiale, un boa e una iena, sono un intero zoo quando mangio.

    «Mi lasceresti mangiare in pace?»

    È irritante quando fa così. È irritante spesso. Quasi sempre a dire il vero.

    «Brutta giornata eh?» continua affacciandosi ai vetri della finestra.

    Continuo a mangiare e grugnisco.

    «È colpa degli americani.»

    Mi volto e lo guardo malamente, con della pelle unta e croccante che mi penzola da un labbro.

    «Sì, dai… quest’estate da schifo non è normale. È tutta colpa di Haarp!»

    Ritorno alla mia cena.

    «Non so di cosa tu stia parlando» rispondo. Raramente so davvero di cosa parli. Ha tutte queste fisse sulle verità nascoste dai governi, dalle società segrete, gli alieni, non so, idiozie delle quali io non mi sono mai interessato e a cui non ho alcuna intenzione di dare peso.

    «Haarp, quelle duecento antenne in Alaska

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