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Operette umorali
Operette umorali
Operette umorali
E-book187 pagine2 ore

Operette umorali

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Info su questo ebook

Siete davanti a una raccolta di racconti partorita da un narratore lunatico, dall’umore mutevole. Egli ha infatti composto venticinque racconti – venticinque operette – intrisi di comicità, ironia, dramma, tenerezza, amori felici o disperati. A seconda della sua inclinazione del momento, vi mostrerà ora una prospettiva sul mondo, ora un’altra, totalmente diversa. Troverete dunque storie piene di speranza, come Il giro della morte, in cui Mohammed, un ragazzo fuggito da Raqqa, diviene un campione di atletica; o di sconforto, come L’ultima pietra, in cui si descrivono gli estremi attimi di una donna nigeriana accusata di adulterio e condannata alla lapidazione. Ma c’è anche spazio per l’umorismo e l’assurdo. Così incontrerete un manichino, nel racconto omonimo, che vi racconterà quanto sia indispettito dagli sguardi indiscreti dei clienti, o le improbabili azioni di sommossa attuate da una celluca del TEC, i Terroristi di Estremo Centro, in Processo somaro. Roberto Ritondale ha composto una girandola di storie e sensazioni che, rinunciando all’impossibile missione di trovare un senso alla nostra realtà, cerca di descriverne tutta la confusa e straniante bellezza.
LinguaItaliano
EditoreBookRoad
Data di uscita18 mag 2022
ISBN9788833226378
Operette umorali

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    Anteprima del libro

    Operette umorali - Roberto Ritondale

    UMORE SPERANZOSO

    ALADINO

    I virus sono pericolosi, spesso serve un vaccino. Ma questo virus è il peggiore di tutti: troppi morti e nessuna soluzione. Perché nessuno la trova.

    Nessuno la vuole trovare.

    No, non sono matto. Parlo con cognizione di causa. Sono un medico e da anni combatto in prima linea negli ospedali di frontiera. Ho visto morire tante persone e ancora non mi abituo allo sterminio.

    Tra poco arriva Miguel, puntuale come sempre. È un genetista spagnolo che si occupa di biotecnologie applicate all’agricoltura. Ha uno sguardo triste, con quegli occhi che galleggiano nella malinconia. Ci siamo conosciuti qui al centro pediatrico di Mayo, in Sudan, dove offriamo cure gratuite ai bambini. Io da medico, lui da volontario.

    La settimana scorsa, durante una pausa, mi ha detto in gran segreto della sua idea per sconfiggere il virus e io gli ho dato ascolto. Mi ha convinto con la sua enfasi da scienziato visionario. E così ho fissato quest’incontro, a cui ho invitato anche Anne. È un’infermiera norvegese che di scandinavo ha poco: è chiacchierona, ha i capelli rossi quasi fosse un’irlandese e si appassiona alle cose del mondo come neanche un’italiana. A pelle, mi sembra la persona giusta da imbarcare nell’impresa. E poi sento che ha doti straordinarie, di cui neanche lei è pienamente consapevole. Mi ha informato che verrà con Miguel.

    Bussano alla porta, li accolgo sull’uscio.

    Li faccio entrare nella mia casa a pianta circolare. Casa di argilla e paglia.

    «Ti vedo sempre più pallido, Lucio.» Miguel mi saluta con uno dei suoi sorrisi malinconici. «Dovresti uscire un po’ più spesso dal tucul

    «Fuori fa troppo caldo.» Gli porgo una tazza di chai saada, una specie di tè nero. «E il caldo non mi piace.»

    «Hai scelto il posto sbagliato» ride, strizzando l’occhio complice.

    «Ne vuoi anche tu?» dico ad Anne.

    «Non ce l’hai, un bel caffè?»

    «Chawa. Lo chiamano chawa, qui…» Fingo un tono pedante. Intanto lo preparo.

    Ci sediamo intorno a un tavolino traballante e sorseggiamo con calma le nostre bevande calde. Fuori la luce si sta attenuando: sembra più morbida e accogliente, questa sera.

    «Ieri mi è morto un bimbo fra le braccia» dice Miguel senza riuscire ad alzare gli occhi, appesantiti da un senso di colpa senza fondamento. Un senso di frustrazione.

    «È arrivato troppo tardi. Nessuno avrebbe potuto salvarlo» lo consolo.

    «Certo, nessuno…»

    «Dannato virus» sospiro.

    «Ma il vaccino per questo virus lo conoscono tutti. Com’è possibile che…»

    «Di cosa state parlando?» interviene Anne. Ha sempre un sorriso pieno che le danza fra le lentiggini. Adesso, però, quel sorriso è un po’ obliquo.

    Sono consapevole che tocca a me risponderle. Lo faccio. «Stiamo parlando del virus più letale al mondo: la povertà. E del vaccino più semplice, eppure più difficile da procurarsi, almeno qui: il cibo.»

    L’infermiera norvegese annuisce e poggia sul tavolino la sua tazza di chawa.

    «È la seconda volta in tre giorni che un bambino mi muore fra le braccia» dice Miguel. «Non possiamo restare impassibili. Non ce la faccio, non ce la posso fare.»

    Gli chiedo di svelare anche ad Anne la sua idea. E allora lui si strappa di dosso la malinconia e comincia a parlare, infervorato. La genomica, dice, offre grandi opportunità per selezionare piante più produttive e resistenti alle malattie. La ricerca, si accalora, consente di selezionare coltivazioni migliori dal punto di vista nutrizionale e capaci di superare il problema della siccità.

    La donna con le lentiggini all’inizio si mostra scettica, teme si parli di organismi geneticamente modificati.

    «E anche se fosse?» replica Miguel. «Cos’è peggio: modificare il dna delle patate e del mais, o lasciar morire di fame milioni di persone?»

    Io non intervengo, il genetista spagnolo mi ha già conquistato. E sono certo che riuscirà a convincere anche Anne.

    «Cosa serve?» chiede alla fine la norvegese.

    «Un piccolo investimento» rispondo io. «E una persona che si occupi a tempo pieno e con passione del progetto. Per i soldi, sono pronto a donare tutto quello che ho. In quanto alla passione… Per quella ho pensato a te, Anne. Ne hai tanta, che il progetto non può fallire.» Faccio silenzio, scruto la sua reazione. «Resta un solo problema.»

    «Quale?» domanda Miguel, perplesso.

    «Dobbiamo trovare un nome al progetto…» sorrido.

    «Aladino. Progetto Aladino» dice lui di getto.

    «Mi sembra una buona idea. Come il ragazzo della lampada…»

    «Non il ragazzo.» Abbassa il capo. «Come il bambino che ieri è morto fra le mie braccia.»

    Ne parliamo ancora a lungo. Ipotizziamo scenari, scriviamo su carta una lista di persone da coinvolgere, di altri potenziali finanziatori, degli enti da contattare. Analizziamo gli aspetti logistici e quelli burocratici. Ci ripromettiamo che daremo tutti il massimo, ognuno per la sua parte.

    Fuori è buio, eppure qui dentro c’è tanta voglia di luce.

    Ci salutiamo, alla fine.

    «Non sono sicura che tutto questo funzionerà» dice Anne con un sorriso obliquo. «Ma ci metto il cuore.»

    La stringo a me. «Allora ce la faremo. Basterà.»

    Sciolgo l’abbraccio e la guardo negli occhi. Altrove, in un altro mondo, me ne sarei innamorato.

    Non qui. Non ora.

    «Abbi cura di te» mi dice. E mi bacia una guancia.

    «Esci, Lucio. Esci più spesso» mi saluta Miguel. «Sei troppo pallido.»

    «Non preoccuparti per me» lo rassicuro.

    Lui non lo sa, e in fondo neanch’io lo so, quanto mi lascerà vivere l’anemia falciforme che mi sta divorando.

    Per questo, anche per questo, non voglio più sprecarla, la mia vita.

    Anche per questo ho fretta, ho voglia di darle un senso. E non posso attendere all’infinito un genio della lampada.

    Sprecarsi, mi dico, è offendere se stessi, e tutti quelli che ci chiedono aiuto.

    MI È PARSO DI CAPIRE

    1

    A parte una lieve imprecisione, oggi mi sento in forma. Mi sono pure fatto sentire da chi mi tiene prigioniero. Ho protestato. Non voglio più stare in isolamento, ho bisogno di un contatto, uno spiraglio che mi permetta di affacciarmi alla vita. Non potevano mettermi qualcuno, qui di fianco?

    Fortuna che mi è possibile ascoltare qualche voce, di tanto in tanto. Voci lontane: a volte impercettibili, altre volte più chiare. Ma sempre attutite da questa barriera che mi separa dal mondo.

    Oggi ho sentito parlare di un mio antenato. Anche lui ha conosciuto gli stenti che soffrono tutti i prigionieri. A Parigi si guadagnava da vivere pulendo automobili con l’acqua ghiacciata. Lavorava insieme a un tale Sandro. Pertini, Sandro Pertini, mi è parso di capire. Guadagnavano pochi franchi a testa e conducevano una vita miserabile. Influenzato da quel tipo, il mio bisnonno diventò socialista e appena tornò in Italia lo arrestarono. Cospirava. Non so bene cosa voglia dire, comunque doveva essere un comportamento cattivo.

    Ma io? Qual è la colpa che mi obbliga a restare chiuso in questo spicchio di buio che sembra senza fine? Io sono innocente, un’anima innocente. Eppure sto rinchiuso in una gabbia.

    L’unica consolazione è la salute: sono davvero in forma, l’ha detto persino il medico. Anche se mi sento dentro una lieve imprecisione.

    Suggestioni. Nulla è perfetto, mi è parso di capire.

    2

    Oggi mia madre mi ha scritto. Una lettera tanto lunga quanto toccante, dannazione. Mi ha detto che sono la sua vita, sono il senso che illumina i suoi giorni.

    Mio adorato Matteo,

    Quando finalmente potrò vederti, il cuore batterà all’impazzata e le lacrime scioglieranno il mio rimmel e le mie paure. Non so se avrò la forza di guardarti subito negli occhi, e non so se tu avrai il coraggio di affrontare subito il mio sguardo. Ma, quando io troverò la forza e tu il coraggio, i nostri occhi si incroceranno e si scambieranno messaggi d’amore. Sei la mia vita, Matteo. Sei il senso che illumina i miei giorni, che rende meno amaro l’atteggiamento ostile di tuo padre. Per questo confido nel tuo arrivo, Matteo: la tua presenza sarà fonte di gioia, condivisione pura. Riscoprirò la voglia di famiglia. Scalfiremo i muri che ci separano e scolpiremo nella memoria quelle emozioni che avvicinano per sempre. Non puoi immaginare quante volte ti ho sognato, dando forma alla mia immaginazione, cullando le mie speranze. Ogni passo, lo compio incollata al pensiero di te. Ogni sospiro è un alito di cielo sgombro di nuvole in cui lasciarti libero, libero di volare.

    Non vedo l’ora di abbracciarti stretto stretto e di strapazzarti, Matteo. Ti adoro. Ti aspetto.

    La tua mamma Dora

    Abbracci? Strapazzi? Lacrime miste a rimmel? Sarà meglio restare qui al sicuro, mi è parso di capire.

    3

    Mia madre ha preso appuntamento, il ginecologo ci aspetta per le sei del pomeriggio. Gli chiederò un favore: farmi uscire il prima possibile da questo imbuto nero. Anche se ammetto che l’ultima notizia appresa mi ha rincuorato: la prigionia finirà tra circa cinque mesi. Sono più o meno a metà del cammino. Un altro po’ e la mia mamma mi darà alla luce. E io scoprirò i colori e cosa vuol dire piangere e sorridere, imparerò a nutrirmi facendo a meno di un cordone che si spezza.

    Forse questo nido mi mancherà. È il destino dell’uomo, mi è parso di capire: rimpiangere ciò che è stato e che non torna più.

    Ma davvero ricorderò con nostalgia la mia galera amniotica? Per ora non ci credo: è troppo grande la curiosità di conoscere i volti cui appartengono le voci che ascolto, sempre più familiari. E poi voglio guardare in faccia quel pazzo di mio padre. Lui di solito non parla, grida. Alza così tanto e così spesso il volume delle sue conversazioni che mi verrebbe voglia di prendere le estremità del mio cordone e tapparmi le orecchie. Ma si può? Grida quando dormo, grida quando mi sveglio, grida quando mia madre coccola me e la luna. E poi dicono che i bambini nascono già stressati… È naturale! Io non ho un attimo di tregua, da mattina a sera.

    Ma come ha fatto a sposarlo, mamma Dora? Sarà stata costretta, da un voto alla Madonna o da un ricatto del demonio. Perché ha un diavolo per capello, mia madre, e una santa pazienza.

    4

    Sono felice, riesco a distinguere sempre meglio le voci che attraversano la pancia di mia madre. Credo che avrò un udito straordinario. E sono felice anche perché oggi non ho sentito le urla di mio padre, ma la dolcezza inusuale di un tenero signore.

    «Dora, sei più luminosa del solito» ha detto quel signore. «L’espressione del tuo viso diventa sempre più dolce con il passare dei mesi.»

    «È vero, Carlo, ogni mese mi sento più bella.»

    «Sembri anche più giovane.»

    «Giovane… Non prendermi in giro, adesso.»

    «Non hai ancora quarant’anni.»

    «Ne ho trentanove, Carlo. Manca soltanto un anno. E mi manca il tuo amore.»

    «Io non ho mai smesso di amarti.»

    «Ma ora mi ami di un amore universale…»

    «L’Universo è dentro di te, adesso che porti in grembo il mistero della vita.»

    «E se questo figlio fosse tuo?»

    «Sarebbe un dono meraviglioso…»

    «Fammi un regalo, Carlo. Toccami la pancia.»

    Ho provato una strana sensazione. Mi è sembrato quasi che il signore accarezzasse me, ho avvertito un brivido di gioia. Nessuno aveva mai coccolato in questo modo il ventre di mia madre. Nemmeno quel villano di mio padre, che domani non potrà

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