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Niente da nascondere
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E-book328 pagine5 ore

Niente da nascondere

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Questo libro non nasconde nulla. Fin dalle prime righe il lettore capisce che non ha scampo, si parla proprio di quello: del dolore mentale. In tutte le sue versioni e interpretazioni, innescato dalle cause più varie, come compagno di strada fin da bambino, oppure incontrato lungo i tornanti della vita adulta in genere lungo il sentiero della passione amorosa che il più delle volte lo precede e ne rappresenta l’anticamera con l’incantesimo dei suoi piaceri. L’autore suggerisce implicitamente di non distrarsi affatto, ma di godersi la solitudine dolente e creativa dedicata all’immaginazione, alla nostalgia, al sogno, alla fantasia ad occhi spalancati che guardano il vuoto accettando fino in fondo la delusione e il rimpianto, la rabbia e la costernazione per l’ingiustizia subita, la perdita insensata, la rottura del progetto incompiuto.

Francesco Casali è nato a Milano nel 1977, figlio di due insegnanti vive tra Milano e Genova. Dal 1999 lavora come educatore professionale con soggetti a rischio di emarginazione e con problematiche psichiatriche e di tossicodipendenza. Negli ultimi anni si è occupato soprattutto di attività sportive con finalità terapeutiche, riabilitative e di integrazione sempre nel campo del disagio psico-sociale. Collabora con una fitta rete di realtà operanti nel sociale ed è impegnato in numerosi progetti educativi sul territorio.

Prof. Gustavo Pietropolli Charmet, laureato in Medicina, specializzato in Psichiatria, psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, è stato primario incaricato di servizi psichiatrici, docente di Psicologia Dinamica alla Facoltà di Psicologia dell’Università Bicocca di Milano. Attualmente è presidente dell’Istituto Minotauro, presidente del Centro Aiuto alla Famiglia in crisi e al bambino maltrattato (CAF), direttore della scuola A.R.P.Ad – Minotauro di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Adolescenza, direttore scientifico della collana “Adolescenza, educazione, affetti” dell’editore Franco Angeli.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2019
ISBN9788855087360
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    Niente da nascondere - Francesco Casali

    Francesco Casali

    Niente da nascondere

    EDIFICARE

    UNIVERSI

    © 2019 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it

    I edizione elettronica novembre 2019

    ISBN 978-88-5508-736-0

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri

    Ai miei genitori e a tutti quelli

    che hanno perso la propria strada, come me

    Prefazione

    a cura del Prof. Gustavo Pietropolli Charmet

    Questo libro non nasconde nulla. Di solito non si parla di questa faccenda e se ne scrive poco nascondendo quasi tutto. C’è pudore e il più delle volte anche vergogna. Perciò si sta zitti e si parla d’altro. Oppure si va dal dottore, si beve e si cerca di dimenticare e ammutolire. Francesco Casali invece ne parla direttamente, con parole chiare, senza girarci attorno. Fin dalle prime righe il lettore capisce che non ha scampo, si parla proprio di quello. Del dolore mentale. In tutte le sue versioni e interpretazioni, innescato dalle cause più varie, come compagno di strada fin da bambino, oppure incontrato lungo i tornanti della vita adulta in genere lungo il sentiero della passione amorosa che il più delle volte lo precede e ne rappresenta l’anticamera con l’incantesimo dei suoi piaceri.

    Il dolore mentale di cui canta l’inno Francesco Casali ha la caratteristica di essere orrendamente imparentato con la perdita e l’impossibilità di elaborare il lutto osceno che ne deriva che a sua volta apre le porte alla solitudine interiore - e spesso anche all’isolamento sociale - che scivola prima verso la marginalità e si conclude con l’anestesia illusoria dell’emarginazione che camuffa il dolore e lo trascina verso la capanna di cartone nei pressi della stazione dei treni, tragica conclusione di un viaggio senza speranza.

    Casali ne parla bene, con rispetto raffinato, assumendosi la responsabilità di raccontarlo senza retorica, mai invocando pietà direttamente ma chiedendo sempre con forza e un po’ di rabbia di mettersi in ascolto e imparare dai personaggi ai quali regala la parola e il ricordo. Giù il cappello sulla tomba e di fronte a coloro che hanno sofferto senza anestesia, trascinando la propria vita vicini a quelli che non conoscono il dolore cronico, che non si dimentica, privo di parole, troppo segreto per essere confessato e avvilito dalle risposte distratte di interlocutori spaventati dalla possibilità di contagio.

    Nei confronti delle istituzioni, delle professioni e dei riti deputati socialmente a erogare una risposta al dolore causato dalla perdita dell’amore, del senso, del futuro progettato assieme, dei ricordi impietosi, Casali è ironico e a volte sarcastico perché troppo indignato dalla proterva supponenza di chi spaccia illusioni solide, che offendono chi soffre veramente, non cerca consolazione ma restituzione e giustizia. Il funerale cattolico getta sale sulla ferita aperta e Casali assiste sbigottito alla sepoltura ordita dalla Chiesa e dai suoi fedeli della persona amata e pensa a come si potrebbe organizzare il proprio funerale, ne decide la colonna sonora e immagina le parole corrette da pronunciare, quelle che non sono state mai sentite quando è morto suo nonno e sembrava si fosse spenta una persona qualsiasi.

    Si indigna con i dispositivi di cura psichiatrici, il loro delirio biologistico e la sordità abituale al dolore, al bisogno profondo della persona di essere riconosciuta in tutte le sue dimensioni anche quella del diritto al movimento, al gioco, alla sfida, alla partecipazione, alla vita di gruppo e di squadra.

    Casali è un operatore psichiatrico, un educatore professionale, e conosce bene il problema del consumo di alcool e di droghe come cura privata del dolore, senza badare alla spesa, alle conseguenze, all’altro dolore che ne deriva che però attenua quello primario, causa di tutto, anche della morte della speranza. Perciò sta vicino, in silenzio, oppure gioca con chi si è travestito da alcolista e drogato per non farsi riconoscere se non da quelli che se ne intendono e dispongono del codice per capire le parole ammutolite e il ricordo della perdita accaduta dieci o venti anni prima. A Casali non serve la dottrina perché ha la chiave per capire e identificarsi senza scomparire, rendendosi utile, promuovendo il cambiamento, rispettando il dolore come una reliquia, la religione privata di chi gli è devoto per sempre e non riesce neppure a capire cosa si voglia da lui proponendogli di fingere di nulla e dedicarsi alla normalità condivisa da coloro che ballano sul dolore e dicono che passerà, che è una questione di tempo poiché il suo trascorrere è la medicina che ci vuole, quella più efficace perché aiuta a dimenticare. Ma chi soffre non vuole dimenticare perché il dolore rappresenta l’amore e la persona perduta e senza più nemmeno il dolore si rischia di morire. Casali se ne intende e sa come avvicinarsi al proprio simile addolorato, conosce le cautele e la necessaria severità con se stesso. Non si può interessarsi del dolore degli altri se non se ne ha la motivazione. Perciò Casali guarda agli amici che non capiscono, alle proposte della compagnia di fingere di nulla e distrarsi sapendo che è inevitabile, anche se lui non riuscirebbe mai a invitare colui che soffre a bere un bicchiere di vino e unirsi ai canti e allo svago, poiché è certo che non solo non serva a nulla ma peggiora la percezione della propria solitudine e marginalità.

    Francesco Casali fa una proposta alternativa nelle pagine di questo libro intelligente, appassionato e bellissimo. Suggerisce implicitamente di non distrarsi affatto ma di godersi la solitudine dolente e creativa dedicata all’immaginazione, alla nostalgia, al sogno, alla fantasia ad occhi spalancati che guardano il vuoto accettando fino in fondo la delusione e il rimpianto, la rabbia e la costernazione per l’ingiustizia subita, la perdita insensata, la rottura del progetto incompiuto. Casali sa benissimo che non è una soluzione che possa funzionare per tutti: è adatta a coloro che hanno dimestichezza col dolore e lo usano come una risorsa per la propria serietà etica e creatività. Potrebbe servire per coloro che hanno debuttato nella dimestichezza con la dimensione umana del dolore a seguito della perdita della persona amata perché in questo caso il dolore ha un nome e la nostalgia e il rancore sono ingredienti affrontabili poiché innescati da un evento reale vissuto come catastrofico, non prodotto dal destino avverso ma dalla volontà degli uomini e delle donne.

    Se si è costretti a vivere in un tunnel la cosa da fare è arredarlo, dice Casali e penso abbia ragione da vendere. È quello che fanno gli scrittori, i poeti, gli artisti che arredano la loro disperata solitudine e diversità con i prodotti del processo creativo. I loro contemporanei sono invitati a visitare il tunnel arredato e portare rispetto per chi ha sofferto e lavorato anche per tutti loro, cercando di dare senso e ricostruire la speranza.

    Francesco Casali fa il mestiere di educatore ormai da molti anni e ha fatto il volontario su tutte le ambulanze reali e simboliche della nostra città. Offre una particolare relazione di aiuto che chi leggerà questo libro avrà modo di capire e sperare, nel caso mai succedesse un giorno di avere bisogno di un educatore psichiatrico o di un lettighiere notturno, di vedersi comparire davanti uno come lui, buono, sorridente, serio, rispettoso e soprattutto competente.

    In questo libro racconta alcuni degli incontri che ha fatto con i pazienti delle Comunità e Servizi psichiatrici in cui ha lavorato e la sua capacità narrativa regala alle esistenze mute dei suoi interlocutori la dimensione del dolore di cui implicitamente soffrono da anni tacendolo agli spacciatori di farmaci e consigli. Ne derivano delle storie di vita che hanno finalmente senso e sono accomunate dal silenzio e da una solitudine cosmica, vicende umane, troppo umane, che trasudano trauma e dolore, perdite e una emarginazione senza speranza che mortifica la dignità intatta ma sommersa dal mare di macerie relazionali e sociali. Come il pensiero di diventare finalmente padre e la passione per la piccola Sofia: così tanto voluta ma rimasta, alla fine, soltanto dentro al suo cuore.

    Casali racconta, commenta, inserisce citazioni, abbina la colonna sonora, coinvolgendo il lettore nella narrazione sobria, senza seduzioni e belletti, così come stanno le cose per chi si trovi a lavorare e vivere alla periferia della normalità e del senso. Sono tutte persone che sono morte nella mente dei loro parenti, amici, uomini e donne che hanno amato; nessuno serba ricordo della loro capacità di amare e lasciarsi amare. Sono rimasti soli per sempre. Ma arriva Casali, educatore scrittore, che li pensa e li rianima per i lettori di questo libro, amministrando un po’ di giustizia, quella che riescono a fare gli artisti, che parlano delle cose morte o moribonde e, rendendole mitiche, gli ridanno i colori della vita e della speranza, senza esagerare, con parsimonia e laboriosa creatività.

    È un libro bello, onestissimo, come il suo autore, che propone anche delle innovazioni di grande interesse nei confronti del dolore cronico. Pagine alte e importanti quelle dedicate alla finale del torneo di calcio al quale partecipa una squadra di pazienti rianimati dalla fiducia nel figlio dell’uomo che caratterizza l’educatore Francesco Casali, allenatore di calcio ed esperto in dolore umano.

    Conosco personalmente Francesco Casali. Più volte nel corso della vita è venuto a consultarmi come psicoanalista di adolescenti in crisi. Anche lui è stato adolescente e le sue crisi di dolore amoroso furono leggendarie. Poi siamo invecchiati assieme, su due corsie parallele. Ogni tanto lui preferisce venire a parlarmi del dolore e di quale possa essere di volta in volta il modo più intelligente per elaborarlo. Non l’ho mai considerato un paziente in senso stretto, ma uno strano collega giovanissimo, molto intelligente e motivato, che viene ogni tanto a riferirmi le soluzioni che il suo paziente ha escogitato per elaborare il dolore senza soccombere. Il suo paziente è lui stesso e debbo ammettere che l’ha aiutato a crescere e diventare molto creativo.

    Questo libro ne è una testimonianza inconfutabile e può diventare un amico sincero di chi lo leggerà.

    I

    DEVO OSARE

    Nicht alle Schmerzen sind heilbar,

    Denn manche schleichen

    Sich tiefer und tiefer ins Herz hinein,

    Und während Tage und Jahre verstreichen,

    Werden sie Stein.

    Du sprichst und lachst, wie wenn nichts wäre,

    Sie scheinen zerronnen wie Schaum.

    Doch du spürst ihre lastende Schwere

    Bis in den Traum.

    Der Frühling kommt wieder mit Wärme und Helle,

    Die Welt wird ein Blütenmeer.

    Aber in meinem Herzen ist eine Stelle,

    Da blüht nichts mehr.

    (FORSETI, Schmerzen)1

    Non è facile trovare una canzone che esprima nel più profondo lo stato d’animo di una persona, i Forseti ci sono riusciti.

    Forseti, il dio della giustizia e della verità per i popoli del nord Europa, presta il proprio nome ad uno dei più acclamati gruppi neofolk degli ultimi anni, un progetto che ha saputo guadagnarsi la giusta fama grazie ad una serie di ottime produzioni ed importanti collaborazioni. Il creatore di tutto ciò è il musicista tedesco Andreas Ritter che nel duetto con Melanie Köhler nella breve, ma intensa, "Schmerzen" evoca un racconto lento, nostalgico, suadente e lacerante nella sua capacità d’evocare un’infinita nostalgia.

    Nicht alle Schmerzen sind heilbar, denn manche schleichen

    Sich tiefer und tiefer ins Herz hinein,

    Und während Tage und Jahre verstreichen,

    Werden sie Stein

    È proprio così. "Non tutti i dolori possono essere guariti, perché alcuni si insinuano sempre più profondamente nel cuore e, mentre passano giorni e anni, diventano pietre". Sembra ci sia soltanto il cocente rimpianto per un passato che non esiste più e di cui è doloroso perfino preservarne la memoria; un’era di aurei valori inevitabilmente dissoltasi, annichilita dalla disarmante crudezza e superficialità del quotidiano in cui tutti noi siamo immersi. Schmerzen, il dolore, è sempre personale, troppo soggettivo per poterlo analizzare e troppo intimo, a volte, per poterne parlare. È come un canto sommesso che se ne sta dentro di noi, come una macchia nera che non si cancella. Il celebre psichiatra Vittorino Andreoli racconta: È sempre difficile trasformare in parole il dolore senza snaturarlo, senza tradire il suo senso. Impossibile, forse, quando è dolore dell’uomo, del suo essere nel mondo. È difficile soprattutto in una realtà che preferisce dimenticarlo, nasconderlo dietro a un benessere illusorio o alla vacuità inconsistente dello spettacolo […] Il dolore non ha né spazi né tempi privilegiati, accompagna l’uomo in ogni fase di età, dall’infanzia alla vecchiaia, e di volta in volta assume il volto della solitudine, dell’abbandono, della colpa, della perdita, del silenzio, del limite.²

    Du sprichst und lachst, wie wenn nichts wäre,

    Sie scheinen zerronnen wie Schaum.

    Doch du spürst ihre lastende Schwere

    Bis in den Traum

    E così parli e ridi come se nulla fosse, i dolori e i pensieri sembrano sciogliersi come schiuma, ma continui a sentirne il peso persino nei sogni. È proprio nei sogni che si ha la conferma del potere del dolore, quando la razionalità si spegne allora emerge il subconscio con il suo carico di malinconia e sofferenza e non puoi più mentire, puoi tentare di fingere ma non per sempre. Ingannare i sogni, vigilare sulla mente mentre si dorme non è roba da umani e la mente non si spegne mai. Capisci che mente e cuore sono inesorabilmente collegati, indaghi su te stesso per capire come sei fatto, cerchi di fare chiarezza dentro di te, vuoi capire cosa ti ha spinto ad entrare nel mondo del dolore e provi a dare un nome alla sofferenza per renderla più sopportabile possibile.

    Der Frühling kommt wieder mit Wärme und Helle,

    Die Welt wird ein Blütenmeer.

    Aber in meinem Herzen ist eine Stelle,

    Da blüht nichts mehr

    Sai già che anche "quando tornerà la primavera con il suo calore e la sua luce ed il mondo diventerà un mare di germogli, nel tuo cuore ci sarà un posto dove non fiorirà più nulla". Si direbbe quasi che sofferenza e dolore siano innati ed appartengano ad ognuno di noi: sebbene lascino tracce differenti e cicatrici più o meno profonde, non abbandoneranno mai l’itinerario soggettivo dell’essere umano. Le persone devono, quindi, arrangiarsi a gestire il loro disagio attraverso relazioni private o attraverso un dolore muto. Per il solo fatto di esistere, si è esposti come esseri umani sia alle meraviglie e alle gioie della vita, sia ai suoi aspetti più oscuri e dolorosi. Questa visione è sicuramente difficile da accettare in una società moderna così improntata sul benessere: essere messi a nudo di fronte alla nostra fragilità e impotenza, provoca infatti frustrazione e dolore. Non è facile pertanto raffrontarsi con il dolore e le spiacevoli emozioni che ne derivano. La sofferenza psicologica, che tanto si cerca di non vedere, è altrettanto pesante ed intensa di quella fisica e, poiché l’individuo è sostanzialmente un insieme di mente e corpo, una parte non può essere indipendente dall’altra. Ogni cosa che colpisce una di queste due sfere avrà inevitabilmente delle ripercussioni anche sull’altra e quindi i dolori e i traumi devono essere necessariamente analizzati e compresi da un duplice punto di vista. Negare questa visione significherebbe che corpo e mente sono slegati tra loro senza e non si influenzano a vicenda: affermarla, però, è pura utopia.

    Il termine dolore può essere accostato a quello di esperienza, intesa sempre sia da un punto di vista psichico che fisico, legata imprescindibilmente alle nostre caratteristiche, alla nostra vita, a come siamo fatti. Il dolore, da questo punto di vista, per quanto si cerchi di oggettivarlo andando a ricercare delle caratteristiche comuni al fine di renderlo accettabile e affrontabile, risulta un’esperienza soggettiva, un fatto altamente privato e personale. Ma l’elaborazione mentale è diversa da individuo a individuo e, sebbene alcune caratteristiche possano avere degli aspetti in comune, quel dolore rimarrà sempre soggettivo e la sua esperienza unica ed inattingibile. Ad esempio, l’esperienza della perdita di chi si ama, come nel bellissimo film 21 grammi³, è un’esperienza di dolore insopportabile. Ma anche questo dolore, per quanto estremo e quasi devastante, verrà percepito in maniera soggettiva: ogni individuo vivrà quel sentimento a partire dalla propria esperienza personale: qualcuno sarà in grado di reggerlo, qualcun altro magari no, ognuno reagirà secondo le proprie capacità ma soprattutto in base al proprio grado di tolleranza del dolore. Riuscire ad affrontare questo difficile evento mantenendo un buon equilibrio interiore non è assolutamente semplice. La reazione al lutto è sempre molto personale e può essere influenzata da diversi fattori, tra cui: le circostanze che hanno portato al decesso, la prevedibilità o meno con cui esso è avvenuto, le caratteristiche personali di chi subisce il lutto, le risorse presenti all’interno del contesto in cui si vive. John Bowlby, psicologo e psicoanalista inglese del XX secolo, nella sua celebre opera Attachment and Loss⁴, descrive l’elaborazione del lutto come un processo suddivisibile in diverse sottofasi. Inizialmente si assiste ad un periodo di shock e di incredulità, che può essere associato ad un meccanismo difensivo di negazione. La fase successiva è invece caratterizzata da un intenso dolore psichico, con sentimenti di rabbia verso il mondo esterno e verso il defunto stesso che ci ha abbandonato, di angoscia da separazione, di senso di colpa per non aver fatto tutto il possibile per il defunto o per aver lasciato questioni irrisolte con lui. Rabbia e senso di colpa trovano spesso una riparazione attraverso un meccanismo difensivo di idealizzazione, per cui idealizzando la persona defunta è come se lo si ripagasse di tutti i sentimenti aggressivi che abbiamo avuto verso di lui. Il compimento del lutto si ha con il superamento del dolore acuto - nonostante episodi di tristezza e senso di perdita si potranno ripresentare ancora per moltissimo tempo - e con l’accettazione che quella persona non tornerà più: attraverso un meccanismo di interiorizzazione la persona diventa parte del nostro mondo interno e quindi, in un certo senso, non la perderemo mai. Le reazioni descritte rientrano tutte nella normalità del processo di elaborazione del lutto. Non è la qualità, ma la durata nel tempo e l’intensità con cui vengono vissute che ne sottolineano la normalità o la patologia. Non bisogna dimenticare, infatti, che il dolore è innanzitutto un affetto, qualcosa che ha intimamente a che fare con i nostri investimenti, con ciò che amiamo, con ciò che per noi rappresenta un mondo stabile, sicuro, duraturo, e sul quale il dolore irrompe, separa, distrugge. Ogni persona è diversa e tende a soffermarsi in determinate fasi del processo luttuoso in base ai suoi valori di riferimento e alla propria esperienza personale. Il superamento delle fasi, pertanto, può avvenire in modo lineare ma anche in modo alternato, magari ritornando a fasi già vissute, oppure bloccarsi prima di arrivare all’ultima e terminare con sentimenti ed emozioni di accettazione. Vivere un lutto, implica la necessità di dover affrontare e sentire tutta una serie di sensazioni dolorose talmente forti che alcune persone, per evitare di star male, o per dimostrare forza davanti agli altri, tendono a nascondere le emozioni più difficili fingendo che non sia accaduto nulla. Entrano così in quelle modalità soggettive con cui ognuno nasconde e contemporaneamente svela il proprio soffrire. E così, attraverso comportamenti spesso ambigui, chi soffre cerca, malgrado tutto, di continuare a vivere, da un lato nascondendo, dall’altro trasmettendo la propria sofferenza. Facendo ciò, però, si rischia solo di ottenere l’effetto contrario: la propria tensione psicologica aumenta e rallenta invece quel processo di elaborazione ed interiorizzazione del lutto, col rischio che la sofferenza rimanga di fatto intransitabile, come un dolore muto.

    Ma oltre al lutto, anche l’amore e le esperienze amorose in generale sono fonte di estrema sofferenza e dolore. È pura illusione pensare all’amore come luogo di serenità e gioia. L’amore è un trascinamento, una tormenta, quando non una follia. Salvatore Natoli, accademico e filosofo contemporaneo, afferma che "quando il dolore non produce distruzione, accresce certamente la percezione. Qualunque sia la sua origine ed in qualunque modo sia vissuto, rompe il ritmo abituale dell’esistenza, produce quella discontinuità sufficiente per gettare nuova luce sulle cose ed essere insieme patimento e rivelazione".⁵ Secondo il professore, sebbene il dolore sia insensato, si cerca di spiegarlo con le parole spesso inutili ed allora si cerca dapprima la parola efficace della tecnica, della preghiera, della fede, che non annulla il dolore, ma dà una speranza nel miracolo. L’efficace uso della parola per spiegare il dolore fa sì che gli uomini trovino conforto nella comune sofferenza, in quella universalità del dolore dove, però, ognuno rimane nella sua singolarità di senso. Il tentativo di rispondere a queste fondamentali domande fa sì che l’individuo scopra nuove forze in lui che generano un uomo nuovo che, partendo dall’esperienza del dolore, s’interroghi sul senso dell’esistere, tenendo sempre presente, però, che il dolore può segnare anche una definitiva sconfitta. Quando la persona non è in grado di orientarsi in tal senso, il dolore annienta, fino all’autodistruzione: alcool, droga, psicosi, suicidio, ecc. E in 21 grammi tutto questo è rappresentato magistralmente. Cristina rappresenta lo stereotipo della classica famiglia americana felice, con casa bellissima, figlie adorabili e marito stupendo. Ella però dovrà fare i conti con un tragico incidente automobilistico. Ma di solito, quando si viene a conoscenza del fatto, si sa l’accaduto e basta. Com’è il dopo per chi, con la disgrazia, perde la sua vita senza morire? È questa la riflessione più importante. Nel film, tutto ha origine dalla malattia fisica: una malattia cardiaca che richiede un trapianto. Trapianto reso possibile dalla morte per incidente dell’altro: vita che origina dalla morte. Cristina non sa reggere al dolore e torna alla droga nel tentativo di alleviare la sofferenza. Ma ben presto si troverà Paul a fianco, colui che ha il cuore di suo marito. È da brividi la scena in cui lei, una volta saputo, poggia la testa sul petto di Paul per sentire i battiti del cuore del suo amato.

    Sebbene chi soffra chieda quasi sempre di essere aiutato a non soffrire più, sembra quasi che dal dolore non si guarisca. Il trapianto, tornando al film, così come molti trattamenti medici e farmacologici, ha come finalità quella di liberare dal dolore o per lo meno ridurlo, rendendolo sopportabile. Ma rimane comunque un margine di sofferenza ineliminabile in quanto ogni cura comporta un effetto secondario e ogni terapia conserva un risvolto imprevedibile che non è mai solo di natura fisica, ma sempre anche psicologica. Si potrebbe affermare che, nel tentativo di eliminare dolore, si procura altro dolore. Infatti, il desiderio di eliminare il dolore, di rimuoverlo grazie ai progressi della medicina, rappresenta l’illusione umana più solida e questo comporta nuovi rischi, nuove sofferenze. Non accettare il dolore, il tentativo di escluderlo, rimanda inesorabilmente al dolore della disillusione, espone al tradimento, crea fantasie di onnipotenza sempre suscettibili di essere infrante dalla realtà dei fatti. I traumi creati dal dolore vengono memorizzati nella nostra coscienza, come tracce nella memoria, e pertanto la sofferenza è inevitabile: si può nascondere, rinnegare, combattere, ma non può né sparire, né essere dimenticata del tutto. Da questo punto di vista tutte le esperienze dolorose, di qualunque natura siano, danno la possibilità di comprendere di più se stessi, di conoscere i propri limiti e le proprie illusioni. E così, di fronte al gravoso tema del dolore, ognuno si attrezza nel modo in cui può o crede di poter fare. Spesso l’aiuto dell’altro è relativo in quanto tra chi soffre e chi non soffre si innalza un muro invalicabile e le parole, che dovrebbero apportare sollievo, sovente irritano profondamente chi sta soffrendo. Ma al tempo stesso le cerca, così come chi dà conforto è portato a pronunciarle. Nasce una sorta di solidarietà che si basa sulla possibilità di immedesimazione con il patire dell’altro. Il dolore altrui viene percepito come un dolore possibile per se stessi, non distruttivo. E allora si prova, si sperimenta empaticamente quel dolore, si cerca di parlare del dolore, per potere condividere e rendere accessibile ciò che è altrimenti inaccessibile. Ospedali, chiese, consultori, cimiteri, osterie: sono tutti luoghi in cui si istituzionalizza il tentativo umano, sociale e culturale di alleviare o consolare chi soffre.

    Ma non sempre il dolore dell’altro viene percepito come un dolore possibile per se stessi, un qualcosa da condividere, ed allora si ha paura di quella sensazione che non è nostra ma è dell’altro. Quasi la si rifiuta, come per paura di assorbire quel dolore che ci viene portato, che richiama certamente emozioni nella nostra psiche che magari non vogliamo più rivivere. Così purtroppo spesso accade che gli amici si sentano in imbarazzo e temano di non saper cosa dire o come reagire tanto che finiscono per sfuggire la persona in lutto. Allora si negano a chi soffre, non si fanno trovare, non lo cercano più, perché bisogna stare lontani da quel dolore altrui: il rischio di poterne soffrire è troppo alto. Ascoltare e sentire il dolore altrui riporta infatti automaticamente a sentire il proprio dolore, un dolore spesso assopito, ma mai elaborato del tutto. Scatta una sorta di egoismo narcisista dove per poter star bene bisogna evitare il dolore degli altri perché lo si avverte troppo minaccioso. E allora le motivazioni sono le più svariate: «Scusa ma sono impegnato in questo periodo», «Devi reagire e riprendere la vita normale al più presto», «Se non ti aiuti da solo gli altri non possono fare niente», ecc. Questo comportamento certamente ferisce e provoca forti sentimenti di sconforto e di abbandono in chi è rimasto solo. Purtroppo queste persone non capiscono che negare dignità al dolore dell’altro, trattarlo alla stregua di un’infezione da sopprimere con antibiotici, è quanto di meno terapeutico si possa immaginare. Il dolore fa soffrire come cani ma, a capirlo, sembrano essere soltanto gli ammalati. Gli altri, anche quelli che ci sono già passati, sottovalutano, offrono il loro blando pietismo, più spesso scherniscono. Se poi a soffrire è un giovane o un vecchio, l’incomprensione è totale. Con la scusa che a sedici anni non si può sapere cosa sia il vero amore, gli adulti non prendono mai troppo sul serio le cotte dei ragazzi a meno che non distolgano dallo studio. "No, gli adulti non capiscono e non hanno mai capito quanto i giovanissimi possano soffrire per amore. E ugualmente non capiscono che la stessa sofferenza possa riguardare i

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