Raccontami di te
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Anteprima del libro
Raccontami di te - Federico Floris
Un appuntamento al buio
È un giorno come un altro, di quelli infrasettimanali che a volte si sprecano nell’oblio del dolce far niente, in questo periodo tra l’autunno e l’inverno che si appresta ad arrivare. Come l’incipit di un bel romanzo, questo primo assaggio d’inverno racconta qualcosa che sta per succedere, accenna emozioni, porta profumi, colori e sapori di una storia immaginata, ma non ancora letta o vissuta.
Siedo in soggiorno nella penombra del tramonto e mi sento legato alla solita sensazione di apatia e inadeguatezza.
Improvvisamente la serratura della porta ruota, rompendo il mio noioso pomeriggio in solitudine.
Il mio compagno rientra a casa dal lavoro prima del previsto e mi coglie in flagrante con la più abitudinaria delle mie amanti: la malinconia. La lite non tarda ad arrivare; ci sentiamo entrambi come due sconosciuti che non sanno esattamente come approcciarsi, scoprendoci incompatibili l’uno con l’altro, finiamo per infastidirci a vicenda, cerchiamo di scaldare l’ambiente con frasi di circostanza e, spaventati, tentiamo di trovare argomenti che non abbiamo. Rischiamo di scrivere a quattro mani una storia insulsa e patetica.
La cena si consuma fredda in un mutismo che viene rotto dal rumore delle posate che sbattono e sfregano sui piatti. La birra lasciata a metà nel bicchiere, gesto insolito, segno di una cena non goduta. E alla fine, liberatorio, arriva lo sfogo dell’altro.
«Come fai a non avere reazioni? Perché sei sempre negativo, sempre imbronciato?» sbotta.
Perché sei sempre imbronciato. Queste parole mi riportano immediatamente indietro di anni come se, sfogliando nella galleria delle foto, il mouse si fermasse a cliccare sulla cartella 0-6 anni.
Non so cosa rispondere. La malinconia è sempre stata la mia compagna di vita, ma non mi ha mai difeso né si è presa cura di me.
Andiamo a dormire senza guardarci, senza parlarci, senza toccarci. Peggio di due estranei.
Il mattino seguente cerchiamo maldestramente di fare finta di nulla; la fretta nel prepararsi per andare al lavoro è un’ottima complice.
Sull’uscio, con la mano che impugna stretto il pomello della porta bianca, mi blocca con il suo tono di voce fermo e deciso: «Oggi telefoni a quel numero».
«Quale numero?»
So a cosa si riferisce, ma non mi va di farlo e spero che prendere tempo neutralizzi questo momento, congelandolo per sempre.
«Sai perfettamente quale. Sono giorni che ti chiedo di contattarli, e ancora niente! Se non vuoi farlo per te, almeno fallo per noi! Ammesso che tu creda ancora in un noi
.»
Queste ultime parole mi freddano come un colpo di pistola alla schiena prima di uscire, come un ultimatum. Mi risuonano nella testa tutto il giorno. La cosa che più mi angoscia è dovermi mettere in gioco, dover abbattere le consuetudini malsane in cui ormai sguazzo da una vita.
Nel pomeriggio, in pausa pranzo, sfoglio tra le foto sul mio smartphone fino a recuperare quella di un biglietto da visita che il mio compagno ha preso per me da una conoscente.
Centro di psicoterapia associata.
Chiamo.
È rapido e indolore, come qualsiasi cosa che si rimanda a lungo per paura e, una volta fatta, passa in fretta. Fissiamo un appuntamento conoscitivo; la responsabile del centro, infatti, ha bisogno di incontrarmi per decidere a quale dottore affidare il mio caso. Questo mi dà la sensazione di essere pazzo, ed è proprio il freno principale quando si decide di affrontare una terapia di questo tipo. Il termine «terapia» e la condizione di paziente ci fanno sentire malati, e chiunque al mondo rifiuterebbe di sentirsi tale. Quando ci fa comodo siamo noi stessi a definirci pazzi ma, quando si fa sul serio, siamo terrorizzati che qualcun altro veda a fondo dentro di noi. È come quando ci si mette a scrivere della propria vita: finché lo si fa con tono ironico è facile, ma quando ci si deve mettere a nudo su un foglio bianco è persino difficile trovare le parole. È un atto di grande generosità condividere con altri la propria nudità emotiva. E in questo, scriversi o raccontarsi, scrittura o psicoterapia, sono la stessa cosa.
L’appuntamento viene fissato in un giorno in cui sono libero dal lavoro, in modo da dare un senso a uno dei tanti pomeriggi persi a casa a non far nulla, così mi incammino verso un punto ignoto e lontano della città, seguendo le indicazioni su Google Maps.
Il panorama che mi trovo davanti è quello di una Milano periferica avvolta nel buio delle 19.00 di novembre. Il tragitto ormai indica un rettilineo che sembra non finire più, un viale con un lungo tratto alberato. Le canzoni canticchiate a mente, quelle che vanno in play da sole nella testa e risuonano senza stop, vengono stroncate dai clacson del traffico.
Alla fine il puntino rosso della destinazione diventa sempre più vicino e la schiera anonima di palazzi, alberi, incroci, bar, supermercati e distributori comincia ad acquistare un senso.
Arrivato, mi trovo davanti un angolo di giardino, illuminato solo dalla memoria di lampioni ormai fulminati. L’edificio è visibile grazie alle luci calde dell’interno che si scorgono dalle finestre. Guardo nuovamente la mappa virtuale sul mio smartphone, per essere sicuro di non aver sbagliato posto.
È proprio questo. Sembra del tutto distaccato dalla strada adiacente, simile a un pezzetto di mondo parallelo rubato dalla testa di chissà quale autore e messo qui per gioco.
Mi avvicino furtivo e suono al citofono. La porta viene subito aperta ed entro, lasciandomi alle spalle il rumore metallico delle macchine in coda sulla carreggiata. Una volta dentro mi sembra di essere piombato in una scatola cinese. La mia mente comincia a librarsi verso l’alto come un palloncino all’elio. Sembra di essere in una casa più che all’ingresso di uno studio. È abbastanza inquietante, ma le luci gialle soffuse rendono l’ambiente caldo e familiare, anche per me che non sono mai stato qui. Un corridoio deserto porta dritto a una scala in legno e di fianco a essa, incollato alla parete, c’è un imponente orologio a pendolo, identico a quello che aveva mia nonna paterna in soggiorno e che catturava sempre la mia attenzione, anche quando giocavo. Il pavimento è anch’esso in legno e le pareti color ruggine. L’ambiente è costrittivo, sembra imitare la casa delle streghe e anche quella di una delle amiche di mia nonna materna.
Le avevo affettuosamente ribattezzate «le streghe» perché erano vecchie, con i capelli sempre arruffati e le voci stridule. La casa era una tenuta aristocratica immersa nel verde e all’interno si percepiva un’atmosfera calda e spettrale al tempo stesso; scale in legno che collegavano i vari piani, finestre che davano sul giardino interno, quadri, tappeti persiani e orologi antichi sparsi qua e là senza più respiro, ma tenuti in vita dal fascino del passato che conservavano. Le risate delle streghe si sentivano per tutta la casa, senza che riuscissi mai a vederle bene in faccia. Si riunivano in veranda a giocare a carte oltre una porta in legno e vetro di Murano, che lasciava intravedere solo le loro sagome offuscate, come a volerle proteggere dal tempo. Mia nonna le raggiungeva e si univa a loro.
In punta di piedi seguo il corridoio e la scala che ne sembra la logica prosecuzione. Salgo e mi trovo su un pianerottolo con tre porte, di cui una spalancata, come a dire: Sono io quella giusta.
Seduta in un angolo della stanza c’è lei, la dottoressa con la quale ho fissato l’appuntamento.
«Benvenuto, lei dev’essere…»
«Sì, sono io.»
«Prego, si accomodi. Ha trovato la strada facilmente? Qui siamo un po’ nascosti, soprattutto la sera in questo periodo…»
«Sì, ho fatto un bel pezzo a piedi in effetti, ma a me piace camminare.»
Mi fissa e sorride, lo sforzo per cercare di mettermi a mio agio è evidente. Sono carico di emozioni tra cui imbarazzo, tensione e curiosità.
«Immagino il motivo per cui sia qui oggi, ma mi dica qualcosa in più.»
Detesto parlare di me; cedo quindi alla banalità e viro sulla mia routine. È come lanciare un sasso in uno stagno.
A un certo punto mi interrompe e parla dell’associazione, della loro struttura, della psicoterapia in generale. Il suo tono è calmo e rassicurante e lei mantiene un sorriso eroinomane durante la nostra intera conversazione. Parliamo di come mi sento e dell’importanza di affidarsi a qualcuno per ritrovare se stessi. Ha in mano una tazza fumante di tè e io continuo a immaginarmela come se avesse in grembo un gattone addormentato. La mia testa in quella casa si ritrova senza riconoscersi. A mano a mano che va avanti a parlare mi sembra di sentire amplificato il ticchettio delle lancette del grosso orologio a pendolo che sta giù all’ingresso. Non riesco a concentrarmi su nient’altro se non su quel rumore e sul tempo che sta per terminare. Infatti, nonostante la conversazione abbia imboccato la strada della nobiltà intellettuale della psicoterapia, siamo ancorati alla durezza del tempo che è denaro. Lo scattare dell’ora ce lo ricorda, ponendo fine a questo momento elitario.
Vado via da quella che alla fine è sembrata un’ora di lezione, non prima però di aver ricevuto il compito per casa. La traccia è il nome del dottore che lei ha ritenuto adatto a me, lo svolgimento consiste nel chiamarlo e incontrarlo, fare la sua conoscenza. Nessun obbligo, nessuna minaccia di espulsione, ma io so di non avere scelta.
La ringrazio e la saluto per sempre. Il tempo ci ha decisamente riportato ai rumori del traffico e alle rassicuranti luci al neon della metropolitana. Faccio lo stesso percorso dell’andata, però sotto un effetto rewind, come se le canzoncine canticchiate tra me e me all’andata fossero state riavvolte e con esse tutto il resto intorno.
Corro verso casa, impaziente di arrivare, desideroso di sbattere in faccia al mio compagno il fatto di avergli obbedito. E penso durante tutto il tragitto a come allungare ulteriormente il tempo per non dover contattare quell’ignoto dottore.
Un percorso a passo d’uomo
Squilla.
«Ehm… sì… pronto, buongiorno, ho avuto il suo contatto dalla dottoressa… vorrei sapere quando sarebbe possibile fissare un incontro con lei.»
I minuti successivi, li impiego a cercare di conciliare i miei turni di lavoro con i suoi spazi liberi. Troviamo finalmente un giorno comodo per entrambi, in un orario in fondo alla giornata, un po’ come la parola «vivere».
È per amore che faccio questo sforzo. Non ho scelto io il mio psicologo, come succede con i compagni di classe, con il vicino di posto sull’autobus, con i genitori, con un figlio, con la sessualità, con una malattia. Non è spettata a me la scelta. È stato un prestito, un dono che come tale si sperava gradito, ma è stato pur sempre frutto della scelta di qualcun altro.
Arrivato il fatidico giorno, mi sento frastornato, un misto di curiosità, eccitazione e nervosismo. Darò davvero una chance al mio nuovo sconosciuto amico, senza chiudergli la porta in faccia come si fa davanti a una stanza da riordinare quando non si ha voglia? Potrò alzarmi e andarmene in qualsiasi momento, ma non prima di aver accettato di rompere il guscio dell’imbarazzo e dell’astio iniziale. Dovrò imparare a conoscerlo, persino ad apprezzarlo, osservare le sue espressioni, capire le sue domande, concedergli un sorriso. Esattamente come si fa con i compagni di classe, con il vicino di posto sull’autobus, con i genitori, con un figlio, con la sessualità, con una malattia. Dovrò spogliarmi davanti a lui, imparare a non vergognarmi del suo sguardo sulla mia mente nuda e imperfetta. Se non succedesse, se la stanza rimanesse fredda nonostante la nostra profonda intimità, a quel punto potrò, anzi dovrò, rivestirmi e andarmene. Ho provato le stesse sensazioni quando ho acceso il mio pc, deciso a buttare giù qualcosa che parlasse di me, senza protezioni se non lo schermo del computer che avrei potuto spegnere in qualsiasi momento.
Non sarà come raccontarsi senza freni a uno sconosciuto in un locale, sciolti dal terzo gin tonic, o in una chat, protetti da un semplice schermo senza la paura di essere giudicati; sarà diverso, perché con lui mi sentirò inibito dal primo all’ultimo giorno.
Sono da poco passate le 19.30 e corro a prendere la metropolitana, che in una decina di fermate mi porterà vicino alla mia destinazione. Lì mi aspetta una delle mie amate camminate di almeno quindici minuti, prima di arrivare al portone che diventerà familiare nei prossimi mesi.
Camminare è per me più un esercizio per la mente che per il corpo. Mi aiuta a distendere i pensieri negativi, quelli che mi appesantiscono, e li disperde nell’aria.
Sono riuscito ad autoconvincermi che sia la scelta giusta, ho accettato di sfidare sia la mia diffidenza verso la psicoterapia che la mia pigrizia. Infatti percorrerò chilometri, anche dopo un’interminabile giornata di lavoro, per scrivere di me nella versione non corretta, senza filtri e senza remore.
Fa freddo, sono immerso nel buio di dicembre, e si avvicinano le 20.00, l’orario che, come due amanti, abbiamo stabilito per i nostri incontri.
Citofono, tremando più per l’agitazione che per